Il ruolo degli ebrei nella formazione della politica di immigrazione statunitense
Capitolo 7
Oggi… gli immigrati – sopratutto gli immigrati ebrei – sembrano più americani di quanto possa sembrare [il WASP]. Sono loro le facce, le voci e le inflessioni di pensiero che ci sembrano più familiari, letteralmente d’istinto. [Il WASP] è l’eccentrico, lo straniero, il fossile. Gli diamo uno sguardo, un po’ attoniti, e ci chiediamo: “Dove sarà andato a finire?” Ce lo ricordiamo pallido, composto, vestito con cura, speditamente sicuro di sé. E lo percepiamo come un estraneo, un forestiero, una razza piuttosto nobile in via di estinzione… Ha cessato di essere caratteristico, e non ce ne siamo accorti fino a questo momento. Non in modo così enfatico, ad ogni modo.
Quello che è successo dalla seconda guerra mondiale in poi è che la sensibilità americana è diventata parzialmente ebraica, forse tanto ebraica quanto altro… La mente americana colta è arrivata in una certa misura a ragionare in modo ebraico. Così le è stato insegnato, ed essa era ben disposta a farlo. Dopo gli uomini di spettacolo e i romanzieri sono arrivati i critici, i politici e i teologi ebraici. Critici, politici e teologi sono formatori per professione; plasmano i modi di vedere. (Walter Kerr 1968, D1, D3)
La politica di immigrazione è un esempio paradigmatico dei conflitti di interesse tra gruppi etnici, perché è questa politica a determinare la futura composizione demografica della nazione. I gruppi etnici incapaci di influenzare la politica migratoria per i propri interessi alla fine saranno rimpiazzati da gruppi in grado di raggiungere tale obiettivo. La politica migratoria è pertanto di interesse fondamentale per un evoluzionista.
Questo capitolo esamina il conflitto etnico tra ebrei e gentili nell’ambito della politica migratoria. La politica di immigrazione, tuttavia, costituisce un solo aspetto dei conflitti di interesse tra ebrei e gentili negli Stati Uniti. I contrasti tra gli ebrei e la struttura del potere dei gentili a partire dal tardo diciannovesimo secolo sono sempre stati intrisi di sfumature di antisemitismo. Queste battaglie riguardavano questioni di mobilità sociale ascendente degli ebrei, le quote di rappresentanza ebraica
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nelle scuole più prestigiose, introdotte a partire dal diciannovesimo secolo e culminate negli anni ’20 e ’30, le crociate anticomuniste nel secondo dopoguerra, nonché la viva preoccupazione per le influenze culturali dei media più importanti, dagli scritti di Henry Ford negli anni ’20 alle inquisizioni hollywoodiane dell’epoca di McCarthy fino all’era contemporanea ([MacDonald 1998a, Separation and Its Discontents: Toward an Evolutionary Theory of Anti- Semitism, da qui in poi] SAID, cap. 2). Che l’antisemitismo avesse a che fare con queste questioni si può intuire dal fatto che gli storici del giudaismo (p. es. Sachar 1992, 620 ss.) sentono di dover includere i resoconti di questi eventi in quanto importanti per la storia degli ebrei negli Stati Uniti, attraverso le dichiarazioni antisemitiche di molti dei partecipanti gentili e la comprensione autocosciente dei partecipanti e degli osservatori ebrei.
Il contributo ebraico al condizionamento della politica migratoria negli Stati Uniti è di particolare rilievo come aspetto di un conflitto etnico. Il ruolo degli ebrei nell’influenzare la politica migratoria ha esibito certe qualità singolari che hanno contraddistinto gli interessi ebraici da quelli di altri gruppi favorevoli alle politiche migratorie liberali. Per gran parte del periodo dal 1881 al 1965, uno degli interessi ebraici nelle politiche migratorie liberali scaturiva dal desiderio di assicurare un riparo agli ebrei in fuga dalle persecuzioni antisemite in Europa e altrove. Le persecuzioni antisemite sono state un fenomeno ricorrente nel mondo contemporaneo, a cominciare dai pogrom russi del 1881 fino al secondo dopoguerra nell’Unione sovietica e nell’Europa dell’Est. Di conseguenza, la liberalizzazione dell’immigrazione costituiva un interesse ebraico perché “la sopravvivenza spesso obbligava gli ebrei a cercare rifugio in altre terre” (Cohen 1972, 341). Per ragioni analoghe, gli ebrei hanno sistematicamente patrocinato una politica estera internazionalista perché “un’America di vedute internazionali sarebbe stata probabilmente più attenta ai problemi delle comunità ebraiche all’estero” (p. 342).
È documentato inoltre che gli ebrei, molto più di qualsiasi altro gruppo di origine europea negli Stati Uniti, hanno percepito le politiche migratorie liberali come un meccanismo per assicurare che gli Stati Uniti diventassero una società pluralistica piuttosto che unitaria ed omogenea (p. es. Cohen 1972). Il pluralismo è utile per gli interessi ebraici sia interni (intragruppo) che esterni (intergruppi). Il pluralismo serve gli interessi ebraici perché legittima l’interesse interno degli ebrei a razionalizzare e promuovere apertamente un interesse a favore di un impegno ebraico di gruppo e di non assimilazione che sia manifesto piuttosto che semiocculto, ovvero ciò che Howard Sachar (1992, 427) definisce come la funzione di “legittimare la preservazione di una cultura minoritaria all’interno di una società ospitante maggioritaria.” Sia Neuser (1993) che Ellman (1987) ipotizzano che l’accresciuto senso di coscienza etnica osservabile di recente nei circoli ebraici sia stato influenzato da questo movimento generale nella società americana verso la legittimazione del pluralismo culturale e dell’etnocentrismo dei gruppi minoritari. Questa tendenza verso forme esplicite, piuttosto che quelle seminascoste che hanno caratterizzato il giudaismo nelle società occidentali del ventesimo secolo, è vista da molti come cruciale
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per la continuità del giudaismo (p. es. Abrams 1997; Dershowitz 1997; si veda SAID, cap. 8). L’ebraismo riformato, ossia la forma meno esplicita dell’ebraismo contemporaneo, sta diventando sempre più tradizionale, con una maggiore enfasi sui riti religiosi e un forte desiderio di prevenire i matrimoni misti. A una recente conferenza di rabbini riformati si è voluto sottolineare che l’accresciuto tradizionalismo si deve in parte alla crescente legittimità della coscienza etnica in generale (Los Angeles Times, 20 giugno 1998, A26).
Il pluralismo etnico e religioso serve altresì gli interessi esterni ebraici perché gli ebrei diventano solamente uno dei numerosi gruppi etnici. Ciò implica la diffusione dell’influenza politica e culturale tra i vari gruppi etnici e religiosi, e pertanto diventa difficile o impossibile che si formino gruppi coesivi e consolidati di gentili uniti nell’opposizione all’ebraismo. Storicamente, i maggiori movimenti antisemiti tendono a sorgere in quelle società che, ad eccezione degli ebrei, sono religiosamente o etnicamente omogenee (si veda SAID). Per contro, un motivo della relativa assenza dell’antisemitismo negli Stati Uniti rispetto all’Europa è che “gli ebrei non risaltavano come un gruppo solitario di anticonformisti [religiosi]” (Higham 1984, 156). Sebbene il pluralismo etnico e culturale certamente non garantisca di soddisfare gli interessi ebraici (si veda cap. 8), tuttavia resta il fatto che le società etnicamente e religiosamente pluralistiche sono state percepite dagli ebrei come più inclini a soddisfare gli interessi ebraici rispetto alle società caratterizzate da un’omogeneità etnica e religiosa tra gentili.
Infatti, sostanzialmente, la motivazione di tutta l’attività politica e intellettuale ebraica esaminata in questo volume è intimamente legata alla paura dell’antisemitismo. Svonkin (1997, 8 ss.) fa notare che un senso di “inquietudine” e insicurezza pervadeva la comunità ebraica americana a seguito della seconda guerra mondiale, nonostante il fatto che l’antisemitismo fosse diminuito a tal punto da diventare un fenomeno marginale. Come diretta conseguenza, “L’obiettivo principale delle agenzie per i rapporti intergruppi [cioè l’AJCommittee, l’AJCongress, e l’ADL] dopo il 1945 era di… prevenire l’emergere di un movimento di massa reazionario e antisemita negli Stati Uniti” (Svonkin 1997, 8).
Negli anni ’70, Isaacs (1974, 14 ss.) descrive l’insicurezza dilagante degli ebrei americani e la loro ipersensibilità a qualsiasi cosa che si potesse ritenere antisemita. Nell’intervistare “noti uomini pubblici” sulla questione dell’antisemitismo negli anni ’70, Isaacs pose la domanda: “Crede che ciò potrebbe succedere qui?” “Non fu mai necessario definire ‘ciò.’ In quasi tutti i casi, la risposta era pressoché uguale: ‘Se si conosce minimamente la storia, si deve presumere non che potrebbe succedere, ma che è probabile che succeda,’ o ‘Non è una questione di se; è una questione di quando’” (p. 15). Isaacs, a mio parere correttamente, attribuisce l’intensità del coinvolgimento ebraico nella politica proprio a questa paura dell’antisemitismo. L’attivismo ebraico sul versante dell’immigrazione è solo un aspetto del movimento multiforme mirato a impedire lo sviluppo
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di un movimento di massa antisemita nelle società occidentali. Altri aspetti di questo programma sono esaminati brevemente qui di seguito.
Asserzioni esplicite che legano le politiche migratorie all’interesse degli ebrei nel pluralismo culturale sono riscontrabili tra importanti scienziati sociali e attivisti politici ebrei. Nella sua recensione di Cultural Pluralism and the American Idea [Pluralismo culturale e l’idea americana, N.d.T.] di Horace Kallan (1956), apparsa su Congress Weekly (pubblicata dall’AJCongress), Joseph L. Blau (1958, 15) osservò che “la prospettiva di Kallen è necessaria per aiutare la causa dei gruppi e delle culture di minoranza in questa nazione senza una maggioranza permanente” – sottintendendo che l’ideologia del multiculturalismo di Kallen si oppone all’interesse di qualsiasi gruppo etnico a dominare gli Stati Uniti. Il noto scrittore ed eminente sionista Maurice Samuel (1924, 215), in parte come reazione negativa alla legge sull’immigrazione del 1924, scrisse: “Se, dunque, la lotta tra noi [ovvero, tra ebrei e gentili] dovrà mai andare oltre quella fisica, occorre che le vostre democrazie modifichino le loro rivendicazioni di omogeneità razziale, spirituale e culturale nei confronti dello Stato. Ma sarebbe ridicolo prendere sul serio questa possibilità, dal momento che la tendenza di questa civiltà è nella direzione opposta. C’è un costante approccio teso all’identificazione del governo con la razza, piuttosto che con lo Stato politico.”
Samuel deplorò la legislazione del 1924 in quanto violava la sua concettualizzazione degli Stati Uniti come entità puramente politica senza implicazioni etniche.
Abbiamo appena assistito, in America, alla ripetizione, nella tipica forma adatta a questo paese, della farsa malvagia a cui l’esperienza plurisecolare non ci ha ancora abituato. Se l’America aveva un significato, esso risiedeva nel peculiare tentativo di superare la tendenza della nostra attuale civiltà – l’identificazione della razza con lo Stato… l’America pertanto era il Nuovo Mondo sotto questo aspetto cruciale – ovvero lo Stato era puramente un ideale, e la nazionalità era identica solo con l’accettazione dell’ideale. Ma ora sembra che quel punto di vista fosse completamente errato, che l’America fosse incapace di superare le sue origini, e che le sembianze di un nazionalismo ideale fossero soltanto una fase dell’effettivo sviluppo dello spirito gentile universale… Oggigiorno, con la razza che trionfa sull’ideale, l’antisemitismo mostra le zanne, e al rifiuto impietoso del diritto umano più elementare, il diritto di asilo, si aggiunge
l’insulto vigliacco. Non solo siamo esclusi, ma ci viene detto, nell’inequivocabile linguaggio delle leggi sull’immigrazione, che siamo un popolo “inferiore”. Senza il coraggio morale di affrontare apertamente i suoi istinti malvagi, il paese si è preparato, tramite i suoi giornalisti, con
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una lunga sorsata di denigrazione dell’ebreo e, una volta sufficientemente ispirato dalle pozioni popolari e “scientifiche”, ha commesso l’atto. (pp. 218-220)
Un’opinione analoga è espressa dall’eminente scienziato sociale e attivista etnico ebreo Earl Raab, il quale esprime commenti molto positivi sul successo della politica migratoria americana nell’alterare la composizione etnica degli Stati Uniti dal 1965.168 Raab rileva che la comunità ebraica ha assunto un ruolo guida nel modificare la tendenza della politica migratoria americana a favorire l’Europa nordoccidentale (1993a, 17), e sostiene inoltre che uno dei fattori che hanno inibito l’antisemitismo negli Stati Uniti di oggi è che “una crescente eterogeneità etnica, derivata dall’immigrazione, ha reso ancora più difficile la formazione di un partito politico o di un movimento di massa di fanatismo” (1995, 91). O, per dirla in modo più colorito:
L’Ufficio del Censimento ha appena annunciato che tra poco circa la metà della popolazione americana sarà non-bianca o non-europea. E saranno tutti cittadini americani. Abbiamo superato il punto in cui un partito nazista-ariano può prevalere in questo paese.
Noi [gli ebrei] abbiamo alimentato il clima di opposizione al fanatismo per circa mezzo secolo. Questo clima non è ancora perfetto, ma la natura eterogenea della nostra popolazione tende a renderlo irreversibile – e rende i nostri vincoli costituzionali contro il fanatismo più concreti che mai. (Raab 1993b, 23)
Giudizi positivi sulla diversità culturale sono apparsi in altre dichiarazioni di scrittori e leader ebrei in merito all’immigrazione. Charles Silberman osserva: “Gli ebrei americani sono impegnati a favore della tolleranza culturale per via della loro convinzione – saldamente radicata nella storia – che gli ebrei sono sicuri solo in una società capace di accettare un’ampia diversità di atteggiamenti e comportamenti, nonché di gruppi religiosi ed etnici. È questa convinzione, per esempio, non l’approvazione dell’omosessualità, che porta la stragrande maggioranza degli ebrei americani a sostenere i ‘diritti degli omosessuali’ e ad assumere una posizione liberale sulla maggior parte delle cosiddette questioni ‘sociali.’”149
Analogamente, nell’elencare i benefici dell’immigrazione, il direttore del Washington Action Office [ufficio operativo, N.d.T.] del Council of Jewish Federations [Consiglio delle federazioni ebraiche, N.d.T] affermò che l’immigrazione “vuol dire diversità, arricchimento culturale e opportunità economiche per gli immigrati” (Forward, 8 marzo 1996, 5). Riassumendo la partecipazione ebraica alle battaglie legislative sull’immigrazione del 1996, un articolo di giornale dichiarò: “I gruppi ebraici non sono riusciti a sopprimere una serie di provvedimenti che riflettono il tipo
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di opportunismo politico da loro visto come un attacco frontale al pluralismo americano” (Detroit Jewish News, 10 maggio 1996).
Essendo le politiche migratorie liberali un cruciale interesse ebraico, non sorprende che il sostegno a favore delle stesse pervada l’intero spettro politico ebraico. Abbiamo osservato che Sidney Hook, il quale insieme agli altri Intellettuali di New York può essere considerato un precursore intellettuale del neoconservatorismo, identificava la democrazia con l’uguaglianza delle differenze e con la massimizzazione della diversità culturale (si veda cap. 6). I neoconservatori sono stati forti sostenitori delle politiche liberali sull’immigrazione, e ci sono stati attriti tra i neoconservatori prevalentemente ebrei e i paleo-conservatori prevalentemente gentili sulla questione dell’immigrazione dal terzo mondo negli Stati Uniti. I neoconservatori Norman Podhoretz e Richard John Neuhaus reagirono molto negativamente a un articolo di un paleo-conservatore preoccupato che una tale immigrazione potesse finire con gli Stati Uniti dominati da questi immigrati (si veda Judis 1990, 33). Altri esempi sono i neoconservatori Julian Simon (1990) e Ben Wattenberg (1991), entrambi i quali sono a favore di altissimi livelli di immigrazione da ogni parte del mondo, in modo che gli Stati Uniti diventino quella che Wattenberg descrive come la prima “nazione universale” del mondo. Basandosi su dati recenti, Fetzer (1996) rileva che gli ebrei continuano ad essere decisamente più favorevoli all’immigrazione negli Stati Uniti rispetto a qualsiasi altra etnia o religione.
Va notato, in linea generale, che l’efficacia delle organizzazioni ebraiche nell’influenzare la politica migratoria statunitense è stata facilitata da certe caratteristiche della comunità ebraica americana direttamente legate al giudaismo come strategia evolutiva di gruppo, e in modo particolare da un QI pari ad almeno una deviazione standard al di sopra della media caucasica (PTSDA [MacDonald 1994, A People That Shall Dwell Alone: Judaism as a Group Evolutionary Strategy, da qui in poi PTSDA], cap. 7). Nelle società contemporanee, un QI alto è associato al successo in un ampio spettro di attività, specialmente la
ricchezza e lo stato sociale (Herrnstein & Murray 1994). Come fa notare Neuringer (1971, 87), l’influenza ebraica sulla politica migratoria era facilitata dalla ricchezza, dal livello di istruzione e dallo stato sociale degli ebrei. Manifestando la propria sproporzionata rappresentanza in termini di successo e di influenza politica, le organizzazioni ebraiche sono riuscite a condizionare la politica di immigrazione statunitense in misura enormemente sproporzionata perché gli ebrei, come gruppo, sono molto organizzati, intelligenti e politicamente astuti, e perché disponevano di un alto livello di risorse finanziarie, politiche e intellettuali per il perseguimento dei loro obiettivi politici. Analogamente, Hollinger (1996, 19) osserva che gli ebrei, rispetto ai cattolici, incidevano maggiormente sul declino dell’omogenea cultura cristiana protestante, per via della loro maggior ricchezza, stato sociale, e competenze tecniche nella sfera intellettuale. Nell’ambito della politica migratoria, la più importante organizzazione attivista ebraica, l’AJCommittee, era caratterizzata da “forte leadership [particolarmente Louis Marshall], coesione interna,
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programmi ben fondati, tecniche di lobbying sofisticate, alleati non ebrei ben selezionati, e ottimo tempismo” (Goldstein 1990, 333). Goldberg (1996, 38-39) fa notare che attualmente ci sono circa 300 organizzazioni nazionali ebraiche negli Stati Uniti con un budget complessivo stimato di circa 6 miliardi di dollari – una somma, osserva Goldberg, che supera il prodotto interno lordo di metà dei Paesi membri delle Nazioni Unite.
Lo sforzo ebraico teso a trasformare gli Stati Uniti in una società pluralistica si è focalizzato su vari fronti. Oltre a discutere le attività politiche e di lobbying pertinenti alla politica dell’immigrazione, verranno menzionati gli sforzi ebraici nella sfera intellettuale-accademica, nell’ambito dei rapporti tra Stato e Chiesa, e nell’organizzare gli afroamericani come forza politica e culturale.
1) Sforzi intellettuali-accademici. Hollinger (1996, 4) nota “la trasformazione della demografia etnico-religiosa della vita accademica americana per mano degli ebrei” nel periodo dagli anni ’30 agli anni ’60, come pure l’influenza ebraica sulle tendenze verso la secolarizzazione della società americana e nel promuovere l’ideale del cosmopolitismo (p. 11). È molto probabile che il ritmo di questa influenza sia stato condizionato dalle battaglie sull’immigrazione degli anni ’20. Hollinger osserva che “l’influenza del vecchio establishment protestante persisteva fino agli anni ’60 in larga misura grazie alla legge sull’immigrazione del 1924: se la massiccia immigrazione di cattolici ed ebrei fosse andata avanti ai livelli precedenti al 1924, il corso della storia degli USA sarebbe stato diverso in tanti aspetti, tra cui, si potrebbe ragionevolmente ipotizzare, una più rapida diminuzione dell’egemonia culturale protestante. La limitazione dell’immigrazione donò nuova linfa vitale a questa egemonia” (22). È legittimo supporre, pertanto, che le battaglie sull’immigrazione dal 1881 al 1965 hanno avuto un’enorme importanza storica nel dettare le forme della cultura americana nel tardo ventesimo secolo.
Di particolare interesse è l’ideologia secondo la quale gli Stati Uniti dovrebbero essere una società etnicamente e culturalmente pluralistica. A partire da Horace Kallen, gli intellettuali ebrei sono stati all’avanguardia nello sviluppo di modelli degli Stati Uniti come società etnicamente e culturalmente pluralistica. Rimarcando l’utilità del pluralismo culturale per favorire gli interessi ebraici interni nel mantenere il separatismo culturale, personalmente Kallen univa alla sua ideologia del pluralismo culturale una profonda immersione nella storia e nella letteratura ebraica, l’impegno per il sionismo e l’attivismo politico a favore degli ebrei dell’Europa dell’Est (Sachar 1992, 425 ss.; Frommer 1978).
Kallen (1915, 1924) sviluppò un ideale “policentrico” per i rapporti etnici americani. Kallen definì l’etnicità come un derivato del patrimonio biologico, implicando che gli ebrei dovrebbero poter rimanere un gruppo geneticamente e culturalmente coesivo, partecipando nello stesso tempo alle istituzioni democratiche americane. L’idea che gli Stati Uniti dovrebbero essere organizzati come un insieme di
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gruppi etnico-culturali separati era accompagnata da un’ideologia secondo la quale i rapporti tra gruppi sarebbero collaborativi e benevoli: “Kallen levò lo sguardo al di sopra del tumulto che gli girava intorno verso un regno ideale in cui la diversità e l’armonia coesistono” (Higham 1984, 209). Analogamente, in Germania, il leader ebraico Moritz Lazarus, contrastando le opinioni dell’intellettuale tedesco Heinrich von Treitschke, affermava che la continuata separatezza dei diversi gruppi etnici contribuiva alla ricchezza della cultura tedesca (Schorsch 1972, 63). Lazarus, inoltre, elaborò la dottrina della doppia lealtà, che sarebbe diventata un caposaldo del movimento sionista. Già nel 1862 Moses Hess aveva formato l’opinione che il giudaismo avrebbe condotto il mondo verso un’epoca di armonia universale in cui ogni gruppo etnico avrebbe mantenuto la rispettiva esistenza separata, ma senza alcun controllo territoriale da parte dei gruppi (si veda SAID, cap. 5).
Kallen scrisse il suo libro del 1915 in parte come reazione alle idee di Edward A. Ross (1914). Ross, un sociologo darwiniano, era del parere che l’esistenza di gruppi nettamente demarcati tendesse a creare una concorrenza intergruppi per le risorse – chiaramente un’ottica conforme in larga misura alle teorie e ai dati presentati in SAID. Il commento di Higham è interessante perché dimostra che le idee romantiche di Kallen sulla coesistenza di gruppo erano in forte contraddizione con la realtà della concorrenza intergruppi ai suoi tempi. Infatti, va notato che Kallen era un importante leader dell’AJCongress. Durante gli anni ’20 e ’30 l’AJCongress si batteva per i diritti economici e politici di gruppo degli ebrei nell’Europa dell’Est in un’epoca in cui le tensioni etniche e la persecuzione degli ebrei erano ampiamente diffuse, e nonostante molti temessero che questi diritti non avrebbero fatto altro che esacerbare le tensioni esistenti. L’AJCongress esigeva che agli ebrei venisse concessa la rappresentanza politica proporzionale nonché la possibilità di organizzare le proprie comunità e di preservare una cultura nazionale ebraica autonoma. I trattati con i paesi dell’Europa dell’Est e la Turchia includevano disposizioni tese ad assicurare che lo Stato fornisse istruzioni nelle lingue minoritarie e che gli ebrei avessero il diritto di rifiutarsi di comparire in tribunale o di svolgere altre mansioni pubbliche il giorno dello Shabbat (Frommer 1978, 162).
L’idea di Kallen del pluralismo culturale come modello per gli Stati Uniti venne popolarizzata tra gli intellettuali gentili da John Dewey (Higham 1984, 209), il quale a sua volta era appoggiato dagli intellettuali ebrei: “Se i congregazionalisti non più praticanti come Dewey non avevano bisogno di immigrati per essere ispirati a spingere contro i limiti delle sensibilità protestanti più liberali, i tipi come Dewey erano clamorosamente incoraggiati in quella direzione dagli intellettuali ebrei che incontravano nelle comunità accademiche e letterarie urbane” (Hollinger 1996, 24). “Una forza in questo [conflitto culturale degli anni ’40] era un’intellighenzia laica, marcatamente di sinistra, sempre più ebrea, radicata prevalentemente… nelle comunità accademiche della filosofia e delle scienze sociali… Lo spirito guida era proprio l’anziano John Dewey, il quale continuava a contribuire saltuariamente alla causa con articoli e discorsi (p. 160).
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(Gli editori della Partisan Review, la principale rivista degli Intellettuali di New York, pubblicavano i lavori di Dewey e lo chiamavano “il più importante filosofo americano” [PR 13:608, 1946]; anche Sidney Hook [1987, 82], studente di Dewey e uno degli Intellettuali di New York, ne cantava le lodi, definendolo “il leader intellettuale della comunità progressista negli Stati Uniti” e “una specie di tribuno intellettuale delle cause progressiste.”) Dewey, essendo il più importante laicista americano, era alleato con un gruppo di intellettuali ebrei contrari alle “formulazioni specificamente cristiane della democrazia americana” (Hollinger 1996, 158). Dewey manteneva rapporti stretti con gli Intellettuali di New York, molti dei quali erano trotzkisti, e presiedette la commissione Dewey che esonerò Trotskij dalle accuse mosse contro di lui nei processi di Mosca del 1936. Dewey era molto influente tra il pubblico in generale. Henry Commager descrisse Dewey come “la guida, il mentore e la coscienza del popolo americano; certamente non sarebbe un’esagerazione dire che, per un’intera generazione, nessuna questione veniva chiarita prima che Dewey si esprimesse in merito” (in Sandel 1996, 36). Dewey era il principale fautore dell’“istruzione progressiva” e contribuì alla fondazione della New School for Social Research [Nuova scuola per la ricerca sociale, N.d.T.] e dell’American Civil Liberties Union [Sindacato americano per le libertà civili, N.d.T.], entrambe organizzazioni sostanzialmente ebraiche (Goldberg 1996, 46, 131). Come nel caso di diversi altri gentili discussi in questo volume, Dewey, la cui “scarsa presenza come scrittore, oratore, o personalità, rende la sua popolarità alquanto misteriosa” (Sandel 1996, 35) rappresentava il volto pubblico di un movimento dominato da intellettuali ebrei.
Le idee di Kallen hanno esercitato una fortissima influenza sulla formazione delle auto-concettualizzazioni degli ebrei in merito al proprio status in America. Questa influenza era evidente già dal 1915 tra i sionisti americani, quale Louis D. Brandeis.150 Brandeis concepiva gli Stati Uniti come costituiti da diverse nazionalità, il cui libero sviluppo “arricchirebbe spiritualmente gli Stati Uniti e li renderebbe una democrazia per eccellenza” (Gal 1989, 70). Queste idee sono diventate “una distinta caratteristica del sionismo convenzionale americano, sia laico che religioso” (Gal 1989, 70). Il pluralismo culturale era anch’esso un elemento caratterizzante del movimento prevalentemente ebraico delle relazioni intergruppi nel secondo dopoguerra, sebbene questi intellettuali talvolta presentassero tali idee in termini di “unità nella diversità” o “democrazia culturale” in un tentativo di eliminare l’implicazione che gli Stati Uniti dovrebbero essere letteralmente una federazione di diversi gruppi nazionali come sosteneva l’AJCongress nel caso dell’Europa dell’Est e altrove (Svonkin 1997, 22). L’influenza di Kallen in realtà si estendeva a tutti gli ebrei istruiti:
Legittimando la preservazione di una cultura minoritaria all’interno di una società ospitante di maggioranza, il pluralismo fungeva da ancoraggio intellettuale per una seconda generazione ebraica istruita, sostenendo la sua coesione e le sue più tenaci imprese collettive
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attraverso le difficoltà della grande depressione e del rinnovato antisemitismo, attraverso lo choc del nazismo e dell’Olocausto, finché l’emergere del sionismo nel secondo dopoguerra non si diffuse tra la comunità ebraica americana con il suo culminante fervore di redenzione. (Sachar 1992, 427)
Come dichiarò David Petergorsky, direttore esecutivo dell’AJCongress nel suo discorso all’assemblea biennale dell’AJCongress nel 1948:
Siamo saldamente convinti che la sopravvivenza ebraica dipenderà, da una parte, dalla creazione di uno stato ebraico in Palestina e, dall’altra, dall’esistenza di una comunità ebraica creativa, consapevole e ben equilibrata in questo paese. Tale comunità creativa può esistere solo nell’ambito di una società democratica progressista e in espansione che, attraverso le sue istituzioni e politiche pubbliche, dia piena espressione al concetto del pluralismo culturale. (In Svonkin 1997, 82; corsivo nel testo)
Oltre all’ideologia del pluralismo culturale ed etnico, il successo finale degli atteggiamenti ebraici sull’immigrazione fu condizionato anche dai movimenti intellettuali esaminati nei capitoli 2-6. Complessivamente questi movimenti, e in modo particolare il lavoro di Franz Boas, hanno comportato un declino del pensiero evolutivo e biologico nel mondo accademico. Sebbene priva di effettiva incidenza sulla posizione restrizionista nei dibattiti congressuali sull’immigrazione (incentrati principalmente sulla correttezza del mantenimento dello status quo etnico – si veda sotto), la prevalenza delle teorie evolutive di razza e etnicità (Singerman 1986), specialmente quelle di Madison Grant, era una componente dello zeitgeist intellettuale degli anni ’20. In The Passing of the Great Race [La scomparsa della grande razza, N.d.T.] (1921) Grant sostenne che il lignaggio dell’America coloniale derivava da elementi razziali nordici superiori e che l’immigrazione di altre razze avrebbe abbassato i livelli di competenza dell’intera società, nonché minacciato le istituzioni democratiche e repubblicane. Le idee di Grant venivano propagate dai media al tempo dei dibattiti sull’immigrazione (si veda Divine 1957, 12 ss.) e spesso provocavano commenti negativi nelle pubblicazioni ebraiche quali The American Hebrew (p. es. 21 marzo 1924, 554, 625).
La lettera di Grant al Consiglio per l’immigrazione e la naturalizzazione della Camera dei rappresentanti enfatizzava l’argomento principale dei restrizionisti, ovvero che l’uso del censimento del 1890 della popolazione nata all’estero come base della legge sull’immigrazione era equo per tutti i gruppi etnici allora presenti nel paese, e che l’uso del censimento del 1910 era discriminatorio nei confronti dei “nativi americani i cui antenati vivevano in questo paese prima della sua indipendenza.” Grant si esprimeva inoltre a favore delle restrizioni numeriche per le nazioni dell’emisfero occidentale,
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perché questi paesi “forniscono talvolta immigrati molto indesiderabili. I messicani che entrano negli Stati Uniti sono prevalentemente di sangue indiano, e i recenti test di intelligenza hanno mostrato il loro basso status intellettuale. Ne abbiamo già fin troppi nei nostri stati sudoccidentali, e il loro aumento va frenato.”151 Grant aveva delle riserve anche sulla possibilità di assimilare gli immigrati recenti. Accluse alla sua lettera un editoriale del Chicago Tribune riguardante un evento a Hamtramck, Michigan, dove i nuovi immigrati avrebbero richiesto “il dominio polacco,” l’espulsione dei non polacchi, e l’uso esclusivo della lingua polacca da parte degli ufficiali federali. Grant inoltre sosteneva che le differenze tra i tassi di riproduzione avrebbero portato alla dispersione dei gruppi che ritardavano il matrimonio e che avevano meno figli – commento che riflette le differenze etniche nelle strategie di ciclo vitale (Rushton 1995) e che indica chiaramente la preoccupazione che, a causa dell’immigrazione, il suo gruppo etnico verrebbe rimosso dai gruppi etnici con una crescita naturale più alta. In linea con le sue apprensioni riguardanti gli immigrati provenienti dal Messico, i dati recenti indicano che le adolescenti di origine messicana hanno il più alto tasso di natalità negli Stati Uniti e che, entro il 2040, gli abitanti di origine messicana costituiranno la maggioranza dello stato della California. Nel 1995, per le donne di origine messicana tra i 15 e i 19 anni di età il tasso di natalità era pari al 125 per mille rispetto al 39 per mille per le donne bianche non latino-americane e al 99 per mille nel caso delle donne nere non latino-americane. Le donne di origine messicana avevano mediamente 3,3 figli, le donne bianche non latino-americane 1,8 figli e le donne nere latino-americane 2,2 figli (Los Angeles Times, 13 febbraio 1998, pp. A1, A16). Per di più, gli attivisti latino-americani hanno una politica chiaramente articolata volta a “riconquistare” gli Stati Uniti attraverso l’immigrazione e l’alto tasso di natalità.152
Nel capitolo 2 ho indicato che Stephen Jay Gould e Leon Kamin avevano presentato una descrizione estremamente esagerata ed essenzialmente falsa del ruolo svolto dai dibattiti sul QI degli anni ’20 nel far passare legislazione che limitava l’immigrazione. È altrettanto facile ingigantire l’importanza delle teorie sulla superiorità nordica come elemento del sentimento popolare e congressuale a favore delle restrizioni. Come sottolineato da Singerman (1986, 118-119), “l’antisemitismo razziale” veniva utilizzato solo da una “manciata di scrittori” e “il ‘problema’ ebraico… era una preoccupazione minore persino tra autori ampiamente pubblicati quali Madison Grant o T. Lothrop Stoddard e nessuno degli individui esaminati [nell’analisi di Singerman] potrebbe essere qualificato come antisemita professionale o propagandista a tempo pieno
contro gli ebrei, nazionali o stranieri.” Come indicato qui di seguito, gli argomenti relativi alla superiorità nordica, ivi inclusa la presunta superiorità intellettuale nordica, avevano un ruolo notevolmente trascurabile nei dibattiti del Congresso sull’immigrazione negli anni ’20, essendo l’argomentazione comune dei restrizionisti che la politica migratoria avrebbe dovuto riflettere equamente gli interessi di tutti i gruppi etnici presenti nel paese. È persino comprovato che l’argomento della superiorità nordica godesse di scarso
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favore tra il pubblico: Nel 1924, un membro dell’Immigration Restriction League [Lega per la restrizione dell’immigrazione, N.d.T.] dichiarò che “il paese è piuttosto stufo di questa roba intellettualoide sulla superiorità nordica” (in Samelson 1979, 136).
Ciononostante, è probabile che il declino delle teorie evolutive e biologiche di razza ed etnicità abbia facilitato l’inversione di rotta della politica migratoria prodotta dalla legge del 1965. Come rileva Higham (1984), al momento della vittoria definitiva nel 1965, che rimosse dalla politica migratoria le origini nazionali e l’ascendenza razziale, aprendo l’immigrazione a tutti i gruppi, la prospettiva boasiana del determinismo culturale e dell’antibiologismo era già diventata ordinario sapere accademico. Di conseguenza, “diventò una moda intellettuale negare l’esistenza stessa delle differenze etniche persistenti. Le razioni scatenate privarono i sentimenti razziali popolari di una potente arma ideologica” (Higham 1984, 58-59).
Gli intellettuali ebraici erano considerevolmente coinvolti nel movimento teso a estirpare le idee razziali di Grant e altri (Degler 1991, 200). Effettivamente, i restrizionisti si sentivano sotto il tiro degli intellettuali ebraici persino durante i dibattiti precedenti ai disegni di legge sull’immigrazione del 1921 e del 1924. Nel 1918 Prescott F. Hall, segretario dell’Immigration Restriction League, scrisse a Grant: “Ciò che cercavo… era il nome di qualche noto antropologo che si era espresso a favore della non uguaglianza delle razze… gli ebrei mi stanno sempre addosso nella discussione sull’uguaglianza e pensavo che tu potessi nominarne qualcuno su due piedi (oltre a [Henry Fairfield] Osborn) da citare a mio sostegno” (in Samelson 1975, 467).
Inoltre Grant credeva che gli ebrei fossero impegnati in una campagna mirata a screditare la ricerca razziale. Nell’introduzione all’edizione del 1921 di The Passing of the Great Race, Grant lamentava che “è praticamente impossibile far pubblicare sui giornali americani qualsiasi riflessione su certe religioni o razze che sono istericamente sensibili persino quando vengono menzionate per nome. L’idea sottostante sembra essere che sopprimendo la pubblicazione, i fatti stessi alla fine scompariranno. All’estero, le circostanze sono altrettanto gravi, e dall’autorevole voce di uno dei maggiori antropologi in Francia veniamo a sapere che la raccolta di misure e dati antropologici tra le reclute allo scoppio della Grande guerra è stata impedita dall’influenza ebraica, che mirava a sopprimere qualsiasi accenno alla differenziazione razziale in Francia” (pp. xxxii-xxxiii).
Boas era fortemente motivato dalla questione dell’immigrazione sorta all’inizio del secolo. Carl Degler (1991, 74) nota che la corrispondenza professionale di Boas “rivela che un importante motivo dietro il suo famoso progetto di misurazione delle teste nel 1910 era il suo forte interesse personale a mantenere la diversità tra la popolazione degli Stati Uniti.” Questa ricerca, i cui esiti vennero inclusi nel Congressional Record [Gazzetta del Congresso, N.d.T.] dal deputato Emanuel Celler durante il dibattito sulle
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restrizioni all’immigrazione (Cong. Rec., 8 aprile, 1924, 5915-5916), constatò che le differenze ambientali conseguenti all’immigrazione causarono differenze nella forma della testa. (Al tempo, la forma della testa, determinata dall’“indice cefalico”, era la principale misura usata dagli scienziati impegnati nella ricerca sulle differenze razziali.) Boas sosteneva che la sua ricerca dimostrava che tutti i gruppi stranieri che vivevano in circostanze sociali favorevoli erano diventati assimilati agli Stati Uniti, nel senso che le loro misure fisiche si avvicinavano alla tipologia americana. Sebbene nel corpo del suo lavoro si mostrasse molto più circospetto circa le sue conclusioni (si veda anche Stocking 1968, 178), Boas (1911, 5) affermò nell’introduzione che “vanno ignorate tutte le paure circa l’influenza sfavorevole dell’immigrazione sud-europea sul corpo del nostro popolo.” Come ulteriore indicazione dell’impegno ideologico di Boas nella questione dell’immigrazione, Degler commenta così una delle spiegazioni ambientaliste di Boas sulle differenze mentali tra i bambini immigrati e quelli nativi: “Il perché Boas abbia scelto di offrire una tale spiegazione ad hoc è difficile da capire se non si riconosce il suo desiderio di spiegare in modo favorevole l’apparente arretratezza mentale dei bambini immigrati” (p. 75).
L’ideologia dell’uguaglianza razziale era un’arma importante ai fini dell’apertura dell’immigrazione a tutti i gruppi umani. Per esempio, in una relazione al Congresso nel 1951, l’AJCongress dichiarò: “Le scoperte della scienza devono costringere anche i più prevenuti tra di noi ad accettare, tanto incondizionatamente quanto nel caso della legge di gravitazione universale, che l’intelligenza, la moralità e il carattere non hanno nulla a che vedere con la geografia o il luogo di nascita.”153 La dichiarazione citò poi alcuni degli scritti popolari di Boas sull’argomento, come pure gli scritti di Ashley Montagu, protetto di Boas, forse l’oppositore più noto del concetto di razza durante questo periodo.154 Montagu, nato Israel Ehrenberg, nell’immediato secondo
dopoguerra teorizzò che gli uomini erano collaborativi per natura, ma non aggressivi per natura, e che esisteva una fratellanza universale tra loro (si veda Shipman 1994, 159 ss.). Nel 1952 Margaret Mead, altra protetta di Boas, testimoniò davanti alla President’s Commission on Immigration and Naturalization (PCIN) [Commissione del presidente sull’immigrazione e naturalizzazione, N.d.T.] (1953, 92) che “tutti gli esseri umani di tutti i gruppi di popoli hanno le stesse potenzialità… Oggi, le nostre più affidabili prove antropologiche lasciano intendere che le persone di ogni gruppo hanno pressoché la stessa distribuzione di potenzialità.” Un altro testimone dichiarò che il consiglio esecutivo dell’American Anthropological Association [Associazione americana di antropologia: N.d.T.] aveva accolto all’unanimità l’ipotesi che “tutte le prove scientifiche indicano che tutti i popoli sono intrinsecamente capaci di acquisire o di adattarsi alla nostra civiltà” (PCIN 1953, 93) (si veda il cap. 2 per una discussione del successo ottenuto dagli sforzi politici dei boasiani per dominare l’American Anthropological Association). Già nel 1965 il senatore Jacob Javits (Cong. Rec., 111, 1965, 24469) poté annunciare con certezza al Senato nel corso del
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dibattito sul disegno di legge in materia di immigrazione che “sia i dettami delle nostre coscienze che i precetti dei sociologi ci dicono che l’immigrazione, come sussiste nel sistema a quota in base alla nazione di origine, è ingiusta e priva di qualsiasi fondamento logico o fattuale poiché abbiamo il buon senso di non giudicare un uomo superiore a un altro per via del colore della sua pelle.” La trasformazione della rivoluzione intellettuale in politiche pubbliche era stata portata a termine.
2) Rapporti Stato-Chiesa. Un aspetto dell’interesse ebraico nel pluralismo culturale statunitense è la percezione, da parte degli ebrei, che è nel loro interesse che gli Stati Uniti non siano una cultura omogenea cristiana. Come osserva Ivers (1995, 2), “Le organizzazioni ebraiche per i diritti civili hanno giocato un ruolo storico nella formulazione postbellica delle leggi e delle politiche americane di Stato-Chiesa.” In questo caso i maggiori sforzi ebraici cominciarono solo nel secondo dopoguerra, sebbene gli ebrei si opponessero ai vincoli tra lo Stato e la religione protestante da molto tempo prima. Per esempio, le pubblicazioni ebraiche erano unanime nella loro opposizione alla legge del Tennesse che portò al processo Scopes del 1925, in cui il darwinismo si dovette confrontare con il fondamentalismo religioso (Goldfarb 1984, 43):
Poco importa che l’evoluzione sia vera o meno. Ciò che conta è che ci sono certe forze in questo paese che insistono che il governo provveda affinché non si insegni nulla che possa mettere in dubbio, in qualsivoglia maniera, l’infallibilità della Bibbia. Questo è il nodo essenziale dell’intera questione. In altre parole, unire la Chiesa e lo Stato è un deliberato tentativo anti-americano… E ci spingiamo persino oltre e asseriamo che si tratta di un tentativo di unire lo Stato e la Chiesa protestante. (Jewish Criterion 66 [10 luglio 1925]; corsivo nel testo)
Gli sforzi ebraici in questa causa legale erano ben finanziati e costituirono il fulcro dell’attenzione di organizzazioni di servizio civile ebraiche ben organizzate e altamente impegnate quali l’AJCommittee, l’AJCongress e l’ADL. Tali sforzi richiesero un’alta competenza legale sia nella causa vera e propria sia nell’influenzare l’opinione legale attraverso articoli nelle riviste giuridiche e in altri fori di dibattito intellettuale, inclusi i media popolari. Comportarono altresì una leadership fortemente carismatica ed efficace, in modo particolare nella persona di Leo Pfeffer dell’AJCongress:
Nessun altro avvocato vantò un dominio intellettuale così preponderante su un determinato ambito legislativo per un periodo così protratto – nelle vesti di scrittore, studioso, pubblico cittadino e, soprattutto, consulente legale che univa i suoi molteplici e formidabili talenti in un’unica forza capace di soddisfare tutte le necessità di un’istituzione
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ai fini di un efficace movimento per la riforma costituzionale… Il fatto che Pfeffer, attraverso un’invidiabile combinazione di competenze, determinazione, e persistenza, fosse riuscito a far sì che la riforma Stato-Chiesa fosse la causa principalmente associata con l’AJCongress dalle organizzazioni rivali, ben dimostra l’impatto che un singolo avvocato dotato di capacità eccezionali può esercitare sul carattere e sulla vita delle organizzazioni per cui lavora… A conferma della misura in cui l’evoluzione della costituzione post-Everson [cioè dopo il 1946] sia associata con Pfeffer, anche i maggiori critici della giurisprudenza Stato-Chiesa della Corte durante questo periodo e la moderna dottrina del separatismo raramente omettono di fare riferimento a Pfeffer come forza centrale responsabile per ciò che rimpiangono, cioè per il significato perduto dell’Establishment Clause (Ivers 1995, 222-224).
Analogamente, gli ebrei nella Francia e nella Germania dell’ottocento tentarono di togliere il controllo dell’istruzione alle rispettive chiese cattoliche e luterane, mentre per molti gentili il cristianesimo era una parte importante dell’identità nazionale (Lindemann 1997, 214). A causa di tali attività, gli antisemiti comunemente vedevano gli ebrei come disruttori del tessuto sociale.
3) Organizzazione degli afroamericani e il movimento per le relazioni intergruppi nel secondo dopoguerra. Infine, gli ebrei sono stati fondamentali nell’organizzare gli afroamericani in una forza politica a servizio degli interessi ebraici nell’indebolire l’egemonia politica e culturale degli americani europei non ebrei. Gli ebrei hanno svolto un ruolo molto importante nell’organizzare i neri, a partire dalla fondazione della National Association for the Advancement of Colored People [Associazione nazionale per la promozione delle persone di colore: N.d.T.](NAACP) nel 1909 e continuando, nonostante il crescente antisemitismo nero, fino ai nostri giorni.
Alla metà del decennio [ca. 1915], la NAACP sembrava quasi un’appendice del B’nai B’rith e dell’American Jewish Committee [Comitato ebraico statunitense, N.d.T.], con i fratelli Joel e Arthur Spingarn rispettivamente nelle vesti di presidente del consiglio e principale consulente legale; Herbert Lehman nel comitato esecutivo; Lillian Wald e Walter Sachs nel consiglio (sebbene non contemporaneamente); e Jacob Schiff e Paul Warburg come ‘angeli’ finanziari. Dal 1920, Herbert Seligman era il direttore delle relazioni pubbliche, e Martha Greuning gli faceva da assistente… Non c’è da stupirsi che nel 1917 uno sconcertato Marcus Garvey abbia lasciato in fretta e furia la sede della NAACP, borbottando che era un’organizzazione di bianchi. (Levering-Lewis 1984, 85)
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Gli ebrei abbienti contribuivano in modo significativo anche alla National Urban League [Lega nazionale urbana, N.d.T.]: “La presidenza di Edwin Seligman e la presenza nel consiglio di Felix Adler, Lillian Wald, Abraham Lefkowitz e, poco dopo, Julius Rosenwald, azionista maggioritario della Sears, Roebuck Company, prospettavano importanti contributi ebraici alla Lega.” (Levering-Lewis 1984, p. 85). Oltre a fornire finanziamenti e talento organizzativo (fino al 1975 i presidenti della NAACP erano ebrei), il talento legale ebraico veniva convogliato nelle cause afroamericane. Louis Marshall, un importante protagonista negli sforzi ebraici sull’immigrazione (si veda sotto), era uno degli avvocati più importanti nell’ufficio legale della NAACP. Il ruolo degli afroamericani nell’ambito di questi sforzi era marginale: per esempio, fino al 1933 non c’era un singolo avvocato afroamericano nell’ufficio legale della NAACP (Friedman 1995, 106). Infatti, un tema degli storici revisionisti esaminato da Friedman è che gli ebrei organizzavano gli afroamericani per i propri interessi piuttosto che nel migliore interesse degli stessi afroamericani. Nel secondo dopoguerra tutte le organizzazioni di servizio civile ebraiche si interessavano alle questioni relative ai neri, tra le prime l’AJCommittee, l’AJCongress, e l’ADL: “Con un organico di professionisti qualificati, uffici attrezzati e know-how nelle relazioni pubbliche, disponevano delle risorse per fare una differenza” (Friedman 1995, 135). Gli ebrei contribuirono versando dai due terzi ai tre quarti del denaro destinato ai gruppi per i diritti civili durante gli anni ’60 (Kaufman 1997, 110). I gruppi ebraici, in modo particolare l’AJCongress, giocarono un ruolo di rilievo nella formulazione della legislazione sui diritti civili e nel promuovere azioni legali riguardanti questioni di diritti civili in cui i principali beneficiari erano i neri (Svonkin 1997, 79-112). “Il sostegno ebraico, legale e monetario, procurò al movimento per i diritti civili una serie di vittorie legali… C’è ben poco di esagerato nell’affermazione di un avvocato dell’American Jewish Congress secondo cui ‘molte di queste leggi in realtà erano redatte negli uffici di agenzie ebraiche da impiegati ebraici, presentate da legislatori ebraici e fatte entrare in vigore dalla pressione di elettori ebraici”’ (Levering-Lewis 1984, 94).
Harold Cruse (1967, 1992) presenta un’analisi particolarmente tagliente della coalizione ebrei-neri che rispecchia vari temi di questo volume. Innanzitutto, Cruse nota che “Gli ebrei sanno esattamente ciò che vogliono in America” (121; corsivo nel testo). Gli ebrei vogliono il pluralismo culturale a causa della loro politica a lungo termine di non assimilazione e solidarietà di gruppo. Cruse osserva, tuttavia, che l’esperienza ebraica in Europa ha rivelato loro che “questo gioco si può fare in due” (ovvero formare gruppi solidali fortemente nazionalistici) e “quando ciò succede, guai alla parte che è a corto di numeri” (p. 122; corsivo nel testo). Cruse qui si riferisce alla possibilità di strategie di gruppo antagonistiche (e, si suppone, ai processi reattivi) che costituiscono il tema di SAID (capp. 3-5). Similmente, Cruse osserva che le organizzazioni ebraiche vedono nel nazionalismo anglosassone (si legga caucasico) la loro maggiore minaccia potenziale
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e tendono ad appoggiare politiche a favore dell’integrazione (ovvero politiche assimilazioniste, individualiste) dei neri in America, presumibilmente perché tali politiche diluiscono il potere caucasico e riducono la possibilità di una coesiva maggioranza caucasica, nazionalista e antisemita. Nello stesso tempo, le organizzazioni ebraiche si sono opposte a una posizione nazionalista dei neri, perseguendo tuttavia una politica di gruppo anti-assimilazionista e nazionalista per il proprio gruppo.
Cruse rileva inoltre l’asimmetria dei rapporti tra ebrei e neri: mentre gli ebrei hanno ricoperto posizioni di rilievo nelle organizzazioni per i diritti civili dei neri e hanno partecipato attivamente al finanziamento di queste organizzazioni e alla creazione e implementazione delle politiche di queste organizzazioni, i neri sono stati completamente esclusi dai meccanismi interni e dagli organi che formulano le politiche delle organizzazioni ebraiche. In larga misura, almeno fino a poco tempo fa, la forma e gli obiettivi del movimento nero negli Stati Uniti dovrebbero essere visti essenzialmente come uno strumento della strategia ebraica con obiettivi molti simili a quelli perseguiti nel campo della legislazione sull’immigrazione.
Il ruolo ebraico nelle questioni afroamericane, tuttavia, deve essere visto come parte del più ampio ruolo di quello che i partecipanti chiamavano “il movimento delle relazioni intergruppi”, mirato a “eliminare i pregiudizi e la discriminazione contro le minoranze razziali, etniche e religiose” nel secondo dopoguerra (Svonkin 1997, 1). Così come per gli altri movimenti caratterizzati da una forte partecipazione ebraica, le organizzazioni ebraiche, specialmente l’AJCommittee, l’AJCongress, e l’ADL erano i leader, e queste organizzazioni costituivano le principali fonti di finanziamento, ideavano le tattiche e definivano gli obiettivi del movimento. Come nel caso del movimento per influenzare la politica migratoria, l’obiettivo era quello, fortemente auto-interessato, di prevenire la crescita di un movimento antisemita di massa negli Stati Uniti: gli attivisti ebraici “vedevano il loro impegno verso il movimento delle relazioni intergruppi come una misura preventiva ideata affinché ‘ciò’ – la guerra nazista di sterminio contro la comunità ebraica europea – non succedesse mai in America” (Svonkin 1997, 10).
Questo era uno sforzo pluridimensionale, che andava dalle azioni legali contro il pregiudizio nell’ambito dell’edilizia abitativa, dell’istruzione e del pubblico impiego; proposte di legge e sforzi per farle approvare dagli organi legislativi statali e nazionali; sforzi per influenzare i messaggi emessi dai media; programmi educativi per studenti e insegnanti; fino agli sforzi intellettuali per plasmare il discorso intellettuale accademico. Così come per il coinvolgimento ebraico nella politica migratoria e molti altri esempi di attività ebraica politica e intellettuale in tempi moderni e premoderni (si veda SAID, cap. 6), il movimento delle relazioni intergruppi spesso si adoperava per minimizzare l’aperta partecipazione ebraica (p. es. Svonkin 1997, 45, 51, 65, 71-72).
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Come nel caso del tentativo ottocentesco di definire gli interessi ebraici in termini di ideali tedeschi (Ragins 1980, 55; Schmidt 1959, 46), la retorica del movimento delle relazioni intergruppi enfatizzava che i suoi obiettivi corrispondevano alle auto-concettualizzazioni degli americani, una mossa che sottolineava il retaggio illuministico dei diritti individuali, ignorando in effetti l’aspetto repubblicano dell’identità americana come società coesa e socialmente omogenea e l’aspetto “etnico-culturale” con la sua enfasi sull’importanza dell’etnicità anglosassone nello sviluppo e nella salvaguardia delle forme culturali americane (Smith 1988; si veda il cap. 8). Il cosmopolitismo liberale e i diritti individuali erano inoltre concepiti come coerenti agli ideali ebraici risalenti ai profeti (Svonkin 1997, 7, 20), una concettualizzazione che ignora le concettualizzazioni negative degli out-group (gruppi esterni), la discriminazione nei confronti degli out-group e la marcata tendenza al collettivismo, che sono stati fondamentali per il giudaismo come strategia evolutiva di gruppo. Come rileva Svonkin, la retorica ebraica durante questo periodo si basava su un’ottica illusoria della storia ebraica creata appositamente per raggiungere obiettivi ebraici nel mondo moderno, in cui la retorica illuministica dell’universalismo e dei diritti individuali continuava a godere di considerevole prestigio intellettuale.
Di importanza cruciale nella razionalizzazione degli interessi ebraici durante questo periodo erano i movimenti intellettuali discussi in questo volume, particolarmente l’antropologia boasiana, la psicoanalisi, e l’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte. Come indicato anche nel capitolo 5, le organizzazioni ebraiche partecipavano al finanziamento della ricerca nelle scienze sociali (specialmente la psicologia sociale), e qui si formò un nucleo di attivisti accademici prevalentemente ebraici che operavano in stretta collaborazione con le organizzazioni ebraiche (Svonkin 1997, 4; si veda il cap. 5). Nel secondo dopoguerra, l’antropologia boasiana fu arruolata nelle opere propagandistiche distribuite e promosse dall’AJCommittee, dall’AJCongress, e dall’ADL, come nel film Brotherhood of Man, in cui tutti i gruppi umani erano rappresentati come aventi le stesse capacità. Durante gli anni ’30, l’AJCommittee sostenne finanziariamente Boas nelle sue ricerche; e nel dopoguerra, l’ideologia secondo cui non esistevano differenze tra le razze, come pure l’ideologia del pluralismo culturale, entrambe di Boas, nonché l’importanza di salvaguardare e rispettare le differenze culturali – attribuibili a Horace Kallen – erano importanti elementi dei programmi educativi sponsorizzati da queste organizzazioni attiviste ebraiche e fatti circolare ampiamente nel sistema educativo americano (Svonkin 1997, 63, 64). Secondo la stima di un funzionario dell’ADL, nei primi anni ’60 un terzo degli insegnanti in America aveva già ricevuto materiale educativo basato su queste idee (Svonkin 1997, 69). L’ADL era inoltre intimamente coinvolta nel fornire personale, materiali e assistenza finanziaria per i workshop destinati a insegnanti e amministratori scolastici, spesso con la partecipazione di scienziati sociali del mondo accademico – un’associazione che indubbiamente accresceva la credibilità scientifica
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di questi esercizi. È forse ironico che questo tentativo di influenzare il curricolo scolastico fosse stato portato avanti dagli stessi gruppi che cercavano di cancellare le influenze apertamente cristiane dalle scuole pubbliche.155
L’ideologia dell’animosità intergruppi, elaborata dal movimento per le relazioni intergruppi, derivava dalla serie Studies in Prejudice descritta nel capitolo 5. Tale ideologia interpretava esplicitamente le manifestazioni di etnocentrismo gentile o di discriminazione contro gli out-group come una malattia mentale e, pertanto, letteralmente un problema di salute pubblica. L’attacco nei confronti dell’animosità intergruppi veniva paragonato all’aggressione medica sulle malattie infettive mortali, e i sofferenti della malattia erano descritti come “infetti” (Svonkin 1997, 30, 59). Un tema ricorrente della giustificazione
intellettuale di questo corpo di attivismo etnico sottolineava i possibili vantaggi derivanti da una maggiore armonia intergruppi – un aspetto dell’idealismo inerente alla concettualizzazione di multiculturalismo di Horace Kallen – senza menzionare che alcuni gruppi, particolarmente quelli di derivazione europea e non ebraica, avrebbero perso potere economico e politico e avrebbero subito un declino nella loro influenza culturale (Svonkin 1997, 5). Gli atteggiamenti negativi verso gli out-group erano considerati non il risultato di interessi concorrenti dei gruppi ma piuttosto il risultato di psicopatologie individuali (Svonkin 1997, 75). Infine, mentre l’etnocentrismo gentile era considerato un problema di pubblica salute, l’AJCongress lottava contro l’assimilazione ebraica. L’AJCongress “era esplicitamente impegnato a favore di una visione pluralistica che rispettasse i diritti e le differenze di gruppo come libertà civile fondamentale” (Svonkin 1997, 81).
ATTIVITÀ POLITICHE ANTI-RESTRIZIONISTE EBRAICHE
Attività anti-restrizioniste ebraiche negli Stati Uniti fino al 1924
Il coinvolgimento ebraico nel trasformare la discussione intellettuale su razza ed etnicità sembra aver avuto delle ripercussioni a lungo termine sulla politica migratoria statunitense, ma in ultima analisi il coinvolgimento politico ebraico era ben più significativo. Gli ebrei hanno costituito “il più persistente singolo gruppo di pressione a favore di una politica migratoria liberale” negli Stati Uniti nell’intero dibattito sull’immigrazione iniziato nel 1881 (Neuringer 1971, 392-393):
Nel tentare di deviare le politiche migratorie in una direzione liberale, le organizzazioni e i portavoce ebraici dimostrarono un livello di energia senza pari rispetto a qualsiasi altro gruppo di pressione interessato. L’immigrazione era stata una questione di primaria importanza praticamente per ogni grande organizzazione ebraica per la difesa e le relazioni comunitarie. Nel corso degli anni, i loro portavoce avevano assistito
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assiduamente alle udienze congressionali, e lo sforzo ebraico fu di somma importanza per la fondazione e il finanziamento di gruppi non settari quali la National Liberal Immigration League [Lega nazionale per l’immigrazione liberale: N.d.T.] e il Citizens Committee for Displaced Persons [Comitato cittadino per gli sfollati, N.d.T.].
Come raccontato da Nathan C. Belth (1979, 173) nella sua storia dell’ADL, “Nel Congresso, durante tutti gli anni in cui si combattevano le battaglie sull’immigrazione, i nomi dei legislatori ebrei erano all’avanguardia delle forze liberali: da Adolph Sabath a Samuel Dickstein e Emanuel Celler nella Camera e da Herbert H. Lehman a Jacob Javits nel Senato. Ciascuno, ai suoi tempi, era leader dell’Anti-Defamation League [Lega anti-diffamazione, N.d.T.] e di importanti organizzazioni interessate allo sviluppo democratico.” I congressisti ebrei che più si associano con gli sforzi anti-restrizionisti nel Congresso sono stati pertanto anche i leader del gruppo più strettamente identificato con l’attivismo etnico politico e l’autodifesa ebraici.
Nel corso dei quasi 100 anni precedenti al successo ottenuto con la legge sull’immigrazione del 1965, i gruppi ebraici forgiarono alleanze opportunistiche con altri gruppi i cui interessi coincidevano temporaneamente con quelli ebraici (p. es. una serie in continuo cambiamento di gruppi etnici, gruppi religiosi, pro-comunisti, anti-comunisti, gli interessi di politica estera di vari presidenti, la necessità politica da parte di presidenti di ingraziarsi gruppi influenti negli stati popolosi al fine di vincere le elezioni nazionali, ecc.). Da segnalare in particolare era il sostegno a una politica migratoria liberale da parte degli interessi industriali in cerca di manodopera a basso costo, almeno nel periodo precedente al trionfo temporaneo del restrizionismo. In questo quadro di alleanze in continuo mutamento, le organizzazioni ebraiche perseguivano con persistenza i loro obiettivi di massimizzare il numero degli immigrati ebraici e di aprire gli Stati Uniti all’immigrazione di tutti i popoli del mondo. Come indicato qui di seguito, i dati storici corroborano la tesi secondo la quale la trasformazione degli Stati Uniti in una società multiculturale era un importante obiettivo ebraico a partire dall’Ottocento.
La vittoria finale ebraica sull’immigrazione è notevole poiché era stata condotta su più fronti contro una serie di oppositori potenzialmente molto potenti. A partire dal tardo Ottocento, erano i patrizi dell’East Coast [degli USA, N.d.T.] come il senatore Henry Cabot Lodge a guidare i restrizionisti. Tuttavia, la principale base politica del restrizionismo dal 1910 al 1952 (oltre agli interessi sindacali operai relativamente inefficaci) derivava da “la gente comune del Sud e dell’Ovest” (Higham 1984, 49) e dai loro rappresentanti nel Congresso. Fondamentalmente, i contrasti tra gli ebrei e i gentili nel periodo tra il 1900 e il 1965 erano un conflitto tra gli ebrei e questo gruppo geografico. “Gli ebrei, per via della loro energia intellettuale e delle loro risorse economiche,
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costituivano un’avanguardia dei nuovi popoli i quali non avevano alcuna sensibilità per le tradizioni dell’America rurale” (Higham 1984, 168-169), un tema evidente anche nella discussione degli Intellettuali di New York nel capitolo 6 e nella discussione della partecipazione ebraica al radicalismo politico nel capitolo 3.
Sebbene spesso preoccupati che l’immigrazione ebraica avrebbe alimentato le fiamme dell’antisemitismo in America, i leader ebraici si batterono in una lunga ed essenzialmente efficace azione dilatoria contro le restrizioni sull’immigrazione durante il periodo dal 1891 al 1924, specialmente perché esse incidevano sulla capacità degli ebrei di immigrare. Questi sforzi continuarono nonostante il fatto che nel 1905 ormai ci fosse “una polarità tra l’opinione ebraica e quella degli americani in generale sull’immigrazione” (Neuringer 1971, 83). In particolare, mentre altri gruppi religiosi ed etnici quali i cattolici e gli irlandesi nutrivano atteggiamenti divisi e ambivalenti sull’immigrazione ed erano mal organizzati e inefficaci nel condizionare la politica migratoria, e mentre i sindacati si opponevano all’immigrazione nel loro tentativo di ridurre l’offerta di manodopera a basso costo, i gruppi ebraici si impegnavano in uno sforzo intenso e sostenuto contro i tentativi di limitare l’immigrazione.
Come racconta Cohen (1972, 40 ss.), gli sforzi dell’AJCommittee per contrastare le restrizioni sull’immigrazione nel primo Novecento costituiscono uno straordinario esempio della capacità delle organizzazioni ebraiche di condizionare le politiche pubbliche. Sebbene tra tutti i gruppi colpiti dalla legislazione migratoria del 1907 gli ebrei avessero meno da guadagnare in termini dei numeri di immigrati potenziali, furono loro a giocare il ruolo di gran lunga più importante nel plasmare la legislazione (Cohen 1972, 41). Nel periodo seguente che condusse alla legislazione restrizionista relativamente inefficace del 1917, quando i restrizionisti rilanciarono un tentativo nel Congresso, “solo la frazione ebraica si animò” (Cohen 1972, 49).
Ciononostante, a causa del timore dell’antisemitismo, ci si adoperò al fine di evitare la percezione della partecipazione ebraica nelle campagne anti-restrizioniste. Nel 1906, gli operativi politici ebraici anti-restrizionisti ricevettero ordini di fare lobbying presso il Congresso senza svelare i loro vincoli con l’AJCommittee per paura del “pericolo che gli ebrei venissero accusati di essersi organizzati per fini politici” (commento di Herbert Friedenwald, segretario dell’AJCommittee; in Goldstein 1990, 125). A partire dal tardo Ottocento, gli argomenti anti-restrizionisti elaborati dagli ebrei venivano espressi in termini di ideali umanitari universalisti; come parte di questo sforzo di universalizzazione, i gentili delle vecchie famiglie protestanti venivano reclutati per prestare una facciata ai loro tentativi, e gruppi ebraici come l’AJCommittee finanziavano gruppi pro-immigrazione costituiti da non ebrei (Neuringer 1971, 92).
Così come nel caso degli sforzi pro-immigrazione successivi, gran parte delle attività si svolgeva, dietro le quinte, attraverso interventi personali con politici al fine di minimizzare la percezione pubblica del ruolo ebraico e di evitare di provocare l’opposizione (Cohen 1972, 41-42; Goldstein 1990).
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I politici contrari come Henry Cabot Lodge, e organizzazioni come l’Immigration Restriction League erano tenuti sotto stretta vigilanza e sotto pressione dai lobbisti. I lobbisti a Washington inoltre aggiornavano quotidianamente delle schede segnapunti sulle tendenze di voto man mano che i disegni di legge sull’immigrazione procedevano attraverso il Congresso, e profusero intensi ed efficaci sforzi per cercare di convincere i presidenti Taft e Wilson a porre il veto alla legislazione che limitava l’immigrazione. Prelati cattolici furono reclutati per protestare contro gli effetti della legislazione restrizionista sull’immigrazione dall’Italia e dall’Ungheria. Quando gli argomenti restrizionisti comparvero sui media, l’AJC preparò risposte sofisticate basate su dati accademici e tipicamente presentate in termini universalisti come giovevoli all’intera società. Si pubblicarono articoli favorevoli all’immigrazione nelle riviste nazionali e lettere all’editore sui giornali. Si compirono sforzi per minimizzare le percezioni negative sull’immigrazione, distribuendo gli immigrati ebraici in diverse parti del paese e assicurandosi che gli ebrei non naturalizzati non fossero a carico dell’assistenza sociale pubblica. Si adirono le vie legali per impedire la deportazione degli ebrei non naturalizzati. Infine si organizzarono manifestazioni di protesta di massa.
Scrivendo nel 1914, il sociologo Edward A. Ross sostenne che la politica migratoria liberale era esclusivamente una questione ebraica. Ross citò Israel Zangwill, autore di rilievo e pioniere sionista, il quale aveva espresso l’idea che gli Stati Uniti fossero un luogo ideale per realizzare gli obiettivi ebraici.
L’America ha spazio più che sufficiente per tutti i sei milioni del Pale [ovvero il Pale of Settlement, zona di residenza per la maggioranza degli ebrei in Russia]; uno qualsiasi dei suoi cinquanta stati potrebbe assorbirli. A parte il poter risiedere nel loro stesso paese, non esiste sorte migliore per loro che stare insieme in una terra di libertà civile e religiosa, dove il cristianesimo non forma parte alcuna della Costituzione, e dove i loro voti collettivi offrirebbero in sostanza una garanzia contro persecuzioni future. (Israel Zangwill, in Ross 1914, 144)
Gli ebrei pertanto hanno un forte interesse nella politica di immigrazione:
Da qui l’impegno degli ebrei per controllare le politiche migratorie degli Stati Uniti. Sebbene costituissero solamente una settima parte della nostra immigrazione netta, furono loro a capeggiare la battaglia sul disegno di legge della Immigration Commission [Commissione sull’immigrazione, N.d.T.]. Il potere del milione di ebrei nella Metropoli [New
York: N.d.T.] fece schierare la delegazione congressuale da New York in solida opposizione contro il test dell’alfabetismo. La sistematica campagna sui giornali e sulle riviste al fine di demolire gli argomenti a favore delle restrizioni e di placare i timori nativisti viene portata avanti
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da e per una sola razza. Dietro la National Liberal Immigration League e le sue numerose pubblicazioni c’è il denaro ebraico. Dalla relazione presentata all’ente commerciale o all’associazione scientifica al pesante trattato prodotto con l’assistenza del fondo del Baron de Hirsch, la letteratura che dimostra i grandi benefici dell’immigrazione per tutte le classi in America proviene da sagaci cervelli ebraici. (Ross 1914, 144-145)
Ross (1914, 150) rileva inoltre che i funzionari addetti all’’immigrazione “erano molto infastiditi dalla raffica di false accuse a cui sono sottoposti dalla stampa e dalle società ebraiche. I senatori statunitensi lamentano che durante la conclusione della lotta sul disegno di legge in materia di immigrazione sono stati inondati da un torrente di statistiche fuorvianti e false rappresentazioni di ebrei contrari al test dell’alfabetismo.” I punti di vista di Zangwill erano ben noti ai restrizionisti nei dibattiti riguardanti la legge sull’immigrazione del 1924 (si veda sotto). In un discorso ristampato in The American Hebrew (19 ottobre 1923, 582), Zangwill osservò: “C’è una sola strada verso la pace mondiale, ed è quella dell’abolizione assoluta di passaporti, visti, frontiere, dogane, e tutti gli altri meccanismi che rendono la popolazione del nostro pianeta non una civiltà collaborativa ma piuttosto una società di reciproca irritazione.” La sua famosa opera teatrale, The Melting Pot [Il Crogiuolo, N.d.T.] (1908), dedicata a Theodore Roosevelt, rappresenta gli immigrati ebraici come desiderosi di integrarsi e di contrarre matrimoni misti. Il protagonista descrive gli Stati Uniti come un crogiuolo in cui tutte le razze, incluse quelle “nere e gialle”, si fondono insieme.156 Tuttavia, le idee di Zangwill sul matrimonio interrazziale ebreo-gentile erano a dir poco ambigue (Biale 1998, 22-24) ed egli detestava il proselitismo cristiano verso gli ebrei. Zangwill era un ardente sionista nonché ammiratore dell’ortodossia religiosa di suo padre come modello per la preservazione del giudaismo. Considerava gli ebrei una razza moralmente superiore, la cui visione morale aveva plasmato le società cristiane e musulmane e che alla fine avrebbe cambiato il mondo, sebbene il cristianesimo continuasse ad essere moralmente inferiore al giudaismo (si veda Leftwich 1957, 162 ss.). Gli ebrei avrebbero mantenuto la propria purezza razziale se avessero continuato a praticare la propria religione: “Finché il giudaismo prospera tra gli ebrei non sarà necessario parlare di salvaguardia della razza o della nazionalità; entrambe sono tutelate dalla religione” (in Leftwich 1957, 161).
Nonostante i tentativi ingannevoli di rappresentare il movimento pro-immigrazione come un movimento ad ampia base, gli attivisti ebraici erano consapevoli della mancanza di entusiasmo da parte di altri gruppi. Durante la battaglia sulla legislazione restrizionista alla fine dell’amministrazione Taft, Herbert Friedenwald, segretario all’AJCommittee, scrisse che era “molto difficile smuovere qualsiasi popolo tranne gli ebrei in questa battaglia” (in Goldstein 1990, 203). L’AJCommittee contribuì ampiamente all’organizzazione di manifestazioni anti-restrizioniste nelle maggiori città americane, ma permise ad altri gruppi etnici di
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prendersi il merito degli eventi, e mobilitò gruppi non ebrei perché influenzassero il presidente Taft a porre il veto alla legislazione restrizionista (Goldstein 1990, 216, 227). Durante il governo Wilson, Louis Marshall dichiarò “Siamo praticamente gli unici a combattere [il test dell’alfabetismo] mentre ‘una grande proporzione’ [della popolazione] è indifferente a ciò che viene fatto’” (in Goldstein 1990, 249).
Le forze a favore delle restrizioni sull’immigrazione godettero di successi temporanei con le leggi sull’immigrazione del 1921 e del 1924, passate malgrado l’intensa opposizione dei gruppi ebraici. Divine (1957, 8) osserva: “Schierati contro [le forze restrizioniste] nel 1921 vi erano soltanto i portavoce degli immigrati dell’Europa sudorientale, principalmente leader ebraici, le cui proteste erano coperte dalle grida a favore delle restrizioni.” Analogamente, durante le udienze congressuali sull’immigrazione del 1924, “Il più importante gruppo di testimoni contrario al disegno di legge era quello dei rappresentanti degli immigrati dell’Europa sudorientale, particolarmente i leader ebraici” (Divine 1957, 16).
L’opposizione ebraica a questa legislazione era motivata tanto dalla percezione che le leggi fossero motivate dall’antisemitismo e che discriminassero a favore degli europei nordoccidentali quanto dalla preoccupazione che limitassero l’immigrazione ebraica (Neuringer 1971, 164) – una prospettiva implicitamente contraria allo status quo etnico favorevole agli europei nordoccidentali. L’opposizione alla tendenza di favorire l’immigrazione degli europei nordoccidentali rimase caratteristica degli atteggiamenti ebraici negli anni successivi, ma l’opposizione delle organizzazioni ebraiche a qualsiasi restrizione dell’immigrazione basata su razza o etnicità risale all’Ottocento.
Da qui la condanna unanime, da parte della stampa ebraica, del Chinese Exclusion Act [Legge sull’esclusione dei cinesi, N.d.T.] (Neuringer 1971, 23) nel 1882, sebbene questa legge non incidesse direttamente sull’immigrazione ebraica. Nel primo
Novecento l’AJCommittee combatteva – a volte attivamente – contro qualsiasi disegno di legge che limitasse l’immigrazione di persone bianche o non asiatiche, e si asteneva dall’opporsi attivamente solo nel caso in cui ritenesse che il supporto dell’AJCommittee avrebbe minacciato l’immigrazione degli ebrei (Cohen 1972, 47; Goldstein 1990, 250). Nel 1920 la Central Conference of American Rabbis [Conferenza centrale dei rabbini americani, N.d.T.] approvò una risoluzione in cui si raccomandava che “la nazione… tenga aperte le porte della nostra amata repubblica… agli oppressi e agli afflitti di tutta l’umanità in conformità con il suo ruolo storico di porto di rifugio per tutti gli uomini e le donne che giurino fedeltà alle sue leggi” (in The American Hebrew, 1 ottobre 1920, 594). The American Hebrew (17 febbraio 1922, 373), pubblicazione fondata nel 1867 per rappresentare l’establishment ebraico-tedesco di quel periodo, reiterò la sua politica di lunga data ossia che “da sempre ha appoggiato l’ammissione di meritevoli immigrati di tutte le classi, a prescindere dalla nazionalità.” E nella sua testimonianza alle udienze del 1924 davanti alla House Committee on Immigration and Naturalization [Comitato della Camera sull’Immigrazione e sulla naturalizzazione, N.d.T.], Louis Marshall dell’AJCommittee dichiarò che il disegno di legge rispecchiava i sentimenti del
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Ku Klux Klan, caratterizzandolo come ispirato dalle teorie razziste di Houston Stewart Chamberlain. In un periodo in cui la popolazione superava i 100 milioni, Marshall dichiarò: “Abbiamo spazio in questo paese per dieci volte la popolazione che abbiamo”; sostenne l’ammissione di tutti i popoli del mondo senza limiti numerici, escludendo solo coloro che “erano mentalmente, moralmente, e fisicamente inabili, coloro che sono nemici del governo organizzato, e coloro che sono inclini a finire a carico dello stato.”157 In maniera analoga, Rabbi Stephen S. Wise, nelle vesti di rappresentante dell’AJCongress e di svariate altre organizzazioni ebraiche alle udienze della Camera, rivendicò “il diritto di ogni uomo fuori dell’America di essere trattato in modo giusto, equo e senza discriminazione.”158
Limitando l’immigrazione di una determinata nazionalità al 3% del numero di residenti nati all’estero della stessa nazionalità in base al censimento del 1890, la legge del 1924 stabilì uno status quo etnico che si avvicinava al censimento del 1920. La House Majority Report [Relazione di maggioranza della Camera, N.d.T.] sottolineò che, prima della legislazione, l’immigrazione era molto parziale a favore degli europei orientali e meridionali, e che questo squilibrio era stato portato avanti dalla legislazione del 1921, in cui i limiti numerici erano basati sui numeri dei nati all’estero secondo il censimento del 1910. L’intenzione espressa era che gli interessi di altri gruppi a perseguire i propri interessi etnici mediante l’incremento della propria percentuale della popolazione avrebbero dovuto essere controbilanciati con gli interessi etnici della maggioranza a conservare la propria rappresentazione etnica nella popolazione.
La legge del 1921 assegnò il 46% della quota di immigrazione all’Europa orientale e meridionale anche se queste zone costituivano solo l’11,7% della popolazione statunitense al tempo del censimento del 1920. La legge del 1924 stabilì che queste zone avrebbero ricevuto il 15,3% della quota – percentuale addirittura superiore alla loro attuale rappresentanza nella popolazione. “L’utilizzo del censimento del 1890 non è discriminatorio. Lo si usa al fine di mantenere il più possibile lo status quo razziale degli Stati Uniti. Ci si auspica che garantisca, per quanto possibile con tale ritardo, l’omogeneità razziale negli Stati Uniti. L’utilizzo di un censimento più recente discriminerebbe contro coloro che fondarono la nazione e tramandarono le sue istituzioni” (House Rep. n. 350, 1924, 16). Dopo tre anni, le quote di immigrazione furono derivate da una formula di origini nazionali basata sui dati del censimento del 1920 per l’intera popolazione, non solo per i nati all’estero. Senza dubbio questa legislazione rappresentò una vittoria per i popoli dell’Europa nordoccidentale, tuttavia non si fece alcun tentativo di invertire le tendenze della composizione etnica del paese; gli sforzi miravano piuttosto a mantenere lo status quo etnico.
Sebbene motivate da un desiderio di mantenere lo status quo etnico, è possibile che queste leggi fossero motivate in parte dall’antisemitismo, dato che durante questo periodo le politiche migratorie liberali erano percepite essenzialmente come una questione ebraica (si veda sopra). Certamente questa sembra essere stata la percezione degli osservatori ebraici: nel periodo immediatamente successivo all’approvazione della legislazione del 1924, per esempio, l’eminente scrittore ebraico Maurice Samuel (1924, 217), commentò:
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“è principalmente contro l’ebreo che le leggi anti-immigrazione vengano approvate qui in America come in Inghilterra e Germania,” e siffatte percezioni prevalevano tra gli storici di quel periodo (p. es. Hertzberg 1989, 239). Questa percezione non si limitava agli ebrei. Nelle dichiarazioni rese davanti al Senato, il senatore anti-restrizionista Reed del Missouri osservò: “Nella stessa maniera ci sono stati attacchi alle persone ebraiche che sono approdate su tante delle nostre sponde. Lo spirito di intolleranza è stato particolarmente attivo nei loro confronti” (Cong. Rec., 19 febbraio 1921, 3463). Durante la seconda guerra mondiale, Henry L. Stimson, Segretario alla guerra, affermò che era l’opposizione all’immigrazione incontrollata degli ebrei ad aver dato origine alla legislazione restrittiva del 1924 (Breitman & Kraut 1987, 87).
Inoltre, la Relazione di maggioranza della Camera sull’immigrazione (House Rep. n. 109, 6 dicembre 1920) rilevò che “la più alta percentuale degli immigrati [è] di gran lunga quella dei popoli di origine ebraica” (p. 4), e insinuò che la maggior parte dei
nuovi immigrati previsti sarebbero stati gli ebrei polacchi. La relazione “confermò la pubblica dichiarazione di un commissario della Hebrew Sheltering and Aid Society of America [Società ebraica di accoglienza e assistenza di America; N.d.T.] resa a seguito delle sue ricerche personali in Polonia, secondo la quale ‘Se esistesse una nave capace di contenere 3 000 000 esseri umani, i 3 000 000 ebrei della Polonia si imbarcherebbero per scappare in America’” (p. 6).
La relazione di maggioranza includeva anche un rapporto di Wilbur S. Carr, capo del servizio consolare degli Stati Uniti, il quale asserì che gli ebrei polacchi erano “singolarmente contorti a causa di (a) una reazione allo stress della guerra; (b) lo choc dei tumulti rivoluzionari (c) l’istupidimento e l’indebolimento causati da anni di oppressione e abusi…; tra l’ottanta e il novanta per cento non ha alcun concetto di spirito patriottico o nazionale. E la maggior parte di questa percentuale è incapace di acquisirlo” (p. 9, si veda Breitman & Kraut [1987, 12] per una discussione dell’antisemitismo di Carr). (In Inghilterra, molti nuovi immigrati ebrei si rifiutarono di essere reclutati per combattere lo zar durante la prima guerra mondiale; si veda la nota 14). Il rapporto accennava anche a relazioni consolari secondo le quali “molti simpatizzanti bolscevichi si trovano in Polonia” (p. 11). Nella stessa maniera al Senato, il senatore McKellar citò il rapporto in cui si dichiarava che se ci fosse una nave sufficientemente grande, tre milioni di polacchi immigrerebbero. Affermò inoltre che “il Comitato di distribuzione congiunto, un comitato impegnato in opere di beneficienza per gli ebrei in Polonia, elargisce più di 1 000 000 di dollari al mese del denaro americano solo in quel paese. È stato inoltre dimostrato che l’importo di 1 000 000 000 di dollari all’anno è una stima prudente del denaro inviato in Polonia dall’America tramite le poste, le banche e le agenzie assistenziali. Questo fiume d’oro che si riversa in Polonia dall’America rende ogni singolo polacco pazzamente bramoso di andare nel paese da dove provengono tali meravigliose ricchezze” (Cong. Rec., 19 febbraio 1921, 3456).
Come ulteriore indicazione di quanto fossero salienti le questioni sull’immigrazione ebreo-polacca, la lettera sui visti stranieri presentata dal Dipartimento di Stato nel 1921 ad Albert
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Johnson, presidente della Commissione per l’immigrazione e la naturalizzazione, dedicò alla situazione in Polonia oltre quattro volte lo spazio dedicato a qualsiasi alto paese. La relazione sottolineava le attività del giornale ebraico-polacco Der Emigrant per promuovere l’emigrazione degli ebrei polacchi negli Stati Uniti, nonché le attività della Società ebraica di accoglienza e di immigrati e dei privati cittadini benestanti degli Stati Uniti nel facilitare l’immigrazione tramite il sostegno finanziario e il disbrigo delle pratiche burocratiche. (C’era infatti una grande rete di agenti ebraici nell’Europa dell’Est i quali, in violazione delle leggi statunitensi, “facevano del loro meglio per incrementare gli affari attirando il maggior numero possibile di emigranti” [Nadell 1984, 56].) La relazione descriveva inoltre le condizioni dei potenziali immigrati in termini negativi: “Al momento è fin troppo evidente che devono essere subnormali, e il loro stato normale è di uno standard molto basso. Sei anni di guerra, confusione, carestia e pestilenza ne hanno devastato corpi e contorto la mentalità. Gli anziani hanno subito un notevolmente deterioramento. I minorenni sono diventati adulti perdendo l’intero periodo del corretto sviluppo e troppo spesso acquisendo idee perverse che hanno inondato l’Europa dal 1914 in poi [presumibilmente un accenno alle idee politiche radicali che erano frequenti in questo gruppo; si veda sotto]” (Cong. Rec., 20 aprile 1921, 498).
La relazione inoltre segnalava degli articoli sulla stampa di Warsaw secondo i quali si stava progettando una “propaganda a favore dell’immigrazione incontrollata”, incluse delle celebrazioni a New York con l’obiettivo di evidenziare i contributi degli immigrati allo sviluppo degli Stati Uniti. Anche le relazioni per il Belgio (i cui emigrati provenivano dalla Polonia e dalla Cecoslovacchia) e per la Romania sottolineavano l’importanza degli ebrei come potenziali immigrati. In risposta, il deputato Isaac Siegel dichiarò che la relazione era “revisionata e manipolata da certi ufficiali”; egli commentò che la relazione non menzionava paesi con un numero di immigrati superiore a quello della Polonia. (Per esempio, la relazione non faceva accenno all’Italia.) Senza dirlo esplicitamente (“Lascio che siano i singoli uomini nella Camera a trarre le proprie deduzioni e inferenze” [Cong. Rec. 20 aprile 1921, 504]), si insinuava che l’attenzione sulla Polonia fosse motivata dall’antisemitismo.
La Relazione di maggioranza della Camera (firmata da 15 dei 17 membri – i deputati Dickstein e Sabath furono gli unici a non sottoscriverla) enfatizzava inoltre il ruolo degli ebrei nella definizione del dibattito intellettuale in termini di superiorità nordica e di “ideali americani” anziché nei termini di uno status quo etnico effettivamente favorito dalla commissione:
Il grido alla discriminazione è, a parere della commissione, fabbricato e promosso da particolari rappresentanti di gruppi razziali, assistiti da stranieri effettivamente residenti all’estero. I membri della commissione sono venuti a conoscenza di un articolo, apparso sul Jewish Tribune
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(New York) 8 febbraio 1924, riguardante una cena di addio a Israel Zangwill, in cui si racconta:
Il Sig. Zangwill ha parlato principalmente della questione dell’immigrazione, dichiarando che se gli ebrei persisteranno nella strenua opposizione alle restrizioni migratorie non ci sarà alcuna restrizione. “Se fate abbastanza chiasso contro queste sciocchezze nordiche,” egli disse, “sconfiggerete questa legislazione. Dovete battervi contro questo disegno di
legge; dite loro che stanno distruggendo gli ideali americani. La maggior parte delle fortificazioni è di cartapesta, se vi spingete contro di esse, cedono.”
La commissione non è del parere che le restrizioni che si intende realizzare con questo disegno di legge siano dirette agli ebrei, poiché loro possono rientrare nelle quote di qualsiasi loro paese di nascita. La commissione non si è soffermata sulla desiderabilità di un “nordico” o di qualsiasi altro particolare tipo di immigrato, ma ha perseguito con fermezza l’obiettivo di conseguire una forte restrizione, con la quota divisa in modo tale da rallentare i paesi da cui è arrivata la maggioranza prima della guerra mondiale, affinché gli Stati Uniti possano ripristinare l’equilibrio della popolazione. La continua accusa che la commissione abbia promosso una razza “nordica” e abbia dedicato la sua udienza a questo fine fa parte di un attacco preparato ad arte, dal momento che la commissione in realtà non ha fatto nulla del genere. (House Rep. n. 350, 1924, 16)
A dire il vero, nel leggere i dibattiti congressuali del 1924, la cosa sorprendente è quanto raramente la questione della superiorità razziale nordica fosse sollevata da coloro a favore della legislazione, mentre praticamente tutti gli anti-restrizionisti la sollevarono.159 Dopo un commento particolarmente colorito in opposizione alla teoria della superiorità razziale nordica, il leader dei restrizionisti Albert Johnson osservò: “Tengo a dire, a nome della commissione, che durante i tempi ardui delle udienze questa commissione si è impegnata a non discutere la proposta nordica o le questioni razziali” (Cong. Rec. 8 aprile 1924, 5911). In precedenza, durante le udienze sul disegno di legge, replicando ai commenti del rabbino Stephen S. Wise, che rappresentava l’AJCongress, Johnson aveva osservato: “Detesto questo continuo volermi mettere nella posizione di presumere che ci sia un pregiudizio razziale, quando la sola cosa che ho cercato di fare per 11 anni è di liberarmi dai pregiudizi razziali, ammesso che ne avessi.160 Alcuni restrizionisti denunciarono esplicitamente la teoria di superiorità nordica, compresi i senatori Bruce (p. 5955) e Jones (p. 6614) e i deputati Bacon (p. 5902), Byrnes (p. 5633), Johnson (p. 5648), MacLeod (pp. 5675-5676),
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McReynolds (p. 5855), Michener (p. 5909), Miller (p. 5883), Newton (p. 6240), Rosenbloom (p. 5851), Vaile (p. 5922), Vincent (p. 6266), White (p. 5898), e Wilson (p. 5671; tutti i riferimenti al Cong. Rec., aprile 1924).
Infatti, va notato che nel dibattito congressuale ci sono indicazioni che i deputati dell’ovest fossero preoccupati dall’abilità e dalla minaccia competitiva presentate dagli immigrati giapponesi, e la loro retorica fa pensare che considerassero i giapponesi una razza pari o superiore alla loro, anziché inferiore. Per esempio, il senatore Jones dichiarò: “Noi ammettiamo che [i giapponesi] sono capaci quanto noi, progressivi quanto noi, onesti quanto noi, intelligenti quanto noi, e che sono pari in tutto ciò che fa un grande popolo e una grande nazione” (Cong. Rec., 18 aprile 1924, 6614); il deputato MacLafferty sottolineò il dominio giapponese di certi mercati agricoli (Cong. Rec., 5 aprile 1924, p. 5681), e il deputato Lea notò la loro capacità di soppiantare “il loro concorrente americano” (Cong. Rec., 5 aprile 1924, 5697). Il deputato Miller descrisse il giapponese come “un concorrente implacabile e invincibile del nostro popolo ovunque egli si piazzi” (Cong. Rec., 8 aprile 1924, 5884); si veda anche i commenti dei deputati Gilbert (Cong. Rec., 12 aprile 1924, 6261), Raker (Cong. Rec., 8 aprile 1924, 5892), e Free (Cong. Rec., 8 aprile 1924, 5924 ss.).
Per di più, mentre la questione della concorrenza ebreo-gentile per le risorse non venne sollevata durante i dibattiti congressuali, le quote limitative sulle iscrizioni degli ebrei alle università Ivy League costituivano una questione molto saliente per gli ebrei in questo periodo. La questione delle quote era stata ampiamente pubblicizzata dai media ebraici, incentrati sulle attività delle organizzazioni ebraiche di autodifesa quale l’ADL (si veda, p. es. la dichiarazione dell’ADL pubblicata su The American Hebrew, 29 settembre 1922, 536). È pertanto possibile che la concorrenza ebreo-gentile per le risorse fosse fonte di preoccupazione per vari legislatori. Infatti, il rettore di Harvard A. Lawrence Lowell era il vice-presidente nazionale dell’Immigration Restriction League nonché sostenitore delle quote limitanti l’iscrizione degli ebrei a Harvard (Symott 1986, 238), il che fa pensare che la concorrenza per le risorse con un gruppo ebraico intellettualmente superiore fosse causa di preoccupazione almeno per alcuni restrizionisti di rilievo.
È probabile che l’animosità antiebraica legata alle questioni di concorrenza per le risorse fosse diffusa. Higham (1984, 141) scrive della “pressione incalzante che gli ebrei, popolo immigrante eccezionalmente ambizioso, esercitava su alcuni dei gradini più affollati della scala sociale” (Higham 1984, 141). A partire dall’Ottocento, negli ambienti aristocratici sussistevano livelli piuttosto elevati di antisemitismo nascosto e manifesto, scaturente dalla rapida mobilità sociale ascendente degli ebrei e dal loro istinto competitivo. Prima della Grande guerra, la reazione della struttura di potere gentile era di creare registri sociali ed enfatizzare la genealogia come meccanismi di esclusione – “criteri che il solo denaro non poteva soddisfare” (Higham 1984, 104 ss., 127).
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Durante questo periodo Edward A. Ross (1914, 164) descrisse il risentimento gentile per “vedersi costretto a impegnarsi in una lotta umiliante e poco dignitosa al fine di salvaguardare il proprio mestiere o i propri clienti dall’invasore ebraico” – il che suggerisce una preoccupazione alquanto diffusa circa la concorrenza economica ebraica. I tentativi di esclusione in un ampio arco di settori aumentarono negli anni ’20 e culminarono durante la difficile situazione economica della Grande depressione (Higham 1984, 131 ss.).
Durante i dibattiti del 1924, tuttavia, gli unici commenti congressuali insinuanti un timore della concorrenza ebreo-gentile per le risorse (oltre al timore che gli immigrati ebrei fossero estraniati dalle tradizioni culturali dell’America e fossero inclini a esercitare un’influenza distruttiva) che io sia riuscito a trovare sono i seguenti, del deputato Wefald:
Io personalmente non ho paura delle idee radicali che alcuni potrebbero portare con sé. Ad ogni modo non è possibile tener fuori le idee, ma la leadership della nostra vita intellettuale in molte delle sue fasi è caduta fra le mani di questi astuti nuovi arrivati, che non hanno nessuna simpatia né per i nostri antichi ideali americani né per quelli dell’Europa settentrionale, che individuano le nostre debolezze e le assecondano e si arricchiscono con i disservizi che ci rendono.
Tutto il nostro sistema di intrattenimento è stato rilevato da uomini venuti qui sull’onda dell’immigrazione dall’Europa meridionale e orientale. Producono le nostre orrende storie cinematografiche, compongono e ci distribuiscono la nostra musica jazz, scrivono molti dei libri che leggiamo, e dirigono le nostre riviste e i nostri giornali. (Cong. Rec., 12 aprile 1924, 6272)
Il dibattito sull’immigrazione si svolse inoltre nell’ambito delle discussioni nei media ebraici del famoso saggio di Thorsten Veblen “La prominenza intellettuale degli ebrei nell’Europa moderna” (pubblicate a puntate su The American Hebrew a partire dal 10 settembre 1920). In un editoriale del 13 luglio 1923 (p. 177), The American Hebrew osservò che gli ebrei erano rappresentati sproporzionatamente tra i dotati nello studio di Louis Terman sui bambini prodigio e commentò: “questo fatto deve suscitare delle amare ma futili riflessioni tra i cosiddetti nordici.” L’editoriale fece altresì notare che gli ebrei erano sovrarappresentati tra i vincitori di borse di studio nei concorsi statali di New York. L’editoriale commentò mordacemente che “forse i nordici sono troppo orgogliosi per contendersi questi onori. Ad ogni modo la lista dei nomi dei vincitori di queste ambite borse, appena annunciata dal Dipartimento statale dell’istruzione di Albany, è tutt’altro che nordica; sembra il registro presenze di un tempio.”
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Ci sono prove, in effetti, che gli ebrei, come gli asiatici orientali, possiedono un QI più alto dei caucasici (Lynn 1987; Rushton 1995; PTSDA, cap. 7). Infatti, Terman aveva stabilito che i cinesi avevano lo stesso QI dei caucasici – ulteriore indicazione che, come osserva Dengler (1991, 52), “i loro punteggi di QI non potevano essere un pretesto per la discriminazione” rappresentata dalla legislazione del 1924. Come sopra indicato, in base ai dibattiti congressuali ci sono numerose indicazioni che l’esclusione degli asiatici era motivata, perlomeno in parte, dalla paura della concorrenza con un gruppo intelligente e di gran talento piuttosto che dai sentimenti di superiorità razziale.
Il ragionamento più comune di chi era favorevole alla legislazione, e quello che venne rispecchiato nella Relazione di maggioranza, è che nell’interesse dell’equità per tutti i gruppi etnici, le quote dovrebbero riflettere la relativa composizione etnica dell’intero paese. I restrizionisti facevano notare che il censimento del 1890 era stato scelto perché le percentuali dei nati all’estero appartenenti ai diversi gruppi etnici in quell’anno si approssimava alla generale composizione etnica dell’intero paese nel 1920. Al fine di raggiungere lo stesso obiettivo, il senatore Reed della Pennsylvania e il deputato Rogers del Massachussetts proposero di basare le quote direttamente sulle origini nazionali dell’intera popolazione del paese al tempo del censimento del 1920, e ciò alla fine fu incorporato nella legge. Il deputato Rogers dichiarò: “Signori, non potete dissentire da questo principio poiché è equo. Non è discriminante, non è a favore di nessuno e non è contro nessuno” (Cong. Rec., 8 aprile 1924, 5847). Il senatore Reed osservò: “Lo scopo, io credo, che la maggior parte di noi si prefigge nel cambiare le basi delle quote è quello di cessare la discriminazione nei confronti di coloro che sono nati qui e nei confronti del gruppo dei nostri cittadini che provengono dall’Europa settentrionale e occidentale. Io credo che il sistema vigente sia discriminante a favore dell’Europa sud-orientale” (Cong. Rec., 16 aprile 1924, 6457) (ovvero, per via del fatto che ai sensi della legge del 1921 il 46% delle quote era assegnato all’Europa orientale e meridionale quando esse costituivano meno del 12% della popolazione).
A titolo esemplificativo dell’argomentazione di fondo che rivendica un legittimo interesse etnico a mantenere uno status quo etnico senza pretese di superiorità razziale, si legga la seguente dichiarazione del deputato William N. Vaile del Colorado, uno dei più importanti restrizionisti:
Consentitemi a questo punto di sottolineare che i restrizionisti del Congresso non sostengono che la razza “nordica”, o neanche la razza anglosassone, sia la migliore razza al mondo. Ammettiamo in tutta onestà che il ceco è un bracciante
più robusto, con una bassissima percentuale di criminalità e infermità mentale, che l’ebreo è il miglior uomo d’affari al mondo, e che l’italiano possiede un intuito spirituale e un senso artistico che hanno tanto arricchito il mondo e, a dire il vero, anche noi, un’esaltazione spirituale e un senso artistico creativo
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raramente eguagliati dal nordico. Non occorre che i nordici siano vanitosi in merito alle proprie qualifiche. A loro ben conviene essere umili. Ciò che noi affermiamo è che i nordeuropei, e in particolare gli anglosassoni, costruirono questo paese. Eh sì; gli altri aiutarono. Ma questo è il resoconto esauriente. Vennero in questo paese poiché era già costituito come commonwealth anglosassone. Vi contribuirono, spesso lo arricchirono, ma non lo costruirono, e finora non l’hanno cambiato molto. Siamo convinti che non lo faranno. È un buon paese. Ci sta bene. E ciò che affermiamo è che non lo cederemo a qualcun altro né permetteremo ad altri, a prescindere dai loro meriti, di renderlo diverso. Se ci sarà da cambiare qualcosa, lo faremo noi stessi. (Cong. Rec., 8 aprile 1924, 5922)
Il dibattito della Camera illustrava anche il ruolo molto saliente dei legislatori ebrei nella lotta contro il restrizionismo. Il deputato Robison individuò il deputato Sabath come leader delle forze anti-restrizioniste; rivolgeva la sua attenzione anche ai deputati Jacobstein, Celler e Perlman come contrari a qualsiasi restrizione sull’immigrazione, senza menzionare nessun altro oppositore del restrizionismo. (Cong. Rec. 5 aprile 1924, 5666). Il deputato Blanton, lamentandosi delle difficoltà nel far passare la legislazione restrizionista dal Congresso, fece notare: “Quando almeno il 65% del sentimento di questa Camera, a mio parere, è favorevole all’esclusione di tutti gli stranieri per cinque anni, perché non lo trasformiamo in legge? Il Fratello Sabath ha una tale influenza su di noi da bloccarci riguardo a questa proposta?” (Cong. Rec., 5 aprile 1924, 5685). Il deputato Sabath rispose: “Potrebbe esserci del vero.” In aggiunta, i seguenti commenti del deputato Leavitt indicano chiaramente la rilevanza dei congressisti ebrei per i loro oppositori durante il dibattito:
L’istinto di conservazione nazionale e della razza non è da condannare, come si è insinuato qui. Più di qualsiasi altro, il signore di Illinois [il Sig. Sabath], in testa all’attacco contro questo provvedimento, o i signori di New York, Dickstein, Jacobstein, Celler e Perlman, dovrebbero poter comprendere il desiderio degli americani di far sì che l’America resti americana. Fanno parte dell’unico grande popolo storico che è riuscito a conservare l’identità della propria razza nel corso dei secoli perché credono sinceramente di essere un popolo eletto, con certi ideali da mantenere, e consapevoli che
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la perdita dell’identità razziale implica un cambiamento di ideali. Questo fatto dovrebbe aiutare loro e la maggior parte degli oppositori più attivi di questo provvedimento intervenuti al dibattito a riconoscere e a simpatizzare per il nostro punto di vista, che è meno estremo di quello della loro razza, e bensì richiede solamente che la commistione di altri popoli sia solo di un tipo tale e di proporzioni e in quantità tali da non alterare le caratteristiche razziali troppo rapidamente per permettere l’assimilazione delle idee di governo nonché del sangue. (Cong. Rec., 12 aprile 1924, 6265-6266)
L’idea che gli ebrei avessero una forte inclinazione a resistere all’assimilazione genetica con i gruppi circostanti era espressa anche da altri osservatori ed era una componente dell’antisemitismo contemporaneo (si veda Singerman 1986, 110-111). Che gli ebrei evitassero l’esogamia aveva certamente un fondamento nella realtà (PTSDA, capp. 2-4), e va ricordato che esisteva una forte opposizione al matrimonio misto anche tra i segmenti più liberali dell’ebraismo americano del primo Novecento e sicuramente tra i segmenti meno liberali, rappresentati dalla grande maggioranza degli immigrati ortodossi dall’Europa dell’Est, i quali vennero poi a costituire la grande maggioranza della comunità ebraica americana. Il noto leader riformista David Einhorn, per esempio, si è sempre opposto ai matrimoni misti e si rifiutava categoricamente di officiare tali cerimonie, anche quando glielo si chiedeva con insistenza (Meyer 1989, 247). Einhorn era anche un fermo oppositore della conversione dei gentili al giudaismo a causa degli effetti sulla “purezza razziale” dell’ebraismo (Levenson 1989, 331). L’influente intellettuale riformista Kaufman Kohler era anch’egli un ardente oppositore al matrimonio misto. In un’ottica molto compatibile con il multiculturalismo di Horace Kallen, Kohler era dell’opinione che Israele dovesse rimanere separato ed evitare il matrimonio interrazziale fino a quando non avrà condotto l’umanità verso un’epoca di pace universale e di fratellanza tra le razze (Kohler 1918, 445-446). L’atteggiamento negativo verso il matrimonio misto era confermato dai risultati di sondaggi. Un sondaggio del 1912 indicava che solo sette dei cento rabbini riformisti avevano officiato un matrimonio misto, e una risoluzione del 1909 del principale gruppo riformista, il Central Council of American Rabbis [Consiglio centrale dei rabbini americani, N.d.T.], dichiarò che “i matrimoni misti sono contrari alla tradizione della religione ebraica e vanno scoraggiati dal rabbinato americano” (Meyer 1988, 290). Le percezioni gentili degli atteggiamenti ebraici riguardo al matrimonio misto, pertanto, avevano un solido fondamento nella realtà.
Ben più significativi dell’inclinazione ebraica all’endogamia, a suscitare l’animosità anti-ebraica durante i dibattiti congressuali del 1924 furono altri due temi importanti di questo progetto: gli immigrati ebraici provenienti dall’Europa orientale erano ampiamente percepiti come inassimilabili e aderenti a una cultura separata (si veda SAID, cap. 2); erano inoltre ritenuti sproporzionatamente coinvolti in movimenti radicali politici (si veda cap. 3).
La percezione del radicalismo tra gli immigrati ebraici era diffusa nelle pubblicazioni ebraiche come pure in quelle gentili. The American Hebrew dichiarò nel suo editoriale: “Non dobbiamo dimenticare che gli immigrati provenienti dalla Russia e dall’Austria arriveranno da paesi infestati dal bolscevismo, e ci vorrà più di uno sforzo superficiale per trasformarli in buoni cittadini” (in Neuringer 1971, 165). Il fatto che gli immigrati ebrei dell’Europa orientale fossero percepiti come “infestati dal bolscevismo… antipatriottici, estranei, inassimilabili” scatenò un’ondata di antisemitismo negli anni ’20 e contribuì alla legislazione migratoria restrittiva del periodo (Neuringer 1971, 165). Nello studio di Sorin (1985, 46) sugli attivisti radicali ebraici immigrati, più della metà aveva partecipato alla politica radicale in Europa prima di emigrare, e per quanti immigrarono dopo il 1900, la percentuale saliva al 69%. Le pubblicazioni ebraiche misero in guardia contro la possibilità di antisemitismo provocato dal sinistrismo degli immigrati ebraici, e la comunità ebraica ufficiale si impegnò in “uno sforzo che rasentava la disperazione… per rappresentare l’ebreo come cento per cento americano”, per esempio organizzando sfilate patriottiche nei giorni festivi e cercando di incoraggiare gli immigrati a imparare l’inglese (Neuringer 1971, 167).161
Dal punto di vista dei dibattiti sull’immigrazione, è importante notare che negli anni ’20 la maggioranza dei membri del Partito socialista era costituita da immigrati, e che una percentuale “preponderante” (Glazer 1961, 38, 40) del CPUSA [Partito comunista degli Stati Uniti; N.d.T.] era costituita dai nuovi immigrati, di cui una percentuale rilevante era ebrea. Ancora nel giugno del 1933, il 70% della dirigenza nazionale del CPUSA era nato all’estero (Lyons 1982, 72-73); a Filadelfia nel 1929, ben il 90% dei membri del Partito comunista era nato all’estero, e il 72,2% dei membri del CPUSA di Philadelphia era figlio di immigrati ebrei arrivati negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento (Lyons 1982, 71).
Attività anti-restrizioniste ebraiche, 1924-1945
La rilevanza della partecipazione ebraica nelle politiche migratorie statunitensi persisteva dopo la legislazione del 1924. Il sistema delle quote basate sulle origini nazionali era particolarmente deplorevole per i gruppi ebraici. Per esempio, nel 1927 uno scrittore del Jewish Tribune dichiarò: “[Noi]… consideriamo tutte le misure per controllare l’immigrazione in base alla nazionalità illogiche, ingiuste e non americane” (in Neuringer 1971, 205). Durante gli anni ’30 il critico più apertamente contrario a ulteriori restrizioni all’immigrazione (al tempo motivate principalmente dalla preoccupazione, di natura economica, che l’immigrazione avrebbe esacerbato i problemi causati dalla Grande depressione) era il deputato
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Samuel Dickstein, e la sua ascesa alla presidenza della House Immigration Committee [Consiglio della Camera per l’immigrazione, N.d.T.] pose fine alla capacità dei restrizionisti di far approvare ulteriori riduzioni delle quote (Divine 1957, 79-88). Durante gli anni ’30 i principali oppositori alle restrizioni e i principali sostenitori della liberalizzazione della normativa sull’immigrazione erano i gruppi ebraici; i loro oppositori sottolineavano le conseguenze economiche dell’immigrazione durante un periodo di elevata disoccupazione (Divine 1957, 85-88). Tra il 1933 e il 1938 il deputato Dickstein, sostenuto principalmente dalle organizzazioni ebraiche, introdusse alcune proposte di legge mirate ad aumentare il numero di rifugiati dalla Germania nazista, ma prevalsero i restrizionisti (Divine 1957, 93).
Durante gli anni ’30 le preoccupazioni per il radicalismo e l’inassimilabilità degli immigrati ebraici nonché la possibilità di sovversione nazista erano i maggiori fattori che incisero sull’opposizione a cambiare le leggi sull’immigrazione (Breitman & Kraut 1987). Inoltre, “Le accuse secondo cui gli ebrei in America erano più fedeli alla propria tribù che al proprio paese abbondavano negli Stati Uniti negli anni ’30” (Breitman & Kraut 1987, 87). C’era una chiara percezione tra tutti gli interessati che il pubblico fosse avverso a qualsiasi cambiamento delle politiche migratorie e particolarmente contrario all’immigrazione ebraica. Le udienze del 1939 sulla proposta legislativa di ammettere 20 000 rifugiati minorenni provenienti dalla Germania minimizzarono pertanto l’interesse ebraico nella legislazione. Il disegno di legge si riferiva alle persone “di ogni razza e fede afflitte da condizioni che le costringono a cercare asilo in altre terre.”162 Il disegno di legge non accennava al fatto che i principali beneficiari della legislazione sarebbero stati gli ebrei, e coloro che testimoniarono a favore del disegno di legge enfatizzarono che solo il 60% circa dei bambini sarebbero stati ebrei. L’unica persona identificatasi come “un membro della razza ebraica” che testimoniò a favore del disegno di legge era “un quarto cattolico e tre quarti ebraico,” con nipoti protestanti e cattolici, ed era residente del Sud, roccaforte del sentimento anti-immigrazione.163
Per contro, gli oppositori del disegno di legge minacciavano di evidenziare la già alta percentuale di ebrei ammessi conformemente al sistema delle quote – presumibilmente un’indicazione della potente forza di un antisemitismo “virulento e
imperante” tra il pubblico americano (Breitman & Kraut 1987, 80). Gli oppositori a questo disegno di legge osservavano che l’immigrazione permessa dal disegno di legge “sarebbe per la maggior parte di razza ebraica,” e un testimone dichiarò: “va da sé che il popolo ebraico sarà il principale beneficiario di questa legislazione” (in Divine 1957, 100). I restrizionisti argomentavano in termini economici, per esempio, citando spesso la dichiarazione del presidente Roosevelt nel secondo discorso inaugurale “un terzo di una nazione mal alloggiata, malvestito, malnutrito” e il numero già alto di bambini bisognosi negli Stati Uniti. La maggiore preoccupazione dei restrizionisti, tuttavia, era che il disegno di legge era l’ultimo di una lunga serie di tentativi degli anti-restrizionisti tesi a creare precedenti che avrebbero finito con il minare la legge del 1924. A titolo di esempio, Francis Kinnecutt,
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presidente delle Allied Patriotic Societies [Società patriottiche degli Alleati, N.d.T.], sottolineò che la legge del 1924 era basata sull’idea di rappresentanza proporzionale in base alla composizione etnica del paese. La legislazione costituirebbe un precedente “per analoga legislazione non scientifica e di nazione-privilegiata in risposta alle pressioni di gruppi nazionalistici stranieri o razziali, piuttosto che in conformità ai bisogni e ai desideri del popolo americano.”164
Wilbur S. Carr e altri funzionari del Dipartimento di Stato furono importanti nel contenere al minimo l’ingresso dei rifugiati ebrei della Germania durante gli anni ’30. Il sottosegretario di Stato William Phillips era un antisemita che esercitò un’influenza considerevole sulle politiche migratorie dal 1933 al 1936 (Breitman & Kraut 1987, 36). Per tutto questo periodo fino alla fine della seconda guerra mondiale, i tentativi di favorire l’immigrazione ebraica, persino nella consapevolezza delle persecuzioni naziste degli ebrei, per lo più fallirono a causa di un Congresso irremovibile e delle attività dei funzionari, in modo particolare quelli del Dipartimento di Stato. Il dibattito pubblico in riviste quali The Nation (19 novembre 1938) e The New Republic (23 novembre 1938) denunciava che il restrizionismo era motivato dall’antisemitismo, mentre coloro che erano contrari ad accogliere un alto numero di ebrei sostenevano che l’ammissione avrebbe dato luogo a un aumento dell’antisemitismo. Henry Pratt Fairchild (1939, 344), restrizionista nonché aspro critico degli ebrei in generale (si veda Fairchild 1947), enfatizzò “la potente corrente anti-straniero e antisemita che scorre appena sotto la superficie della mente del pubblico americano, pronta a scoppiare in una violenta eruzione alla minima provocazione.” L’opinione pubblica rimaneva fermamente contraria all’incremento delle quote per i rifugiati europei: un sondaggio del 1939 nel Fortune (aprile 1939) rilevò che l’83% rispose negativamente alla seguente domanda: “Se fosse un membro del Congresso voterebbe a favore o contro un disegno di legge per aprire le porte degli Stati Uniti a un numero di rifugiati europei più elevato rispetto a quello attualmente ammesso ai sensi delle nostre quote di immigrazione?” Meno del 9% rispose affermativamente e il resto non espresse alcuna opinione.
Attività anti-restrizioniste ebraiche, 1946-1952
Benché gli interessi ebraici avessero subito una sconfitta con la legislazione del 1924, “il carattere discriminatorio della legge Reed-Johnson continuava a provocare malumore tra tutti i settori dell’opinione ebraica americana” (Neuringer 1971, 196). Durante questo periodo, un articolo di Will Maslow (1950) nel Congress Weekly reiterava la convinzione che le leggi migratorie restrittive prendessero deliberatamente di mira gli ebrei: “Una sola forma di legge, la legislazione sull’immigrazione che riguarda gli stranieri fuori del paese, non è soggetta alle garanzie costituzionali, e anche qui l’ostilità verso l’immigrazione ebraica
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si è dovuta mascherare in un intricato programma di quote in cui l’ammissibilità era basata sul luogo di nascita anziché sulla religione.”
L’interesse ebraico a cambiare l’equilibrio etnico degli Stati Uniti traspare dai dibattiti sull’immigrazione nell’epoca del secondo dopoguerra. Nel 1948 l’AJCommittee presentò a una sottocommissione senatoriale una dichiarazione che negava l’importanza degli interessi materiali degli Stati Uniti e contemporaneamente affermava il suo impegno all’immigrazione di tutte le razze: “L’americanismo non va misurato dalla conformità alla legge, né dallo zelo per l’istruzione, né dall’alfabetismo, né da tutte queste qualità in cui gli immigrati potrebbero superare i nati nel paese. L’americanismo è lo spirito alla base del benvenuto che l’America ha tradizionalmente esteso a persone di tutte le razze, di tutte le religioni e di tutte le nazionalità” (in Cohen 1972, 369).
Nel 1945 il deputato Emanuel Celler presentò una proposta di legge per porre fine all’esclusione cinese tramite quote simboliche per i cinesi, e nel 1948 l’AJCommittee condannò le quote razziali per gli asiatici (Divine 1957, 155). Per contro, i gruppi ebraici mostravano indifferenza o persino ostilità verso l’immigrazione di non ebrei provenienti dall’Europa (inclusa l’Europa meridionale) nel secondo dopoguerra (Neuringer 1971, 356, 367-369, 383). Pertanto non ci fu nessuna testimonianza dei portavoce degli ebrei al primo turno dei dibattiti sulla legislazione di emergenza per permettere l’immigrazione di un numero limitato di tedeschi, italiani, greci e olandesi, fuggiti dal comunismo, e un numero ridotto di polacchi, asiatici e arabi. Quando alla fine i portavoce degli ebrei testimoniarono (in parte perché alcuni dei fuggitivi dal comunismo erano ebrei),
colsero ancora una volta l’occasione per ribadire la loro condanna dei provvedimenti sulle origini nazionali della legge del 1924.
Il coinvolgimento ebraico nell’opposizione alle restrizioni durante questo periodo era motivato, in parte, dal tentativo di creare dei precedenti in cui il sistema delle quote veniva aggirato e, in parte, dal tentativo di aumentare l’immigrazione ebraica dall’Europa orientale. Il Citizens Committee on Displaced Persons, che spingeva per una legislazione che ammettesse 400 000 rifugiati come immigrati non soggetti a quote per un periodo di quattro anni, disponeva di un organico di 65 persone ed era finanziato principalmente dall’AJCommittee e da altri contribuenti ebrei (si veda Cong. Rec., 15 ottobre 1949, 14647-14654; Neuringer 1971, 393). I testimoni contrari alla legislazione denunciavano il fatto che il disegno di legge era un tentativo di sovvertire l’equilibrio etnico degli Stati Uniti stabilito dalla legislazione del 1924 (Divine 1957, 117). In realtà, il disegno di legge che emerse dalla sottocommissione non soddisfaceva gli interessi ebraici poiché stabiliva una data limite che escludeva gli ebrei immigrati dall’Europa orientale dopo la seconda guerra mondiale, inclusi gli ebrei in fuga dall’antisemitismo polacco. La sottocommissione senatoriale “considerava il movimento degli ebrei e di altri rifugiati dall’Europa dell’Est come non rientrante nell’ambito del problema principale
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e insinuava che questo esodo fosse una migrazione pianificata organizzata dalle agenzie ebraiche negli Stati Uniti e in Europa” (Senate Rep. N. 950 [1948], 15-16). I rappresentanti ebraici guidavano l’attacco al disegno di legge (Divine 1957, 127), e il deputato Emanuel Celler lo definiva “peggio dell’assenza di una legge. Non fa altro che escludere… gli ebrei” (in Neuringer 1971, 298; si veda anche Divine 1957, 127). Firmando con riluttanza il disegno di legge, il presidente Truman osservò che la data limite del 1945 “discrimina in modo spietato contro gli sfollati di fede ebraica” (Interpreter Releases 25 [21 luglio 1948], 252-254). Per contro, il senatore Chapman Revercomb dichiarò che “non si intende fare nessuna distinzione, tantomeno discriminazione, tra le persone in base alla loro religione o alla loro razza, ma si fanno distinzioni tra quelle persone che sono realmente sfollate e che si trovano nei campi da più tempo e che godono di una preferenza” (Cong. Rec., 26 maggio 1948, 6793). Nella sua analisi, Divine conclude che
il motivo dichiarato dai restrizionisti per limitare il programma a coloro che erano rimasti sfollati nel corso della guerra sembra una valida spiegazione per questi provvedimenti. La tendenza dei gruppi ebraici di attribuire al pregiudizio antisemita l’esclusione di molti loro correligionari è comprensibile; tuttavia, le accuse estreme di discriminazione sollevate nel corso della campagna presidenziale fa sospettare che l’ala settentrionale del Partito democratico stesse usando questa vicenda per attirare il voto dei membri dei gruppi minoritari. Sicuramente l’asserzione di Truman che la legge del 1948 era anticattolica, a dispetto delle smentite cattoliche, indica che la convenienza politica aveva molto a che fare con l’enfasi sulla vicenda della discriminazione.
Sulla scia di questo disegno di legge, il Citizens Committee on Displaced Persons rilasciò un rapporto in cui si sosteneva che tale disegno di legge era caratterizzato da “odio e razzismo” e le organizzazioni ebraiche erano unanimi nel condannare la legge (Divine 1957, 131). Dopo le elezioni del 1948 che portarono a un Congresso nelle mani dei Democratici e a un comprensivo presidente Truman, il deputato Celler presentò una proposta di legge senza la data limite del 1945, ma, dopo l’approvazione della Camera, la proposta fu bocciata dal Senato a causa dell’opposizione del senatore Pat McCarran. McCarran fece notare che il Citizens Committee aveva sborsato più di 800 000 di dollari per promuovere la proposta di legge, con il risultato che “si è disseminata in lungo e largo per la nazione una campagna di rappresentazioni distorte e falsità che ha tratto in inganno molti cittadini e organizzazioni benintenzionati e di forte senso civico” (Cong. Rec., 26 aprile 1949, 5042- 5043). Dopo la sconfitta, il Citizens Committee portò la cifra
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a più di 1 000 000 di dollari e riuscì a far passare un disegno di legge, presentato dal deputato Celler, la cui data limite del 1949 non discriminava contro gli ebrei ma escludeva ampiamente i tedeschi etnici che erano stati espulsi dall’Europa dell’Est. In un’inaspettata svolta nel dibattito, i restrizionisti ora accusavano gli anti-restrizionisti di parzialità etnica (p. es., il senatore Eastland, Cong. Rec., 5 aprile 1950, 2737; il senatore McCarran, Cong. Rec., 5 aprile 1950, 4743).
In un’epoca in cui non c’erano manifestazioni di antisemitismo in altre parti del mondo che creassero un’urgente necessità di immigrazione ebraica e con la presenza di Israele come porto di rifugio per gli ebrei, le organizzazioni ebraiche continuavano a obiettare strenuamente al permanere dei provvedimenti sulle origini nazionali della legge del 1924 nella legge McCarran-Walter del 1952 (Neuringer 1971, 337 ss.). Infatti, quando il giudice della Corte distrettuale d’Appello, Simon H. Rifkind, testimoniò per conto di un’ampia gamma di organizzazioni ebraiche contro il disegno di legge McCarran-Walter, osservò enfaticamente che, data la situazione internazionale e in particolare l’esistenza di Israele quale porto di rifugio per gli ebrei, i punti di vista degli ebrei sulla legislazione in materia di immigrazione non erano fondati sulla “situazione difficile dei nostri correligionari, ma piuttosto sull’impatto esercitato dalle leggi in materia di immigrazione e naturalizzazione sul carattere e sulla qualità della vita americana qui negli Stati Uniti.”165 L’argomento era impostato in termini di “principi democratici e la causa
dell’amicizia internazionale” (Cohen 1972, 368) – con la teoria implicita che i principi della democrazia richiedevano la diversità etnica (un parere al tempo promulgato da attivisti intellettuali ebrei quali Sidney Hook [1948, 1949; si veda cap. 6]) e la teoria che la buona volontà degli altri paesi dipendeva dalla disponibilità americana ad accogliere i loro cittadini come immigrati. “L’approvazione del [disegno di legge McCarran-Walter] comprometterà seriamente lo sforzo nazionale che stiamo portando avanti. Perché siamo impegnati in una guerra per le menti e i cuori degli uomini. Le nazioni libere si rivolgono a noi per un incoraggiamento morale e spirituale in un’epoca in cui la fede che anima gli uomini è tanto importante quanto la forza che essi esercitano.”166
La legge McCarran-Walter includeva esplicitamente le origini razziali come criterio nella disposizione secondo la quale gli orientali sarebbero da includere nelle quote simboliche degli orientali a prescindere dal luogo di nascita. Nel corso dei dibattiti sul disegno di legge McCarran-Walter, Herbert Lehman, senatore di New York e il più importante oppositore senatoriale delle restrizioni sull’immigrazione negli anni ’50 (Neuringer 1971, 351), sostenne che la quota per l’Inghilterra avrebbe dovuto includere gli immigrati giamaicani di origine africana e affermò che il disegno di legge avrebbe provocato risentimento tra gli asiatici (Neuringer 1971, 346, 356). I deputati Celler e Javits, i leader degli anti-restrizionisti alla Camera, presentavano argomentazioni simili (Cong. Rec. 23 aprile 1952, 4306, 4219). Così come era evidente nelle battaglie risalenti all’Ottocento, l’opposizione alla legislazione in materia di origini nazionali andava oltre gli effetti
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sull’immigrazione ebraica per caldeggiare l’immigrazione di tutti i gruppi razziali ed etnici del mondo.
La relazione della sottocommissione incaricata di considerare la legge McCarran sull’immigrazione, riflettendo i desideri di mantenere lo status quo etnico nonché il rilievo delle questioni ebraiche a quell’epoca, fece notare che “la popolazione degli Stati Uniti si è triplicata dal 1877, mentre la popolazione ebraica è aumentata ventuno volte durante lo stesso periodo” (Senate Rep. n. 1515 [1950], 2-4). Il disegno di legge conteneva inoltre una disposizione secondo cui i cittadini naturalizzati avrebbero perso automaticamente la cittadinanza in caso di residenza ininterrotta all’estero per cinque anni. Tale disposizione sarebbe stata motivata, secondo le organizzazioni ebraiche, da atteggiamenti antisionisti: “Dalle testimonianze dei funzionari governativi alle udienze… risulta evidente che la disposizione nasce da un desiderio di dissuadere gli ebrei americani naturalizzati dall’aderire a un ideale profondamente sentito che certi funzionari, in violazione della linea politica americana, giudicavano indesiderabile.”167
Riaffermando la logica dei restrizionisti degli anni ’20, la relazione della sottocommissione sottolineò che l’obiettivo della legge del 1924 era “la restrizione dell’immigrazione dall’Europa meridionale e orientale al fine di mantenere una predominanza di individui originari dell’Europa nord-occidentale nella composizione della nostra popolazione complessiva”, notando tuttavia che questo obiettivo non implicava “nessuna teoria di supremazia nordica” (Senate Rep. n. 1515 [1950], 442, 445-446). L’argomento veniva presentato principalmente in termini di “similitudine del background culturale” dei potenziali immigrati, implicando il rifiuto delle teorie di pluralismo culturale (Bennett 1966, 133). Così come nel 1924, le teorie di supremazia nordica venivano rifiutate, ma a differenza del 1924, non c’era alcun accenno al legittimo interesse etnico dei popoli dell’Europa nord-orientale, presumibilmente una conseguenza dell’efficacia dell’attacco boasiano contro questo concetto.
Senza dar credito ad alcuna teoria di supremazia nordica, la sottocommissione ritiene che l’adozione della formula delle origini nazionali sia stata un metodo ragionevole e logico per limitare numericamente l’immigrazione in modo da preservare meglio l’equilibrio sociologico e culturale della popolazione degli Stati Uniti. Non c’è dubbio che ha favorito i popoli dei paesi dell’Europa settentrionale e occidentale rispetto a quelli dell’Europa meridionale e orientale, ma la sottocommissione sostiene che i popoli che avevano contribuito di più allo sviluppo di questo paese avessero pieno diritto di stabilire che il paese non era più idoneo a un’ulteriore colonizzazione e che d’ora in avanti l’immigrazione non solo sarebbe stata limitata ma gestita in modo da ammettere gli immigrati considerati più facilmente assimilabili
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per via della similitudine tra il loro background culturale e quello delle principali componenti della nostra popolazione. (Sen. Rep. n. 1515, 81° Cong., 2° seduta, 1950, 455)
È importante notare che i portavoce degli ebrei si distinguevano dagli altri gruppi progressisti nei loro motivi per opporsi alle restrizioni sull’immigrazione durante questo periodo. Qui di seguito, si sottolinea la testimonianza del giudice Simon H. Rifkind, che rappresentava una molteplicità di agenzie ebraiche alle udienze sul disegno di legge McCarran-Walter nel 1951.168
1) L’immigrazione dovrebbe provenire da tutti i gruppi razziali ed etnici:
Noi concepiamo l’americanismo come lo spirito dietro l’accoglienza che l’America tradizionalmente ha esteso a persone di razza diversa, di tutte le religioni, di tutte le nazionalità. L’americanismo è uno stile di vita tollerante ideato da uomini vastamente diversi l’uno dall’altro in termini di religione, origine razziale, istruzione e
discendenza, i quali concordano di lasciar perdere tutte queste cose e di chiedere a un nuovo vicino di casa non da dove viene ma solo che cosa sa fare e qual è la sua disposizione verso il suo prossimo. (p. 566)
1) Il numero totale degli immigrati andrebbe massimizzato entro limiti economici e politici molto larghi: “La regolamentazione [dell’immigrazione] è la regolamentazione di risorse, non di un onere” (p. 567). Rifkind enfatizzò più volte che le quote non utilizzate avevano l’effetto di limitare il totale degli immigrati – fatto da lui giudicato molto negativamente (p. es., p. 569).
2) Gli immigrati non andrebbero visti come risorse economiche da importare solo per servire le attuali esigenze degli Stati Uniti:
Considerando [l’immigrazione selettiva] dal punto di vista degli Stati Uniti, mai da quello dell’immigrato, io direi che dovremmo, in una certa misura, provvedere alle nostre esigenze temporanee, ma senza far sì che il nostro problema di immigrazione diventi uno strumento occupazionale. Non credo che, quando lasciamo entrare gli immigrati, stiamo comprando beni economici. Stiamo accogliendo degli esseri umani che metteranno su famiglia e cresceranno figli, i cui figli potrebbero arrivare alle vette più alte – almeno così speriamo e preghiamo. Per un piccolo segmento del flusso migratorio, credo che abbiamo diritto di dire, laddove ci trovassimo a corto di un particolare talento, “Andiamo a cercarli”, se necessario, ma evitiamo di farne il ragionamento omnipervadente. (p. 570)
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L’opposizione all’uso delle competenze di cui si aveva necessità quale base dell’immigrazione era in linea con il protratto tentativo degli ebrei di ritardare l’approvazione di un test di alfabetizzazione come criterio per l’immigrazione, a partire dal tardo Ottocento fino al varo del test di alfabetizzazione nel 1917.
Sebbene nella testimonianza di Rifkind non figurasse alcuna accusa che la politica migratoria fosse basata sulla teoria della superiorità nordica, quest’ultima restava un tema importante di altri gruppi ebraici, in modo particolare l’AJCongress, nel promuovere l’immigrazione di tutti i gruppi etnici. Il comunicato dell’AJCongress prestava molta attenzione all’importanza della teoria della superiorità nordica come elemento motivante della legislazione del 1924. Contrariamente all’incredibile affermazione di Rifkind sulla tradizionale apertura americana verso tutti i gruppi etnici, esso segnalava la lunga storia di esclusione etnica esistente prima dell’elaborazione di queste teorie, tra cui la Legge sull’esclusione cinese del 1882, il Gentlemen’s agreement con il Giappone del 1907 che limitava l’immigrazione di lavoratori giapponesi, e l’esclusione di altri asiatici nel 1917. Il comunicato faceva notare che la legislazione del 1924 era riuscita a preservare l’equilibrio etnico degli Stati Uniti secondo i dati del censimento del 1920, ma osservava che “l’obiettivo è privo di valore. Non c’è niente di sacrosanto nella composizione della popolazione nel 1920. Sarebbe sciocco pensare di aver raggiunto l’apice della perfezione etnica in quell’anno.”169 Inoltre, in un’esplicita affermazione dell’ideale multiculturale di Horace Kallen, il comunicato dell’AJCongress proponeva “la tesi della democrazia culturale, la quale garantirebbe a tutti i gruppi ‘sia di maggioranza che di minoranza… il diritto di essere diversi e la responsabilità di assicurarsi che le rispettive differenze non entrino in conflitto con il benessere del popolo americano in generale.’”170
Durante questo periodo il Congress Weekly, rivista dell’AJCongress, denunciava regolarmente le disposizioni sulle origini nazionali come basate sul “mito dell’esistenza di ceppi razziali superiori e inferiori” (17 ottobre 1955, p. 3) e promuoveva l’immigrazione in base a “la necessità e altri criteri non legati alla razza o all’origine nazionale” (4 maggio 1953, p. 3). Dal punto di vista dell’AJCongress, l’implicazione che non andasse fatto alcun cambiamento allo status quo etnico imposto dalla legislazione del 1924 era particolarmente deplorevole (p. es., Goldstein 1952a, 6). La formula delle origini nazionali “è oltraggiosa di questi tempi… quando la nostra esperienza nazionale ha confermato oltre ogni dubbio che la nostra forza risiede proprio nella diversità dei nostri popoli” (Goldstein 1952b, 5).
Come indicato sopra, ci sono prove che la legislazione del 1924 e il restrizionismo degli anni ’30 erano motivati in parte da atteggiamenti antisemiti. L’antisemitismo e il suo legame con l’anticomunismo erano evidenti anche nei dibattiti sull’immigrazione durante gli anni ’50 prima e dopo l’approvazione della legge McCarran-Walter. I restrizionisti spesso richiamavano l’attenzione sul fatto che oltre il 90%
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dei comunisti americani aveva origini risalenti all’Europa dell’Est. Uno dei principali obiettivi verso cui erano dirette le forze restrizioniste era quello di impedire l’immigrazione da questa zona e di facilitare le procedure di deportazione al fine di scongiurare la sovversione comunista. L’Europa dell’Est era anche la fonte principale dell’immigrazione ebraica, e gli ebrei avevano una rappresentanza sproporzionata tra i comunisti americani, con il risultato che queste questioni finirono per intrecciarsi l’una con l’altra, e la situazione si prestò a teorie cospiratorie antisemite di ampio respiro sul ruolo degli ebrei nella politica statunitense (p. es. Beaty 1951). Al Congresso, il deputato John Rankin, notorio antisemita, senza riferirsi esplicitamente agli ebrei, dichiarò:
Si lagnano della discriminazione. Sapete chi è che subisce la discriminazione? I bianchi cristiani dell’America, quelli che costruirono questa nazione… Sto parlando dei bianchi cristiani del Nord come pure quelli del Sud… Il comunismo è razziale. Una minoranza razziale si è impossessata del comando in Russia e in tutti i suoi paesi satellite quali la Polonia, la Cecoslovacchia e molti altri paesi che potrei nominare. Sono stati cacciati via praticamente da tutti i paesi dell’Europa negli anni passati, e se continuano ad alimentare le tensioni razziali in questo paese e a tentare di imporre il loro programma comunista al popolo cristiano d’America, sarà impossibile prevedere che cosa succederà loro qui (Cong. Rec., 23 aprile 1952, 4320)
Durante questo periodo le principali organizzazioni ebraiche tradizionali si impegnarono molto per sradicare lo stereotipo dell’ebreo-comunista e per creare un’immagine degli ebrei come progressisti anticomunisti (Svonkin 1997). “La lotta contro lo stereotipo dell’ebreo-comunista diventò praticamente un’ossessione per i leader e gli opinionisti ebrei in tutta l’America” (Liebman 1979, 515). (Per illustrare quant’era diffuso questo stereotipo, quando l’antropologa gentile Eleanor Leacock venne sottoposta ai controlli dall’FBI per il nulla osta di sicurezza nel 1944, in un tentativo di documentare i suoi legami con radicali politici, ai suoi amici fu chiesto se frequentasse ebrei [Frank 1997, 738]). L’AJCommittee profuse intensi sforzi per cambiare l’opinione prevalente nella comunità ebraica, dimostrando che gli interessi ebraici erano più compatibili con il sostegno della democrazia americana che non del comunismo sovietico (p. es. sottolineando l’antisemitismo e il supporto sovietico alle nazioni ostili a Israele nel secondo dopoguerra) (Cohen 1972, 347 ss.)171 Benché l’AJCongress riconoscesse che il comunismo rappresentava una minaccia, il gruppo adottò una posizione “antianticomunista”, condannando le violazioni delle libertà civili contenute nella legislazione anticomunista di quel periodo.
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Era pertanto “al massimo, un partecipante riluttante e non entusiasta” (Svonkin 1997, 132) nello sforzo ebraico di costruire una forte immagine pubblica di anticomunismo durante questo periodo – una posizione che rifletteva le simpatie di molti dei suoi soci, prevalentemente immigrati dell’Europa dell’Est di seconda o terza generazione.
Questa radicale subcultura ebraica e i suoi legami con il comunismo erano ben evidenti durante le sommosse a Peekskill, New York, nel 1949. Peekskill era una meta turistica estiva per circa 30 000 professionisti, prevalentemente ebrei associati alle colonie socialiste, anarchiche e comuniste fondate originariamente negli anni ’30. La causa immediata delle sommosse fu un concerto tenuto dal comunista dichiarato Paul Robeson e sponsorizzato dal Civil Rights Congress [Congresso per i diritti civili, N.d.T.], un gruppo pro-comunista bollato come sovversivo dal procuratore generale degli Stati Uniti. I rivoltosi fecero commenti antisemiti in un’epoca in cui il legame tra gli ebrei e il comunismo era molto saliente. Conseguentemente si assistette a degli sforzi di cura dell’immagine da parte dell’AJCommittee in cui l’aspetto antisemita della vicenda venne minimizzato – un esempio del metodo di quarantena della strategizzazione politica ebraica (si veda SAID, cap. 6, nota 14). Questa strategia contrastava con altri gruppi come l’AJCongress e l’ACLU, i quali appoggiavano una relazione in cui si attribuiva la violenza al pregiudizio antisemitico e si sottolineava che le vittime erano state private delle loro libertà civili a causa delle loro simpatie per il comunismo.
Particolarmente preoccupanti per i leader ebrei americani furono l’arresto e la condanna per spionaggio di Julius ed Ethel Rosenberg. I sostenitori di sinistra di Rosenberg, molti dei quali erano ebrei, tentarono di rappresentare l’accaduto come un episodio di antisemitismo; nelle parole di un noto opinionista, “Il linciaggio di questi due ebrei americani innocenti, a meno che non venga impedito dal popolo americano, servirà da segnale per scatenare un’ondata di attacchi genocidi simil-nazisti contro il popolo ebreo in tutti gli Stati Uniti” (in Svonkin 1997, 155). Queste organizzazioni di sinistra cercarono attivamente di far schierare la corrente ebraica convenzionale a favore di questa interpretazione (Dawidowicz 1952). Così facendo, tuttavia, resero ancora più salienti le identità ebraiche di questi individui e il nesso tra il giudaismo e il comunismo. La comunità ebraica ufficiale fece di tutto per modificare lo stereotipo pubblico della slealtà e della sovversione degli ebrei. Analogamente, nel suo sforzo per incriminare il comunismo, l’AJCommittee commentò sul processo di Rudolph Slansky e dei suoi colleghi ebrei in
Cecoslovacchia. Questo processo faceva parte delle epurazioni antisemite dell’élite ebraica comunista nell’Europa dell’Est nel secondo dopoguerra, del tutto simili agli eventi in Polonia descritti da Schatz (1991) e discussi nel capitolo 3. L’AJCommittee dichiarò: “Il processo di Rudolph Slansky, ebreo rinnegato, e dei suoi colleghi, i quali tradirono il giudaismo servendo la causa del comunismo, dovrebbe sensibilizzare tutti al fatto che l’antisemitismo è diventato un chiaro strumento della politica comunista. È ironico che
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questi due uomini che rinnegarono il giudaismo, avverso com’è al comunismo, ora vengano sfruttati come pretesto per la campagna antisemita comunista” (in Svonkin 1997, 282 nota 114).
Le organizzazioni ebraiche collaborarono pienamente con il Comitato per le attività antiamericane, e i sostenitori dei Rosenberg e altri comunisti furono cacciati via dalle principali organizzazioni ebraiche convenzionali, presso le quali prima avevano trovato accoglienza. Particolarmente notevole in questo senso era il Jewish People’s Fraternal Order (JPFO) [Ordine fraterno del popolo ebraico, N.d.T.] con i suoi 50 000 iscritti, un ordine sussidiario dell’International Workers Order [Ordine internazionale dei lavoratori, N.d.T.], che venne denominato come organizzazione sovversiva dal procuratore generale degli USA. L’AJCommittee persuase le organizzazioni ebraiche locali a espellere il JPFO, una mossa strenuamente opposta dal JPFO, e l’AJCongress sciolse lo status di affiliato del JPFO, come pure di un’altra organizzazione dominata dai comunisti, l’American Jewish Labor Council [Consiglio ebraico del lavoro di America, N.d.T.]. In modo simile, le principali organizzazioni ebraiche convenzionali si dissociarono dal Social Service Employees Union [Sindacato degli addetti ai servizi sociali, N.d.T.], un sindacato operaio ebraico per lavoratori appartenenti alle organizzazioni ebraiche. In precedenza, questo sindacato era stato espulso dal Congress of Industrial Organizations [Congresso delle organizzazioni industriali, N.d.T.] a causa delle sue simpatie comuniste.
Le organizzazioni ebraiche riuscirono a ritagliare un ruolo di primo piano agli ebrei che lavoravano per il rinvio a giudizio dei Rosenberg, e dopo i verdetti di colpevolezza, l’AJCommittee e l’American Civil Liberties Union si impegnarono attivamente per promuovere il sostegno popolare a loro favore (Ginsberg 1993, 121; Navasky 1980, 114 ss.). La rivista Commentary, pubblicata dall’AJCommittee, “veniva rigorosamente curata per assicurare che nulla di ciò che vi appariva potesse essere interpretato in alcun modo come favorevole al comunismo” (Liebman 1979, 516), e si scomodò perfino a stampare articoli estremamente antisovietici.
Cionondimeno, la posizione delle organizzazioni ebraiche convenzionali quali l’AJCommittee, contraria al comunismo, spesso coincideva con quella del CPUSA sulle questioni di immigrazione. Per esempio, sia l’AJCommittee che il CPUSA condannavano la legge McCarran-Walter mentre, d’altre parte, l’AJCommittee giocava un ruolo importante nel condizionare le raccomandazioni della President’s Commission on Immigration and Naturalization (PCIN) di Truman per ammorbidire le disposizioni di sicurezza della legge McCarran-Walter, e queste raccomandazioni erano calorosamente accolte dal CPUSA in un periodo in cui l’obiettivo principale dei provvedimenti di sicurezza era quello di escludere i comunisti (Bennett 1963, 166). (Anche i commenti del giudice Julius Rifkind nelle udienze congiunte sulla legge McCarran-Walter [si veda p. 278 sopra] condannarono i provvedimenti di sicurezza del decreto.) Gli ebrei erano rappresentati in misura sproporzionata nella PCIN come pure nelle organizzazioni considerate dal Congresso come organizzazioni comuniste di facciata coinvolte nelle questioni di immigrazione. Il presidente della PCIN era Philip B. Perlman e nel personale della commissione figurava un’alta percentuale di ebrei, capeggiati da Harry N. Rosenfield (direttore esecutivo) ed Elliot Shirk (assistente al direttore esecutivo), e
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la sua relazione era appoggiata senza riserve dall’AJCongress (si veda Congress Weekly, 12 gennaio 1952, 3). Gli atti procedurali furono stampati nel rapporto Whom We Shall Welcome [I nostri futuri ospiti, N.d.T., una frase dagli scritti di George Washington] con la collaborazione del deputato Emanuel Celler.
Al Congresso, il senatore McCarran accusò la PCIN di includere dei simpatizzanti comunisti nei suoi ranghi, e il Comitato della Camera per le attività anti-americane (HUAC) rilasciò un rapporto in cui si affermava che “un paio di dozzine di comunisti e un numero ben più alto di persone dal comprovato passato di ripetute associazioni con noti organi comunisti hanno testimoniato davanti alla Commissione o hanno rilasciato dichiarazioni da mettere agli atti delle udienze… Da nessuna parte, né negli atti delle udienze né nella relazione, si fa alcun riferimento al vero background di queste persone” (House Rep. n. 1182, 85° Congresso, 1° seduta, 47). Il rapporto faceva riferimento in particolare ai comunisti legati all’American Committee for the Protection of Foreign Born (ACPFB) [Comitato americano per la tutela dei nati all’estero, N.d.T.], capeggiato da Abner Green. Green, ebreo, rivestiva un ruolo di spicco nelle udienze, e tra gli sponsor e i funzionari dell’ACPFB, gli ebrei figuravano in modo sproporzionato (pp. 13-21). L’HUAC fornì delle prove corroboranti gli stretti legami tra l’ACPFB e il CPUSA e fece notare che 24 degli individui associati all’ACPFB avevano firmato dichiarazioni che furono incluse negli atti della PCIN.
L’AJCommittee giocò inoltre un ruolo rilevante nelle deliberazioni della PCIN, per esempio fornendo testimonianze e distribuendo dati e altri materiali a individui e a organizzazioni che testimoniarono davanti alla PCIN (Cohen 1972, 371). Nel
rapporto finale vennero incorporate tutte le sue raccomandazioni (Cohen 1972, 371), tra cui il ridimensionamento delle capacità economiche come criterio per l’immigrazione, lo scarto della legislazione di origini nazionali, e l’apertura dell’immigrazione a tutti i popoli della terra “in base al principio ‘primo arrivato, primo servito’”, con l’unica eccezione che il rapporto consigliava un totale di immigrati più basso rispetto a quello suggerito dall’AJCommittee e da altri gruppi ebraici. L’AJCommittee pertanto andava ben oltre la semplice promozione del principio di immigrazione di tutti i gruppi etnici e razziali (delle quote simboliche per gli asiatici e gli africani erano già state incluse nella legge McCarran-Walter) per cercare di massimizzare il numero totale di immigrati da ogni parte del mondo nel clima politico dell’epoca.
Infatti, la commissione (PCIN 1953, 106) segnalò chiaramente che la legislazione del 1924 era riuscita a mantenere lo status quo razziale, e che il principale ostacolo al cambiamento dello status quo razziale non era il sistema delle origini nazionali, perché c’erano già alti livelli di immigrati non-quota e perché i paesi dell’Europa settentrionale e occidentale non raggiungevano le loro quote. Il rapporto osservò che il maggiore impedimento al cambiamento dello status quo razziale degli Stati Uniti era invece il numero complessivo degli immigrati. La commissione pertanto considerava il mutamento dello status quo razziale degli Stati Uniti come un obiettivo desiderabile, e a tal fine rimarcava la
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desiderabilità di aumentare il numero complessivo degli immigrati (PCIN 1953, 42). Come fa notare Bennett (1963, 164), agli occhi della PCIN, la legislazione del 1924 per ridurre il numero complessivo degli immigrati “era una cosa molto brutta data la sua conclusione che una razza vale quanto un’altra per la cittadinanza americana o per qualsiasi altro scopo.”
Di conseguenza, i difensori della legislazione del 1952 vedevano la questione essenzialmente come una guerra etnica. Il senatore McCarran dichiarò che sovvertire il sistema delle origini nazionali “tenderebbe a cambiare, nel corso di una generazione o giù di lì, la composizione etnica e culturale di questa nazione” (in Bennett 1963, 185), e Richard Arens, un funzionario congressuale che aveva avuto un ruolo importante nelle udienze sul disegno di legge McCarran-Walter nonché nelle attività dell’HUAC, dichiarò: “Sono questi i critici a cui l’America com’è adesso e com’era prima non piace. Credono che i nostri popoli esistano in proporzioni etniche ingiuste. Preferiscono che abbiamo una maggior somiglianza o legame etnico con quegli stranieri che loro favoriscono e per cui pretendono privilegi di immigrazione sproporzionatamente maggiori” (in Bennett 1963, 186). Come osserva Divine (1957, 188), prevalsero gli interessi etnici da entrambi le parti. I restrizionisti sostenevano implicitamente lo status quo etnico, mentre gli anti-restrizionisti erano alquanto più espliciti nel loro desiderio di cambiare lo status quo etnico in una maniera che si conformasse ai loro interessi etnici, sebbene la retorica anti-restrizionista fosse formulata in termini universalisti e moralisti.
La rilevanza del coinvolgimento ebraico nell’immigrazione durante questo periodo si vede inoltre in diversi altri episodi. Nel 1950 il rappresentante dell’AJCongress testimoniò che il mantenimento del sistema delle origini nazionali in qualsiasi forma sarebbe stato “una catastrofe politica e morale” (“Revision of Immigration Laws” Joint Hearings, 1950, 336-337). La formula delle origini nazionali implica che “le persone in cerca dell’opportunità di vivere in questo paese sarebbero giudicate in base alla razza come bestiame a una fiera di campagna, e non in base all’idoneità caratteriale o alle capacità” (Congress Weekly 21, 1952, 3-4). Divine (1957, 173) caratterizza l’AJCongress come “l’ala più militante” dell’opposizione per via della sua contrarietà per principio a qualsiasi sorta di formula basata sulle origini nazionali, mentre gli altri oppositori volevano semplicemente poter allocare le quote non utilizzate all’Europa meridionale e orientale.
Il deputato Francis Walter fece notare “la campagna di propaganda portata avanti da certi membri dell’American Jewish Congress contrari al Codice dell’immigrazione e nazionalità” (Cong. Rec., 13 marzo 1952, 2283), notando in particolare le attività del dottor Israel Goldstein, presidente dell’AJCongress, il quale avrebbe detto, secondo il New York Times, che la legge sull’immigrazione e sulla nazionalità apporrebbe “un marchio legislativo di inferiorità su tutte le persone di origine non anglosassone.” Il deputato Walter quindi
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fece presente il ruolo speciale rivestito dalle organizzazioni ebraiche nel tentativo di basare la politica migratoria degli Stati Uniti sulla riunione familiare anziché sulle competenze particolari. Dopo l’affermazione del deputato Jacob Javits, secondo cui l’opposizione alla legge “non era limitata all’unico gruppo menzionato da quel signore” (Cong. Rec., 13 marzo 1952, 2284), Walter replicò come segue:
Richiamerei la Sua attenzione sul fatto che il signor Harry N. Rosenfield, commissario della Displaced Persons Commission [Commissione per gli sfollati, N.d.T.] [e direttore esecutivo della PCIN; si veda sopra] nonché, tra parentesi, cognato di un avvocato che sta fomentando tutta questa agitazione, in un suo discorso recente ha dichiarato:
La legislazione proposta è il processo di Norimberga dell’America. È “racious” [parola inesistente; evidentemente Rosenfield voleva dire “racist”, cioè razzista, N.d.T.] e arcaica, basata sulla teoria secondo la quale le persone vanno trattate in modo diverso a seconda della rispettiva forma del naso.
Il deputato Walter quindi fece notare che le uniche due organizzazioni ostili all’intero disegno di legge erano l’AJCongress e l’Association of Immigration and Nationality Lawyers [Associazione degli avvocati di immigrazione e nazionalità, N.d.T.], quest’ultima “rappresentata da un avvocato che sta inoltre prestando consulenza e assistenza legale all’American Jewish Congress.” (Goldstein stesso [1952b] fece notare che “al tempo delle udienze congiunte Camera-Senato sul disegno di legge McCarran, l’American Jewish Congress era l’unico gruppo civico che osava contestare perentoriamente la formula delle quote basate sulle origini nazionali.”)
Il deputato Emanuel Celler replicò che Walter “non avrebbe dovuto porre tutta questa enfasi su persone di una certa fede che si oppongono al disegno di legge.” (p. 2285). Il deputato Walter si disse d’accordo con i commenti di Celler, osservando che “ci sono altri gruppi ebraici rispettabilissimi che sostengono il disegno di legge.” Cionondimeno, le principali organizzazioni ebraiche, tra le quali l’AJCongress, l’AJCommittee, l’ADL, il National Council of Jewish Women [Consiglio nazionale delle donne ebraiche, N.d.T.], e l’Hebrew Immigrant Aid Society [Società per l’assistenza agli immigrati ebraici, N.d.T.], difatti si opponevano al disegno di legge (Cong. Rec., 23 aprile 1952, 4247), e quando il giudice Simon Rifkind testimoniò contro il disegno di legge nelle udienze congiunte, sottolineò il fatto che rappresentava un’ampia varietà di gruppi ebraici, “l’intero corpo di opinione religiosa e opinione laica entro il gruppo ebraico, religiosamente parlando, dell’estrema destra e dell’estrema sinistra” (p. 563).172 Rifkind rappresentava una lunga lista di gruppi ebraici nazionali e locali, il Synagogue Council of America [Consiglio delle sinagoghe d’America, N.d.T.], il Jewish Labor Committee [Comitato ebraico del lavoro, N.d.T.], il Jewish War Veterans of the United States [Veterani di guerra ebraici degli Stati Uniti, N.d.T.] e 27 comitati ebraici locali sparsi per gli Stati Uniti, nonché i gruppi nominati sopra. Per di più, la lotta contro il disegno di legge era guidata dai membri ebrei del Congresso, inclusi, in modo particolare, Celler, Javits e Lehman, tutti membri importanti dell’ADL.
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Sebbene in modo indiretto, il deputato Walter stava chiaramente richiamando l’attenzione sul ruolo speciale degli ebrei nel conflitto sull’immigrazione del 1952. Il ruolo speciale dell’AJCongress nell’opporsi alla legge McCarran-Walter era fonte di orgoglio nell’ambito del gruppo: sul punto della vittoria nel 1965, il Congress bi-Weekly [bisettimanale dell’AJCongress, N.d.T.] scrisse nel suo editoriale che era “un motivo di orgoglio” che il rabbino Israel Goldstein, presidente dell’AJCongress, fosse stato “prescelto dal deputato Walter come bersaglio da attaccare nella Camera dei deputati, in quanto principale organizzatore della campagna contro le disposizioni che lui aveva co-sponsorizzato” (1 febbraio 1965, 3).
La percezione che le questioni ebraiche fossero un importante elemento dell’opposizione alla legge McCarran-Walter si evince anche da questo scambio di battute tra i deputati Celler e Walter. Celler osservò: “La teoria delle origini nazionali su cui poggia la nostra legge sull’immigrazione… [mette in ridicolo] le nostre proteste basate su una questione di pari opportunità per tutti i popoli, a prescindere dalla razza, dal colore, o dalla fede.” Replicò il deputato Walter: “una grande minaccia all’America sta nel fatto che tanti professionisti, inclusi i professionisti ebrei, versano lacrime di coccodrillo senza ragione alcuna” (Cong. Rec., 13 gennaio 1953, 372). E in un commento riguardante le peculiarità degli interessi ebraici nella legislazione sull’immigrazione, Richard Arens osservò: “Una delle cose curiose di quanti asseriscono più strenuamente che la legge del 1952 è ‘discriminatoria’ e che non accoglie un numero sufficiente di presunti rifugiati, è che questi si oppongono all’ammissione di qualsiasi parte del milione circa di rifugiati arabi nei campi dove vivono in circostanze penose dopo essere stati cacciati via da Israele” (in Bennett 1963, 181).
La legge McCarran-Walter fu approvata nonostante il veto del presidente Truman, la cui “presunta parzialità nei confronti degli ebrei era un bersaglio caro agli antisemiti” (Cohen 1972, 377). Prima del veto, Truman era soggetto a forti attività di lobbying “particolarmente [da] le organizzazioni ebraiche” contrarie al disegno di legge; le agenzie governative, intanto, incluso il Dipartimento di Stato (nonostante l’argomentazione anti-restrizionista secondo cui il disegno di legge avrebbe avuto effetti catastrofici sulla politica estera statunitense) premevano affinché Truman firmasse il disegno di legge (Divine 1957, 184). Per di più, individui dall’atteggiamento apertamente antisemitico come John Beaty (1951), spesso focalizzavano la loro attenzione sul coinvolgimento ebraico nelle battaglie sull’immigrazione durante questo periodo.
Attività anti-restrizionista ebraiche, 1953-1965
Durante questo periodo il Congress Weekly segnalava ripetutamente il ruolo delle organizzazioni ebraiche come avanguardia delle leggi migratorie liberalizzate: nel suo editoriale del 20 febbraio 1956 (p. 3), per esempio, si congratulò con il presidente Eisenhower per la sua “inequivocabile opposizione al sistema delle quote che, più di qualsiasi altro elemento
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della nostra politica migratoria, ha suscitato la più diffusa e intensa avversione tra gli americani. Nell’avanzare questa proposta per ‘nuove linee guida e standard’ nella determinazione delle ammissioni, il presidente Eisenhower ha preso una posizione coraggiosa persino prima di molti fautori di una politica migratoria liberalizzata e ha abbracciato una posizione che era stata inizialmente rivendicata dall’American Jewish Congress e da altre agenzie ebraiche.”
L’AJCommittee fece uno sforzo considerevole per tenere viva la questione dell’immigrazione durante un periodo di apatia generalizzata del pubblico americano tra l’approvazione della legge McCarran-Walter e i primi anni ’60. Durante questo periodo le organizzazioni ebraiche intensificarono i loro sforzi (Cohen 1972, 370-373; Neuringer 1971, 358), con l’AJCommittee che non solo contribuì alla creazione della Joint Conference on Alien Legislation [Conferenza congiunta sulla legislazione in materia di stranieri, N.d.T.] e dell’American Immigration Conference [Conferenza americana sull’immigrazione, N.d.T.] – entrambe le organizzazioni rappresentavano le forze pro-immigrazione – ma si accollò anche la maggior parte del carico di lavoro e delle spese di questi gruppi. Nel 1955 l’AJCommittee organizzò un gruppo di cittadini influenti nella National Commission on Immigration and Citizenship [Commissione nazionale sull’immigrazione e sulla cittadinanza, N.d.T.] “al fine di dar prestigio alla campagna” (Cohen 1972, 373). “Tutti questi gruppi studiavano le leggi sull’immigrazione, disseminavano informazioni tra il pubblico, presentavano testimonianze al Congresso e progettavano altre attività appropriate… Non ci furono risultati immediati o drammatici; ma la tenace campagna dell’AJC, unitamente ad altre organizzazioni aventi lo stesso orientamento, alla fine spinsero le amministrazioni Kennedy e Johnson ad agire” (Cohen 1972, 373).
Un articolo di Oscar Handlin (1952), importante storico dell’immigrazione di Harvard, è un affascinante microcosmo dell’approccio ebraico all’immigrazione durante questo periodo. Apparso su Commentary (una rivista dell’AJCommittee) circa 30 anni dopo la sconfitta del 1924 e nel periodo immediatamente successivo alla legge McCarran-Walter, Handlin intitolò il suo articolo “La battaglia sull’immigrazione è solo agli inizi: Lezioni dallo scacco del McCarran-Walter.” Il titolo è una straordinaria indicazione della tenacia e della persistenza dell’impegno ebraico nella questione. Il messaggio è di non lasciarsi scoraggiare dalla recente sconfitta, verificatasi nonostante “tutto l’impegno volto a ottenere una revisione delle nostre leggi sull’immigrazione” (p. 2).
Handlin cerca di presentare l’argomento in termini universalisti come vantaggioso per tutti gli americani e conforme agli ideali americani che “tutti gli uomini, essendo fratelli, sono ugualmente capaci di essere americani” (p. 7). L’attuale legge sull’immigrazione riflette una “xenofobia razzista” (p. 2) nelle quote simboliche per gli asiatici e nel negare ai neri delle Indie Occidentali il diritto di avvalersi delle quote del Regno Unito. Handlin attribuisce i sentimenti restrizionisti di Pat McCarran “all’odio verso gli stranieri che lo circonda nella sua gioventù e alla vaga rievocata paura che pure egli figurasse tra loro” (p. 3) – un ragionamento psicoanalitico da identificazione-con-l’aggressore (McCarran era cattolico).
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Nel suo articolo Handlin usa ripetutamente il termine “noi” – per esempio “se noi non possiamo sconfiggere McCarran e la sua schiera con le loro stesse armi, possiamo fare tanto per distruggere l’efficacia di quelle armi” (p. 4) – il che fa pensare che Handlin creda in un interesse ebraico unificato a favore di una politica migratoria liberalizzata e presagisce un protratto “minare” della legislazione del 1952 negli anni successivi. La strategia anti-restrizionista di Handlin includeva anche la trasformazione delle idee degli scienziati sociali, ovvero “che era possibile e necessario distinguere tra le ‘razze’ degli immigrati che chiedevano a gran voce l’ammissione agli Stati Uniti” (p. 4). La proposta di Handlin di reclutare scienziati sociali nelle battaglie sull’immigrazione combacia con l’agenda politica della scuola di antropologia boasiana discussa sopra e nel capitolo 2. Come osserva Higham (1984), l’ascesa di simili idee era un’importante componente della vittoria definitiva sul restrizionismo.
Handlin presentò la seguente interpretazione, altamente tendenziosa, della logica del preservare lo status quo etnico su cui poggiavano gli argomenti a favore del restrizionismo dal 1921 al 1952:
Le leggi sono cattive perché poggiano sulla presunzione razzista che l’umanità sia divisa in razze fisse, separate biologicamente e culturalmente l’una dall’altra, e perché, nell’ambito di questo quadro, esse presumono che gli americani siano anglosassoni di origine e tali dovrebbero rimanere. A tutti gli altri popoli, le leggi dicono che gli Stati Uniti li classificano in base alla loro prossimità razziale alla nostra stirpe ‘superiore’; e ai molti, molti milioni di americani non discesi dagli anglosassoni, le leggi rivolgono una distinta accusa di inferiorità. (p. 5)
Handlin deplora l’apatia di altri “americani con il trattino” nel condividere l’entusiasmo dello sforzo ebraico: “Molti gruppi non riuscivano a capire la rilevanza del disegno di legge McCarran-Walter per le loro posizioni.” Egli suggerisce che questi gruppi
dovrebbero agire come gruppi per rivendicare i loro interessi: “L’italo-americano ha diritto di essere sentito su queste questioni precisamente come italo-americano” (p. 7; corsivo nel testo). La premessa implicita è che gli Stati Uniti dovrebbero essere costituiti da sottogruppi coesi con un chiaro senso dei propri interessi di gruppo in opposizione ai popoli discendenti dall’Europa settentrionale e occidentale o degli Stati Uniti in generale. Per di più, implica che gli italo-americani hanno un interesse nell’incrementare l’immigrazione di africani e di asiatici e nel creare questo tipo di società multirazziale e multiculturale.
Handlin elaborò ulteriormente questa prospettiva in un libro, Race and Nationality in American Life [Razza e nazionalità nella vita americana, N.d.T.], pubblicato nel 1957.173 Questo libro è un compendio di “spiegazioni” psicoanalitiche del conflitto etnico e di classe derivante dalla scuola di
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The Authoritarian Personality unite alla teoria boasiana secondo la quale non esistono differenze biologiche tra le razze che condizionano il comportamento. C’è inoltre un forte elemento della convinzione che gli esseri umani possano essere perfezionati attraverso il cambiamento di istituzioni umane difettose. Handlin caldeggia l’immigrazione da tutte le parti del mondo come un imperativo morale. Nella sua discussione di Israele nel capitolo XII, tuttavia, non c’è alcun suggerimento che Israele debba essere similmente incline a vedere l’immigrazione aperta da tutto il mondo come un imperativo morale o che gli ebrei non dovrebbero essere interessati a mantenere il controllo politico di Israele. La discussione invece si incentra sulla compatibilità morale della duplice lealtà degli ebrei americani verso entrambi gli Stati Uniti e Israele. La cecità morale di Handlin rispetto alle questioni ebraiche si vede anche nel commento di Albert Lindemann (1997, xx) secondo cui il libro di Handlin Three Hundred Years of Jewish Life in America non faceva alcuna menzione dei mercanti e dei proprietari di schiavi ebrei “pur menzionando per nome i ‘grandi mercanti ebrei’ che fecero fortuna nella tratta degli schiavi.”
Poco dopo l’articolo di Handlin, William Petersen (1955), sempre su Commentary, sostenne che le forze pro-immigrazione dovrebbero essere esplicite nella loro propugnazione di una società multiculturale e che l’importanza di questo obiettivo superava l’importanza di raggiungere qualsiasi obiettivo interessato degli Stati Uniti, come per esempio acquisire le competenze professionali necessarie o agevolare le relazioni con l’estero. Nella sua argomentazione, citò un gruppo di scienziati sociali, prevalentemente ebrei, le cui opere, a partire dall’appello di Horace Kallen per una società pluralistica e multiculturale “costituiscono l’inizio di una legittimazione accademica della differente politica migratoria che forse un giorno diventerà legge” (p. 86), inclusi, oltre a Kallen, Melville Herskovits (antropologo boasiano; si veda cap. 2), Geoffrey Gorer, Samuel Lubell, David Riesman (Intellettuale di New York; si veda cap. 6), Thorsten Sellin e Milton Konvitz.
Questi scienziati sociali contribuirono veramente alle battaglie sull’immigrazione. Per esempio, la seguente citazione da un libro accademico sulla politica migratoria di Milton Konvitz della Cornell University (pubblicata dalla Cornell University Press) riflette il rifiuto dell’interesse nazionale come elemento della politica migratoria statunitense – segno caratteristico dell’approccio ebraico all’immigrazione:
Porre così tanta enfasi sulle qualifiche tecniche e professionali significa rimuovere dalla nostra politica migratoria ogni traccia di umanitarismo. Meritiamo poca gratitudine da quanti vengono qui se sono ammessi perché ci occorrono “urgentemente”, per via della loro formazione ed esperienza, per far progredire i nostri interessi nazionali. Questa non si può chiamare immigrazione; è l’importazione delle competenze particolari o del know-how, poco differente dall’importazione del caffè o della gomma.
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Non rientra nello spirito degli ideali americani ignorare il carattere di un uomo e le sue potenzialità e considerare solo la sua formazione e le opportunità professionali di cui egli ha potuto godere grazie alla buona fortuna. (Konvitz 1953, 26)
Altri scienziati sociali di rilievo che rappresentavano il punto di vista anti-restrizionista nei loro scritti erano Richard Hofstadter e Max Lerner. Hofstadter, che molto fece perché i populisti dell’Occidente e del Sud venissero raffigurati come antisemiti irrazionali (si veda capitolo 5), condannava i populisti anche per il loro desiderio di “mantenere un’omogenea civiltà yankee [termine spregiativo per nordista che, nella fattispecie, si riferisce al bianco, anglosassone, N.d.T.]” (Hofstadter 1955, 34). Tracciò inoltre un legame tra il populismo e la questione dell’immigrazione: dal punto di vista di Hofstadter, il populismo era “condizionato in misura notevole dalla reazione a questo flusso migratorio tra gli elementi nativi della popolazione” (Hofstadter 1955, 11). Nel suo acclamato libro America as a Civilization [America come una civiltà, N.d.T.], Max Lerner offre un legame esplicito tra gran parte della tradizione intellettuale trattata nei precedenti capitoli e la questione dell’immigrazione. Lerner ritiene gli Stati Uniti una nazione tribale con “un rifiuto appassionato dello ‘straniero’” (1957, 502), e asserisce che “con l’approvazione delle leggi sulle quote [di immigrazione del 1924] il razzismo in America ha raggiuntola piena maturità” (p. 504). Lerner si lamenta del fatto che queste leggi “razziste” sono ancora vigenti grazie al sentimento popolare, “checché ne pensino gli intellettuali.” Si rammarica evidentemente del fatto che, quando si trattava di politica migratoria, gli americani non
seguivano la guida dell’élite intellettuale urbanizzata prevalentemente ebraica che Lerner rappresentava. Il commento riflette l’elemento antidemocratico e antipopulista dell’attività intellettuale ebraica discusso nei capitoli 5 e 6.
Lerner cita il lavoro di Horace Kallen come modello per un’America multiculturale e pluralistica (p. 93), dicendo, per esempio, che egli (Lerner) approva “l’esistenza, all’interno della comunità americana più ampia, di comunità etniche ciascuna delle quali cerca di mantenere elementi di identità di gruppo e arricchisce così il tessuto culturale complessivo” (p. 506). Di conseguenza, pur riconoscendo che gli ebrei resistevano attivamente all’esogamia (p. 510), Lerner non vede altro che effetti benigni derivanti dall’immigrazione e dalla mescolanza di razze: “Sebbene alcuni storici culturali sostengano che la diluizione del lignaggio nativo sfoci nella decadenza culturale, l’esempio delle città-stato italiane, la Spagna, l’Olanda, la Gran Bretagna, e ora la Russia e l’India nonché l’America indica che la fase più vigorosa può avverarsi all’apice della mescolanza di molti lignaggi. Il più grande pericolo risiede nel chiudere le porte” (p. 82).
Lerner cita con approvazione il lavoro di Franz Boas sulla plasticità delle dimensioni del cranio come paradigma illustrativo della compenetrazione delle influenze ambientali (p. 83), e su questa base egli asserisce che le differenze intellettuali e biologiche tra i gruppi etnici
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sono interamente attribuibili alle differenze ambientali. Pertanto, “La paura dei tassi di nascita più elevati delle minoranze è comprensibile, ma dal momento che questi derivano principalmente dai tenori di vita più bassi, la strategia di tenere bassi i tenori di vita rinchiudendo le minoranze tra le mura di casta sembrerebbe controproducente” (p. 506). E per ultimo, Lerner si avvale di The Authoritarian Personality [La personalità autoritaria, N.d.T.] come strumento di analisi per comprendere il conflitto etnico e l’antisemitismo (p. 509).
Handlin scrisse che la legge McCarran-Walter rappresentava solo uno scacco temporaneo, e aveva ragione. Trenta’anni dopo il trionfo del restrizionismo, soltanto i gruppi ebraici rimanevano come sostenitori persistenti e tenaci di un’America multiculturale. Quarantuno anni dopo il trionfo del restrizionismo del 1924 e la disposizione sulle origini nazionali e soltanto tredici anni dopo la sua conferma con la legge McCarran-Walter del 1952, le organizzazioni ebraiche sostennero con successo l’abbandono del criterio delle origini nazionali ai fini di immigrazione, mirato a mantenere uno status quo etnico in un clima politico e intellettuale ormai radicalmente cambiato.
Particolarmente importante è la disposizione dell’Immigration Act 1965 [Legge sull’immigrazione del 1965, N.d.T.] che aumentò il numero degli immigrati non soggetti a quote. A partire dalla loro testimonianza sulla legge del 1924, i portavoce ebrei erano all’avanguardia nei tentativi di far entrare membri della famiglia non soggetti a quote (Neuringer 1971, 191). Durante i dibattiti alla Camera relativi alla legge McCarran-Walter, il deputato Walter (Cong. Rec., 13 marzo 1952, 2284) fece notare la singolare attenzione incentrata dalle organizzazioni ebraiche sulla riunione familiare anziché sulla capacità lavorativa. Replicando al deputato Javits, il quale si era lamentato del fatto che ai sensi di questo disegno di legge il 50% della quota per i neri delle Indie Occidentali Britanniche sarebbe riservato a persone con competenze speciali, Walter osservò, “Vorrei richiamare l’attenzione di questo signore sul fatto che questo è il principio per l’utilizzo del 50% della quota per le persone di cui gli Stati Uniti hanno bisogno. Tuttavia, se l’intero 50% non viene esaurito in questa categoria, i numeri non utilizzati vengono trasferiti poi alla categoria successiva, il che risponde alle obiezioni sollevate con insistenza dalle organizzazioni ebraiche, ovvero che le famiglie vengono divise.”
Prima della legge del 1965, Bennett (1963, 244), in un commento sugli aspetti del ricongiungimento familiare della legislazione del 1961, osservò che “la consanguineità o la parentela per matrimonio e il principio di ricongiungimento familiare sono diventati ‘l’apriti sesamo’ per le porte dell’immigrazione.” Per di più, nonostante le ripetute smentite degli anti-restrizionisti sul fatto che le loro proposte avrebbero inciso sull’equilibrio etnico del paese, Bennett (1963, 256) commentò che “la ripetuta e persistente estensione dello status non-quota agli immigrati dei paesi con quote esaurite e soggetti a esplicita discriminazione [dalla legge McCarran-Walter], insieme alle esenzioni amministrative di inammissibilità, alla modifica di status e alle proposte di legge a iniziativa privata, contribuiscono a velocizzare e a rendere evidentemente inevitabile un cambiamento
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della composizione etnica della nazione” (p. 257) – un accenno al “minare” della legge del 1952 suggerito come strategia nell’articolo di Handlin. Infatti, un’importante argomentazione nel dibattito sulla legislazione del 1965 era che la legge del 1952 fosse stata talmente indebolita da essere diventata praticamente irrilevante e che fosse necessario rivedere la legislazione migratoria al fine di legittimare una situazione de facto.
Bennett inoltre fece notare che “l’enfasi sulla questione dell’immigrazione nasce dall’insistenza di coloro che considerano le quote come limiti massimi, non minimi [gli oppositori al restrizionismo spesso descrivevano le quote non esaurite come “sprecate” perché avrebbero potuto essere allocate ai non europei], i quali vogliono ricreare l’America a immagine dei paesi dalle quote minime e ai quali non piacciono la nostra ideologia fondamentale, le nostre attitudini e il nostro bagaglio culturale.
Insistono che gli Stati Uniti hanno il dovere di accettare gli immigrati a prescindere dalla loro assimilabilità o dai nostri problemi di popolazione. Insistono a rimanere americani con il trattino” (1963, 295).
L’enfasi posta sulla famiglia dalle norme sulle quote della legge del 1965 (ovvero la disposizione secondo cui almeno il 24% della quota per ogni zona debba essere riservato ai fratelli e alle sorelle dei cittadini) diede luogo a un effetto moltiplicatore che finì per sovvertire completamente il sistema delle quote attraverso un fenomeno di “concatenamento” in cui infinite catene di parenti stretti dei parenti stretti vengono ammessi al di fuori del sistema delle quote:
Immaginiamo un immigrato, per esempio uno studente di ingegneria, che stava studiando negli Stati Uniti negli anni ’60. Se avesse trovato un lavoro dopo la laurea, avrebbe potuto portare qui la moglie [in quanto sposa di un residente straniero] e poi, dopo sei anni, una volta naturalizzato, i fratelli e le sorelle [in quanto fratelli di un cittadino]. Questi, a loro volta, avrebbero potuto far arrivare i propri coniugi e figli. Nel giro di una dozzina d’anni, un immigrato arrivato in qualità di lavoratore qualificato poteva facilmente generare 25 visti per parenti acquisiti e nipoti. (McConnell 1988b, 98)
La legge del 1965 indebolì inoltre il criterio secondo il quale gli immigrati dovevano essere in possesso delle competenze richieste. (Nel 1986 meno del 4% degli immigrati fu ammesso in base alle competenze richieste, mentre il 74% fu ammesso in base alla parentela [si veda Brimelow 1995].) Come indicato sopra, il rifiuto del requisito di capacità lavorative o di altre misure di competenza per privilegiare gli “obiettivi umanitari” e il ricongiungimento familiare era già stato un elemento della politica migratoria ebraica almeno dal tempo del dibattito sulla legge McCarran-Walter dei primi anni ’50 e, in realtà, risaliva alla lunga opposizione ai test di alfabetizzazione alla fine dell’Ottocento.
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Il senatore Jacob Javits rivestì un ruolo di rilievo nelle udienze senatoriali sul disegno di legge del 1965, e Emanuel Celler, il quale si era battuto per l’immigrazione senza limiti per oltre 40 anni alla Camera dei deputati, introdusse un’analoga legislazione in quest’ultima sede. Varie organizzazioni ebraiche (American Council for Judaism Philanthropic Fund [Fondo filantropico del consiglio americano per il giudaismo, N.d.T.], Council of Jewish Federations & Welfare Funds [Consiglio delle federazioni ebraiche e dei fondi di assistenza, N.d.T.] e B’nai B’rith Women [Donne B’nai B’rith, N.d.T.]) presentarono petizioni a favore del provvedimento presso la sottocommissione del Senato, così come fecero l’ACLU e gli Americans for Democratic Action [Americani per l’azione democratica, N.d.T.], organizzazioni che vantavano una forte presenza ebraica tra i soci (Goldberg 1996, 46).
Infatti, va notato che ben prima del trionfo definitivo della politica migratoria ebraica, Javits aveva scritto un articolo intitolato “Let Us Open the Gates” [Apriamo le porte, N.d.T.], in cui proponeva un livello di immigrazione di 500 000 persone all’anno per 20 anni senza restrizioni sulle origini nazionali. Nel 1961 Javits propose un disegno di legge che “mirava a distruggere il [sistema delle quote basate sulle origini nazionali] mediante un attacco di fianco e ad accrescere l’immigrazione con e senza quote” (Bennett 1963, 250). Oltre alle disposizioni mirate ad abbattere le barriere di razza, etnicità e origini nazionali, questo disegno di legge prevedeva inoltre che i fratelli, le sorelle, e i figli dei cittadini statunitensi nonché i loro coniugi e figli divenuti ammissibili ai sensi del sistema delle quote nella legislazione del 1957, venissero considerati come immigrati non-quota – una versione ancora più radicale della disposizione la cui inclusione nella legge del 1965 facilitò l’immigrazione non europea negli Stati Uniti. Sebbene questa disposizione del disegno di legge di Javits non fosse stata approvata al tempo, le proposte del disegno di legge volte ad allentare le precedenti restrizioni sull’immigrazione di asiatici e di neri nonché la rimozione delle classifiche razziali dai documenti di visto (permettendo così l’illimitata immigrazione non-quota di asiatici e di neri nati nell’emisfero occidentale) vennero approvate.
È interessante, inoltre, che la maggiore vittoria dei restrizionisti nel 1965 consistesse nell’inclusione delle nazioni dell’emisfero occidentale nel nuovo sistema delle quote, ponendo pertanto fine alla possibilità di immigrazione illimitata da queste regioni. Nell’ambito di discorsi pronunciati davanti al Senato, il senatore Javits contestava aspramente questo ampliamento del sistema delle quote, sostenendo che l’imposizione di limiti sull’immigrazione di tutti gli abitanti dell’emisfero occidentale avrebbe avuto ripercussioni molto gravi sulla politica estera statunitense. Al Senato, in una discussione molto illuminante sul disegno di legge, il senatore Sam Ervin (Cong. Rec. 89° Cong. 1° seduta, 1965, 24446-51) fece notare che “coloro che sono in disaccordo con me non esprimono sgomento per il fatto che la Gran Bretagna, in futuro, ci potrà mandare 10 000 immigrati in meno rispetto alla precedente media annuale. Sono sconvolti soltanto dal fatto che la Guyana britannica non ci può mandare ogni singolo cittadino di quel paese che desideri venire.” Evidentemente le forze a favore dell’immigrazione liberalizzata desideravano in realtà l’immigrazione illimitata negli Stati Uniti.
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I sostenitori dell’immigrazione nel 1965 inoltre non riuscirono a bloccare un requisito secondo il quale il segretario del lavoro doveva attestare che non c’era un numero sufficiente di americani capaci e disposti a svolgere il lavoro che gli stranieri intendono svolgere e che l’assunzione di questi stranieri non incideva negativamente sugli stipendi e sulle condizioni lavorative dei lavoratori americani. In una pubblicazione su l’American Jewish Year Book, Liskofsky (1966, 174) fece notare che i gruppi a favore dell’immigrazione erano contrari a queste norme ma le accettarono al fine di ottenere un disegno di legge che ponesse fine alle disposizioni sulle origini nazionali. Dopo l’approvazione, “diventarono intensamente ansiosi. Espressero pubblicamente il timore che la nuova procedura, burocraticamente complicata, avrebbe facilmente potuto paralizzare la maggior parte dell’immigrazione dei lavoratori qualificati e non qualificati, nonché degli immigrati non preferenziali.” Rispecchiando la lunga opposizione ebraica all’idea che la politica migratoria dovesse essere nell’interesse nazionale, il benessere economico dei cittadini americani era considerato irrilevante; raggiungere alti livelli di immigrazione era diventato un fine in sé.
La legge del 1965 ha avuto l’effetto che presumibilmente era stato inteso dai suoi sostenitori fin dal principio: l’Ufficio del Censimento prevede che entro il 2050, i popoli di origine europea non costituiranno più la maggioranza della popolazione degli Stati Uniti. Inoltre, il multiculturalismo è già diventato una potente realtà ideologica e politica. Sebbene i sostenitori della legislazione del 1965 insistessero ripetutamente che il disegno di legge non avrebbe inciso sull’equilibrio etnico degli Stati Uniti e tantomeno sulla cultura, è difficile credere che almeno alcuni dei suoi sostenitori non si rendessero conto delle implicazioni future. I suoi oppositori, senza dubbio, credevano che la legislazione avrebbe veramente cambiato l’equilibrio etnico degli Stati Uniti. Dato il loro intenso coinvolgimento nei minimi particolari della legislazione sull’immigrazione, i loro sentimenti molto negativi in merito alla parzialità a favore dell’Europea nord-occidentale della politica migratoria prima del 1965, e il loro atteggiamento molto negativo verso l’idea di uno status quo etnico – espresso per esempio nel documento della PCIN Whom We Shall Welcome – sembra improbabile supporre che organizzazioni come l’AJCommittee e l’AJCongress fossero ignare dell’inesattezza delle previsioni fatte dai suoi sostenitori in merito alle ripercussioni di questa legislazione. Alla luce degli interessi chiaramente articolati a favore di un cambiamento dello status quo evidenti nelle argomentazioni degli anti-restrizionisti dal 1924 al 1965, la legge del 1965 non sarebbe stata percepita come una vittoria dai suoi fautori se non l’avessero intesa essenzialmente come una modifica allo status quo etnico. Come notato, immediatamente dopo l’approvazione della legge, i sostenitori dell’immigrazione erano ansiosi di mitigare gli effetti restrittivi delle procedure amministrative sul numero di immigrati. Significativamente, gli anti-restrizionisti consideravano la legge del 1965 una vittoria. Dopo aver ripetutamente condannato la legge migratoria degli Stati Uniti e aver appoggiato l’abolizione della formula delle origini nazionali precisamente perché aveva mantenuto
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lo status quo etnico, il Congress bi-Weekly smise di pubblicare articoli su questo argomento. Inoltre, Lawrence Auster (1990, 31 ss.) fa notare che i sostenitori di questa legislazione sorvolarono ripetutamente sulla distinzione tra l’immigrazione con e senza quota ed evitarono di accennare l’effetto della legislazione sull’immigrazione non-quota. Le proiezioni del numero di nuovi immigrati non tennero conto del fatto, risaputo e spesso sollevato, che le vecchie quote che privilegiavano i paesi dell’Europa occidentale non venivano esaurite. Portando avanti una tradizione di oltre 40 anni, la retorica pro-immigrazione presentava le leggi del 1924 e 1952 come basate su teorie di supremazia razziale e comportanti la discriminazione razziale invece che in termini di un tentativo di creare uno status quo etnico.
Già nel 1952 il senatore McCarran era consapevole della posta in gioco nell’ambito della politica migratoria. In una dichiarazione che ricorda quella sopracitata del deputato William N. Vaile durante i dibattiti degli anni ’20, McCarran affermò:
Io credo che questa nazione sia l’ultima speranza della civiltà occidentale e se questa oasi del mondo verrà travolta, corrotta, contaminata, o distrutta, allora si spegnerà l’ultima tremula fiammella dell’umanità. Non ce l’ho con coloro che loderebbero i contributi apportati alla nostra società da persone di tante razze, di vari culti e colori. L’America è davvero una confluenza di tanti piccoli ruscelli che vanno a formare un grosso fiume che noi chiamiamo lo stile di vita americano. Tuttavia, oggi abbiamo negli Stati Uniti dei blocchi duri e indigesti che non si sono integrati nello stile di vita americano, ma che sono anzi i suoi acerrimi nemici. Oggi, come mai prima, incalcolabili milioni si accalcano alle nostre porte per entrare e queste porte si incrinano sotto il loro peso. La soluzione dei problemi dell’Europa e dell’Asia non arriverà con il trapianto di questi problemi in toto negli Stati Uniti… Non ho intenzione di diventare profetico, ma se i nemici di questa legislazione riusciranno a farla a pezzi, o a modificarla tanto da renderla irriconoscibile, contribuiranno a promuovere il crollo di questa nazione più di qualsiasi altro gruppo dall’ottenimento della nostra indipendenza come nazione. (senatore Pat McCarran, Cong. Rec., 2 marzo 1953, 1518)
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APPENDICE: GLI SFORZI PRO-IMMIGRAZIONE EBRAICI IN ALTRI PAESI OCCIDENTALI
L’obiettivo di quest’appendice è quello di dimostrare che le organizzazioni ebraiche hanno perseguito analoghe politiche relative all’immigrazione in altre società occidentali. In Francia, la comunità ebraica ufficiale è sempre stata a favore dell’immigrazione di non europei. Di recente la comunità ebraica francese ha reagito con veemenza ai commenti dell’attrice Brigitte Bardot secondo la quale “il mio paese, la Francia, è stato di nuovo invaso da una popolazione straniera, ovvero i musulmani” (Forward, 3 maggio 1996, 4). Chaim Musiquant, direttore esecutivo della CRIF, organizzazione ombrello della comunità ebraica francese, dichiarò che i commenti della Bardot “rasentavano il razzismo.”
Gli atteggiamenti ebraici verso il sentimento anti-immigrati in Germania sono evidenziati dal seguente incidente. Un aspetto comune (presumibilmente autoingannevole) dell’autoconcettualizzazione ebraica contemporanea vuole che Israele sia una società culturalmente ed etnicamente diversa, come conseguenza dell’immigrazione su larga scala di ebrei da varie parti del mondo (p. es. Peretz 1997, 8; Australia/Israel Review [numero 22.5, 11-24 aprile, 1997]), tanto che dovrebbe servire da modello per le relazioni etniche e gli atteggiamenti pro-immigrati nel resto del mondo. Recentemente la B’nai B’rith, in risposta a quanto vedeva come indicazioni di un riemergere del neonazismo e del sentimento anti-immigrati in Germania, ha ricevuto un sussidio dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’istruzione, la scienza e la cultura per portare dei rappresentanti tedeschi in Israele, perché Israele è “una società diversa e formativa che, afflitta dalla guerra, dal terrorismo e dall’immigrazione di poveri su scala massiccia, si è impegnata per creare una società equa, democratica e tollerante” (“Toleration and Pluralism: A Comparative Study”; UNESCO Evaluation Report Request no. 9926). “La nostra opinione era che Israele, società multiculturale, multietnica, multireligiosa, e pluri-divisa… potesse fornire un metro di paragone credibile e utile per altri che provengono da una società piena di tensioni.”
In Inghilterra, così come negli Stati Uniti, una battaglia etnica iniziò intorno al 1900 in risposta all’influsso di ebrei dell’Europa orientale in fuga dall’antisemitismo zarista. L’attività politica ebraica fu fondamentale nella sconfitta di un disegno di legge sulla restrizione dell’immigrazione presentato dal governo conservatore nel 1904. Nella fattispecie, l’establishment anglo-ebraico, rappresentato dal Board of Deputies of British Jews [Consiglio dei deputati degli ebrei britannici, N.d.T.] abbracciò una posizione moderata, presumibilmente per paura che un aumento dell’immigrazione di ebrei dell’Europa orientale avrebbe alimentato le fiamme dell’antisemitismo. Tuttavia, a quel punto la maggior parte della comunità ebraica era costituita da nuovi immigrati, e il Jewish Chronicle [Cronaca ebraica, N.d.T.], principale giornale
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della comunità ebraica britannica, proseguì vigorosamente una campagna contro il disegno di legge (Cesarani 1994, 98). Le forze anti-restrizioniste ebbero la meglio quando Nathan Laski, presidente della Manchester Old Hebrew Congregation [Antica congregazione ebraica di Manchester, N.d.T.], convinse Winston Churchill a opporsi al disegno di legge. “Churchill più tardi ammise liberamente, in sede del Grand Committee of the House of Commons [Grande comitato della Camera dei comuni, N.d.T.], di aver ‘fatto naufragare il disegno di legge.’ A detta di Evans-Gordon [parlamentare conservatore restrizionista], i Liberali, guidati da Churchill, ‘inzupparono [il disegno di legge] di parole finché non si giunse al termine previsto.’… Un Laski giubilante scrisse a Churchill: ‘Ho più di 20 anni di esperienza nelle elezioni a Manchester – e senza lusinghe Le dico candidamente – non c’è stato un solo uomo capace di suscitare interesse quanto ha fatto Lei – sono pertanto convinto del Suo futuro successo’” (Alderman 1983, 71). Nel mese seguente Churchill fu eletto al seggio di Manchester, un distretto con un sostanzioso elettorato ebraico.
Alderman (p.72) dimostra che la legislazione restrizionista era popolare, eccetto tra i nuovi immigrati che erano rapidamente diventati una maggioranza numerica della comunità ebraica e, come indicato sopra, erano già in grado di condizionare in modo decisivo la legislazione migratoria. Tuttavia, un disegno di legge più moderato fu approvato nel 1905 malgrado l’opposizione ebraica. In questa occasione la pressione ebraica riuscì a ottenere esenzioni per le vittime di “azioni penali” per motivi religiosi o politici, ma non per “persecuzione” (p. 74). Di nuovo il Consiglio dei deputati degli ebrei britannici non si sforzò più di tanto per osteggiare la legislazione, e i parlamentari ebraici non vi si opposero. Tuttavia, per i nuovi immigrati, molti dei quali iscritti illegalmente nelle liste elettorali, si trattava di una questione importante e, alle elezioni generali del gennaio 1906, questi elettori punirono duramente i politici che avevano contribuito all’approvazione dell’Aliens’ Immigration Act” [Legge sull’immigrazione di stranieri, N.d.T.] (p. 74). Gli ebrei sostennero a gran maggioranza i candidati che si erano opposti alla legislazione, e in almeno due distretti i loro voti furono decisivi, incluso il distretto di West Manchester in cui fu eletto Churchill. Il nuovo governo liberale non abrogò la legislazione, ma la applicò meno rigorosamente. Dato che la legge era rivolta contro gli “indesiderabili”, sussistono forti dubbi che abbia impedito l’arrivo di un numero significativo di ebrei, sebbene abbia probabilmente incoraggiato molti ebrei a trasferirsi negli Stati Uniti anziché in Inghilterra. Va notato che nel 1908 Churchill
perse un’elezione nel suo distretto di Manchester quando ci furono delle defezioni tra i suoi sostenitori ebrei, scontenti della sua opposizione all’abrogazione della legge in quanto potenziale membro del gabinetto e attratti dalla posizione dei conservatori sul sostegno delle scuole religiose. Cionondimeno, Churchill rimase un devoto sostenitore degli interessi ebraici fino a quando “nel luglio 1910 Churchill, non più dipendente dai voti ebraici, parlò in termini entusiastici della legislazione del 1905.”
Così come negli Stati Uniti, si ha motivo di ritenere che l’appoggio ebraico all’immigrazione si estendesse oltre la promozione dell’immigrazione degli ebrei in Inghilterra.
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Il più importante giornale ebraico in Inghilterra, il Jewish Chronicle, contestò la restrizione sull’immigrazione nel Commonwealth in un editoriale dell’edizione del 20 ottobre 1961 (p. 20). L’editoriale fece notare che gli ebrei percepivano la legislazione del 1905 come rivolta contro di loro e affermò: “tutte le restrizioni sull’immigrazione sono in linea di massima passi retrogradi, specialmente per questo paese, e una delusione per quanti in tutto il mondo vorrebbero vedere ridotte e non accresciute le limitazioni sulla libertà di movimento. È una questione di principio morale.”
Durante gli anni ’70 il partito conservatore si oppose all’immigrazione in Gran Bretagna perché, a detta di Margaret Thatcher, la Gran Bretagna era a rischio di ritrovarsi “inondata” da persone che non possedevano “le fondamentali caratteristiche britanniche” (Alderman 1983, 148). I politici conservatori cercavano il supporto ebraico su questa questione, ma la politica anti-immigratoria era condannata dalle ufficiali organizzazioni ebraiche, incluso il Consiglio dei deputati degli ebrei britannici, sul presupposto che “Dal momento che tutti gli ebrei britannici sono immigrati o discendenti di immigrati, era contrario all’etica, se non immorale, che un ebreo appoggiasse il controllo dell’immigrazione, o quantomeno un controllo più restrittivo dell’immigrazione” (Alderman 1983, 148-149). (Nel suo editoriale del 24 febbraio 1978 [p. 22] il Jewish Chronicle appoggiò una politica migratoria non-restrizionista, ma evitò attentamente di inquadrare la questione come ebraica, presumibilmente perché un parlamentare conservatore ebraico, Keith Joseph, si era rivolto agli ebrei come ebrei affinché sostenessero la restrizione. Il Chronicle era estremamente ansioso di negare l’esistenza di un voto ebraico.) Gli ebrei che appoggiavano la politica del governo lo facevano per paura che un aumento dell’immigrazione potesse provocare una reazione fascista e alimentare pertanto l’antisemitismo.
Nel caso del Canada, Abella (1990, 234-235) segnala l’importante contributo degli ebrei nel creare un Canada multiculturale e, in particolare, nello svolgere attività di lobbying a favore di politiche migratorie più liberali. Rispecchiando questo atteggiamento, Arthur Roebuck, il procuratore generale dell’Ontario, fu accolto da “applausi scroscianti” a un convegno della Zionist Organization of Canada [Organizzazione sionista del Canada, N.d.T.] quando dichiarò di pensare “a un tempo futuro quando potremo spalancare le porte, eliminare le restrizioni e rendere il Canada una mecca per tutti i popoli oppressi del mondo” (in M. Brown 1987, 256). Nella prima parte del secolo ci furono conflitti sull’immigrazione tra ebrei e gentili completamente analoghi alla situazione in Inghilterra e negli Stati Uniti, compresa la motivazione antisemitica di molti che tentavano di limitare l’immigrazione (Abella & Troper 1981, 52-55; M. Brown 1987, 239). Come negli Stati Uniti, gli ebrei si opposero strenuamente ai movimenti maggioritari, etnocentrici e nazionalisti quali il Parti Québécois, pur rimanendo forti sostenitori del sionismo (M. Brown 1987, 260 ss.). Infatti, nel referendum del 1995 sul separatismo del Quebec,
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Jacques Parizeau, leader dei separatisti, addossò la colpa della loro sconfitta al sostegno preponderante degli ebrei e di altre minoranze a favore del mantenimento dei legami con il Canada. È rimarchevole che l’inversione di rotta nella politica migratoria del mondo occidentale si verificò pressappoco nello stesso periodo (1962-1973), e in tutti i paesi i cambiamenti riflettevano gli atteggiamenti dell’élite anziché della grande maggioranza dei cittadini. Negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Canada, e in Australia, i sondaggi di opinione pubblica dei popoli di discendenza europea hanno ripetutamente dimostrato un netto rifiuto dell’immigrazione dei popoli di discendenza non europea (Betts 1988; Brimelow 1995; Hawkins 1989; Layton-Henry 1992). Un tema ricorrente è che la politica migratoria è stata formulata da un’élite che dispone del controllo dei media e che i leader di tutti i maggiori partiti politici si sono impegnati affinché la questione dell’immigrazione restasse fuori dalla discussione politica (p. es., Betts 1988; Layton-Henry 1992, 82).
In Canada la decisione di abbandonare la politica del “Canada bianco” venne da funzionari governativi, non dai politici eletti. La politica del Canada bianco fu effettivamente stroncata dalla normativa annunciata nel 1962, e Hawkins commenta: “Questo importante cambiamento politico è stato apportato non in base alla domanda popolare o parlamentare, ma perché alcuni funzionari di alto grado, incluso il dottor [George] Davidson [Vice ministro della cittadinanza e dell’immigrazione e successivamente un importante amministratore presso le Nazioni Unite] ha intuito correttamente che il Canada non potrebbe funzionare con efficacia all’interno delle Nazioni Unite, o nel Commonwealth multirazziale, portando addosso il fardello di una politica migratoria discriminatoria.” Né in Australia, né in Canada era mai esistito un sentimento popolare teso a porre fine alla precedente parzialità europea della politica migratoria.
La principale e identica motivazione dei politici canadesi e australiani nel tentativo di escludere in primo luogo i cinesi, poi altri immigrati asiatici e infine tutti i potenziali immigrati non bianchi, era il desiderio di creare e preservare nelle loro terre distanti e arduamente conquistate delle società e dei sistemi politici molto simili a quelli del Regno Unito. Desideravano inoltre stabilirvi il ruolo di primordine dei suoi popoli fondatori di origine europea… L’incontestato possesso di questi territori di dimensioni continentali era considerato confermato per sempre, non solo dal fatto del possesso, ma dagli stenti e i pericoli sofferti dai primi esploratori e coloni; gli anni di lavoro massacrante per gettare le fondamenta della vita urbana e rurale… L’idea che altri popoli, i quali non avevano preso parte a queste attività da pioniere, potessero semplicemente arrivare in gran numero per sfruttare importanti risorse locali,
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o per approfittare di questi precedenti sforzi dei coloni era un anatema. (Hawkins 1989, 23)
Viste le origini elitarie delle politiche di immigrazione non europea che emersero durante questo periodo malgrado l’opposizione popolare in tutto l’Occidente, la scarsa pubblicità data a certi avvenimenti critici risulta particolarmente interessante. In Canada, il Report of the Special Joint Committee [Relazione del comitato speciale congiunto, N.d.T.] del 1975 fu un evento determinante nella formazione della politica di immigrazione non europea della legge sull’immigrazione del 1978, ma “triste a dirsi, dal momento che la stampa mancò di commentare sulla relazione e i media digitali erano rimasti disinteressati, il pubblico canadese venne a saperne ben poco” (Hawkins 1989, 59-60).
Ripensando a questo dibattito nazionale sull’immigrazione e sulla popolazione, che durò al massimo sei mesi, si può ora constatare che è stata una consultazione molto efficace, mai ripetuta, con il mondo dell’immigrazione, e con quelle istituzioni e organizzazioni canadesi per cui l’immigrazione è una questione importante. Non ha raggiunto “il canadese medio” per una semplice ragione: il Ministro e il gabinetto non confidavano che il canadese medio avrebbe risposto positivamente sulla questione, e ritenevano che ciò avrebbe creato troppi problemi per valerne la pena. Alla luce di tale opinione, non vollero assegnare i fondi per organizzare un’ampia partecipazione pubblica, e non fecero che un minimo tentativo di mobilitare i media per aprire una genuina discussione nazionale. Il maggior vantaggio di questo approccio fu che il nuovo Immigration Act [Legge sull’immigrazione, N.d.T.] di cui c’era tanto bisogno fu inserito nel libro degli statuti solo con un lieve ritardo rispetto a quanto inizialmente previsto da [Robert] Andras [Ministro del lavoro e dell’immigrazione] e dai suoi colleghi [Hawkins indica il viceministro di Andras, Allan Gotlieb, come secondo più importante promotore di questa legislazione]. La perdita maggiore fu quanto, a detta di alcuni, sarebbe stata un’occasione d’oro per riunire un gran numero di individui canadesi per discutere il futuro del loro vasto territorio sottopopolato. (Hawkins 1989, 63)
Solo dopo l’entrata in vigore della legge del 1978 il governo intraprese una campagna di sensibilizzazione al fine di informare i canadesi sulla nuova politica migratoria (Hawkins 1989, 79). Hawkins (1989) e Betts (1988) fanno analoghe osservazioni sui cambiamenti della politica migratoria australiana. In Australia l’impeto per modificare la politica migratoria venne da piccoli gruppi di riformatori che cominciavano ad apparire in alcune università australiane negli anni ’60 (Hawkins 1989, 22).
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Betts (1988, 99 ss.) in particolare sottolinea l’idea che l’élite intellettuale, accademica e dei media “formata nelle scienze umanistiche e sociali” (p. 100) sviluppò una sensazione di far parte di un in-group superiore che lottava contro un out-group di australiani non intellettuali e campanilisti. Così come negli Stati Uniti, esiste la percezione tra gli ebrei che una società multiculturale serva da baluardo contro l’antisemitismo: Miriam Faine, membro del comitato editoriale dell’Australian Jewish Democrat, dichiarò che “Il rafforzamento dell’Australia multiculturale o variegata costituisce anche la nostra più efficace polizza di assicurazione contro l’antisemitismo. Il giorno in cui l’Australia avrà un governatore generale cinese io mi sentirò più sicura della mia libertà di vivere come un’australiana ebrea” (in McCormack 1994, 11).
Come negli Stati Uniti, il ricongiungimento familiare diventò una colonna portante della politica migratoria in Canada e in Australia e diede luogo al fenomeno di “concatenamento” descritto sopra. Hawkins dimostra che in Canada, il ricongiungimento familiare era la politica di quei membri parlamentari liberali che desideravano accrescere i livelli di immigrazione dal Terzo Mondo (p. 87). In Australia, il ricongiungimento familiare diventò sempre più importante durante gli anni ’80, epoca in cui lo sviluppo australiano come criterio della politica migratoria subì un ridimensionamento (p. 150). Riflettendo queste tendenze, l’Executive Council of Australian Jewry [Consiglio esecutivo della comunità ebraica australiana, N.d.T.] approvò una risoluzione alla riunione dell’1 dicembre 1996 per esprimere “il suo sostegno alla tesi secondo la quale gli interessi a lungo termine dell’Australia sono meglio serviti da una politica migratoria non discriminatoria, che abbia un atteggiamento benevolo verso i rifugiati e il ricongiungimento familiare e che dia priorità alle considerazioni umanitarie.” La principale pubblicazione ebraica, l’Australian/Israel Review, ha sempre perorato la causa di alti livelli di immigrazione di tutti i gruppi razziali ed etnici nei suoi editoriali. Ha pubblicato caratterizzazioni poco lusinghiere dei restrizionisti (p. es. Kapel 1997)
e, in un tentativo di punire e intimidire, ha pubblicato una lista di 2 000 persone vincolate al partito One Nation di Pauline Hanson (“Gotcha! One Nation’s Secret Membership List” [Beccati! La lista segreta dei soci di One Nation, N.d.T.]; 8 luglio 1998).
Sembra legittimo concludere che le organizzazioni ebraiche hanno sostenuto in maniera uniforme alti livelli di immigrazione di tutti i gruppi razziali ed etnici nelle società occidentali e hanno altresì promosso un modello multiculturale per queste società.
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