INDIVIDUALISMO E TRADIZIONE PROGRESSISTA OCCIDENTALE: APPENDICE AL CAPITOLO 2: LA CULTURA ROMANA: MILITARIZZAZIONE, GOVERNO ARISTOCRATICO E APERTURA VERSO I POPOLI CONQUISTATI

INDIVIDUALISMO E
TRADIZIONE PROGRESISTA OCCIDENTALE.
Origini evolutive, storia e prospettive future.
traduzione italiana di Marco Marchetti

APPENDICE AL CAPITOLO 2:

LA CULTURA ROMANA: MILITARIZZAZIONE, GOVERNO ARISTOCRATICO E APERTURA

VERSO I POPOLI CONQUISTATI.

Questa appendice intende mostrare come l’ethos IE si sia esemplificato nella Roma repubblicana. La mia idea generale è che le forze che maggiormente influenzarono la cultura europea post-romana furono di gran lunga rappresentate dai popoli germanici e dalla cultura dei CR dell’Europa nordoccidentale, entrambe influenzate a loro volta dalle conquiste degli IE (cfr. cap. 3 e 4) e che l’influenza romana sulla cultura europea fu, in ultima analisi, assai ridotta e trasmessa attraverso la lente del cristianesimo, nato durante l’Impero Romano ed istituzionalizzato come religione di stato romana al principio del IV secolo (cfr. cap. 5). All’epoca della caduta dell’Impero d’Occidente l’ethos IE che aveva alimentato l’ascesa di Roma era scomparso, sostituito da una cultura che attribuiva valore al celibato, alla castità e al martirio e credeva che tutti gli uomini fossero uguali davanti a Dio.

Inoltre, a partire dall’ultimo periodo della repubblica e durante l’impero, la popolazione originaria di Roma fu ampiamente sostituit, a causa del declino del ceppo fondatore e dell’afflusso di popoli stranieri risultante dalla politica di assimilazione e dall’elevata percentuale di schiavi che furono in gran parte resi liberi. L’Impero d’Occidente cadde in potere dei popoli germanici che succedettero a Roma nell’Alto Medioevo; queste tribù germaniche avevano conservato una variante del retaggio culturale IE in misura assai maggiore di quanto avesse potuto fare Roma dopo l’ascesa del cristianesimo.

Quanto segue si basa soprattutto sulla mia recensione di Una storia critica della prima Roma, di Gary

Forsythe1. Essa non lascia dubbi sul fatto che la Repubblica Romana avesse avuto inizio come una cultura

IE unica e affascinante, che tuttavia, come probabilmente l’Occidente contemporaneo, recava in sé i semi della propria distruzione.

 

Gary Forsythe ha scritto una classica storia della prima Roma repubblicana, il cui aspetto critico sta nell’aver messo in dubbio gran parte delle conoscenze tradizionali concernenti tale storia. Il quadro risultante, dopo che Forsythe ha rimosso quelli che egli considera gli aspetti discutibili della documentazione storica, ci fornisce un pregevolissimo ritratto di un’importante variante storica dell’eredità IE: una repubblica fortemente militarizzata con un governo aristocratico non dispotico. Durante questo periodo (509-264 a. C.) la società romana consentiva una mobilità ascendente ed era disponibile ad incorporare i popoli recentemente conquistati nel proprio sistema, con pieni diritti di cittadinanza. Questa apertura si mantenne nel corso della tarda repubblica e dell’impero.

 

 

 

 

Le radici indoeuropee della civiltà romana: l’ethos militare della Roma repubblicana.

 

Sostanzialmente, le città-stato mediterranee fondate dalle popolazioni IE non erano che versioni più stabili dell’organizzazione sociale elementare IE basata sui Männerbünde. Forsythe descrive «bande guerriere» dedite alla razzia e a combattere con i vicini come un elemento comune al mondo dei greci, dei romani, dei celti e dei germani2. Il comando si fondava sull’abilità militare e i seguaci giuravano di combattere fino alla morte. Al principio della repubblica romana i clan aristocratici potrebbero benissimo essere stati dei classici Männerbünde: la “visione corrente”, riguardo alla quale Forsythe si mostra scettico per via della debolezza della documentazione, è che la battaglia di Cremera del 478 a. C. (una grave sconfitta dei romani per mano degli abitanti di Veio, una città etrusca, che ebbe luogoo trent’anni dopo la fondazione della repubblica) fosse stata sostanzialmente intrapresa da un clan aristocratico (i Fabi, che a quel tempo detenevano il consolato) prima che lo stato acquisisse il pieno controllo dell’organizzazione militare3. In altri termini, nei primissimi anni della repubblica questi clan agivano con una certa indipendenza rispetto allo stato romano. La tipica relazione patrono-cliente rifletteva presumibilmente l’organizzazione dei Männerbünde, nella quale persone meno abbienti si legavano con obblighi reciproci a individui ricchi e potenti. Questa è probabilmente una sopravvivenza della cultura IE, nella quale i condottieri militari e i loro seguaci avevano obblighi reciproci. Forsythe nota come questo mitigasse le disparità sociali ed economiche4. Esistevano più livelli, così che un certo individuo poteva essere il patrono di persone più povere e al contempo il cliente di qualcuno più ricco e più potente di lui: «la tarda società romana era in generale tenuta insieme da una vasta e complessa rete di simili relazioni»5. Riflettendo la natura non dispotica della società romana (cfr. oltre) i patroni potevano essere “maledetti” a motivo di un’ingiustizia nei confronti dei clienti e quindi uccisi od ostracizzati.

Un tratto caratteristico della cultura IE è il fatto che la gloria militare fosse apprezzata più di ogni altra cosa. Forsythe osserva come, intorno al 311 a. C., «Roma fosse uno stato giovane e vigoroso guidato da aristocratici ambiziosi ed energici, bramosi di sfruttare la forza crescente dello stato per accrescere il loro prestigio personale, come pure l’influenza e il potere di Roma»6.

 

Diversi dati […] mostrano il quadro di un’aristocrazia romana consapevole del proprio potere e di quello dello stato romano, avida di gloria militare e lieta di goderne, ambiziosa di annunciare ed elencare pubblicamente i propri successi ai contemporanei ed ai posteri […]. [Tra le famiglie aristocratiche c’era] un forte senso dell’orgoglio familiare, della tradizione e della continuità7.

L’aristocrazia romana era pervasa da un ethos militare in base al quale l’onore più grande si conseguiva con la vittoria in battaglia, sia tramite atti di valore individuali che guidando operazioni militari di successo. Questo ethos non era soltanto mantenuto, ma altresì alimentato dalla rivalità competitiva che caratterizzava l’élite di governo romana […] Molti degli alleati italici di Roma possedevano un’analoga tradizione militare di lunga data, così che i vantaggi derivanti da guerre vittoriose (schiavi e bottino) univano tra loro, nell’intraprendere guerre, gli interessi dell’élite romana, della popolazione romana maschile adulta e degli alleati di Roma. Lo stato romano era pertanto configurato allo scopo di perseguire una politica estera aggressiva, caratterizzata dall’assunzione di rischi calcolati, dall’opportunismo e dall’interventismo militare. Di conseguenza, durante il periodo repubblicano furono pochi gli anni in cui i magistrati curuli romani non guidassero eserciti e non conducessero operazioni militari8.

 

Degna di nota è l’osservazione del fenomeno umano dell’autoinganno emergente dal fatto che Roma avesse prodotto motivazioni di tipo morale per molte delle sue guerre (fatto comune nel corso della storia dell’Occidente fino ai giorni nostri).

 

Nel descrivere le cause delle varie guerre gli storici romani di epoca tarda di solito magnificavano (quando non fabbricavano di sana pianta) le responsabilità del nemico, sopprimendo o distorcendo ogni misfatto compiuto dai romani […] Il senato romano è presentato come esperto nelle guerre con i popoli stranieri e assai abile nel manipolare le situazioni o gli stati nemici, così da crearsi una giusta motivazione per la guerra a sostegno della propria politica di espansione9.

 

Uno studio recente ha sostenuto che la razionalizzazione è un adattamento evolutivo degli umani10. Nel caso romano questa razionalizzazione alimentò indubbiamente l’orgoglio di gruppo.

Per via del prestigio connesso alla carriera militare, le famiglie aristocratiche evitavano il tribunato (che era composto da plebei e si occupava di questioni urbane interne piuttosto che di questioni militari) sebbene alcuni aristocratici di basso rango diventassero tribuni.

Forsythe descrive anche l’organizzazione sociale sostanzialmente IE dei galli che occuparono Roma nel 390 a. C. I galli erano meno organizzati dei romani o delle altre città-stato del Mediterraneo, ma avevano anch’essi un’élite guerriera che si dedicava al saccheggio:

 

Presso i celti, l’attività predatoria e la sovrappopolazione contribuirono congiuntamente all’ampliamento territoriale dei loro insediamenti e della loro cultura. Le incursioni compiute all’interno di nuove aree offrivano ai condottieri celti e alle loro bande di guerrieri ulteriori opportunità di arricchirsi e di guadagnare prestigio. Nello stesso tempo, le loro razzie aprivano sovente la strada a migrazioni più pacifiche e ad insediamenti; la Valle del Po nell’Italia settentrionale è forse il miglior esempio di questo fenomeno11.

 

L’intensa dedizione ad un’etica militare appare evidente nel tipico atteggiamento dei romani dopo una sconfitta. Quando furono battuti dal re greco Pirro, invece di trattare la pace i romani «risposero con sforzi ancor più grandi per risollevarsi»12. Quando, alla fine, riuscì a sconfiggere Pirro, Roma era arrivata sulla scena internazionale, ricevendo un ambasciatore dell’Egitto.

 

La famiglia romana.

 

Larry Siedentop definisce IE  la struttura familiare dominante dell’antica Grecia e della Roma precristiane.

Era un mondo nel quale «la famiglia era tutto» e il paterfamilias agiva non solo come un magistrato dotato di potere su tutti i membri della famiglia, ma anche come il suo sommo sacerdote. In effetti l’unità di base era un insieme di «piccole chiese familiari»13. La venerazione degli antenati maschi era fondamentale, così che, in un senso molto concreto, ciascuna famiglia aveva la propria religione. Sebbene la famiglia si basasse sui legami di sangue in linea maschile, un figlio adottivo poteva diventarne parte accettando gli antenati della famiglia di adozione come propri (fenomeno detto dagli antropologi “parentela fittizia”), mentre «un figlio che abbandonava la famiglia cessava del tutto di essere un parente, diventando uno sconosciuto»14.

Questo era un sistema patrilineare, dove le donne che diventavano mogli in un’altra famiglia perdevano la loro identità precedente e adottavano gli antenati del marito. Fatto importante, il confine della famiglia era altresì un confine morale: «Per lo meno all’inizio, si riteneva che coloro che stavano al di fuori dalla cerchia familiare non condividessero alcun attributo con coloro che stavano all’interno. Non era riconosciuto alcun elemento umano in comune, atteggiamento confermato dalla pratica della riduzione in schiavitù»15. L’affetto e la beneficienza erano circoscritti entro i confini della famiglia. Ciò aveva come risultato un sentimento familiare composto da senso del dovere, affetto e credenza religiosa: la pietas.

La proprietà non apparteneva all’individuo, bensì alla famiglia, dove il figlio maggiore possedeva la terra per conto dei propri antenati e dei propri discendenti. Le figlie non potevano ereditare. La società era dunque un’associazione di famiglie, non di individui. Il divario principale era quello tra pubblico e famiglia, non tra pubblico e privato.

Se la famiglia così strutturata formava la base del sistema sociale, esistevano altresì raggruppamenti più ampi, come la gens (famiglia estesa) i clan (in greco fratrìe, in latino curiae) e le tribù, secondo distanze genetiche via via maggiori. Questi gruppi più estesi erano composti da famiglie unite tra loro non da legami genetici, bensì da un’ideologia religiosa, a dimostrazione del fatto che la parentela biologica non rivestiva un’importanza determinante: «Queste ampie associazioni davano vita al loro sacerdozio, alle loro assemblee e ai loro riti»16. Le città nascevano quando un certo numero di questi raggruppamenti più ampi (le tribù) si univano e stabilivano un culto comune. Ciò tuttavia non cancellava le connotazioni religiose dei gruppi più piccoli, famiglie comprese. «La città che veniva ad emergere era dunque una confederazione di culti, un’associazione che si sovrapponeva alle altre associazioni, il tutto modellato sulla famiglia e sul suo culto»17. Non si trattava di un’associazione di individui.

Le regole a base religiosa prescrivevano i comportamenti in ogni ambito della vita, non lasciando alcuno spazio alla coscienza individuale. Le leggi erano viste come derivanti dalla religione più che come una decisione volontaria dei legislatori. Ciò produceva un forte patriottismo, essendo la religione, la famiglia e il territorio tra loro connessi. «Tutto ciò che era importante per [il romano], i suoi antenati, la sua vita morale, il suo orgoglio e la sua proprietà, dipendeva dalla sopravvivenza e dal benessere della città»18. Un simile attaccamento alle divinità cittadine fu la causa principale della difficoltà di unire tra loro le città della Grecia. L’esilio era la punizione estrema, poichè una persona esiliata non possedeva un’identità legittima.

Come in altre società aristocratiche IE, le barriere tra le classe dominante e quella dominata finirono per diventare permeabili e una mobilità sociale ascendente divenne possibile, per quanto lentamente. Il modello di cittadinanza aristocratico e la base etnica dell’aristocrazia erano decaduti assai prima che l’impero adottasse il cristianesimo (cfr. cap. 5).

Vi furono inoltre graduali mutamenti in direzione della fine primato del primogenito e della riduzione del potere del paterfamilias sui rami della famiglia estesa. I clienti (originariamente poco più che schiavi) divennero liberi di possedere proprietà.

Le idee di “gerarchia naturale” e di “ineguaglianza naturale” sono fondamentalmente aristocratiche. Pertanto, la “società giusta” di Platone, com’è delineata nella Repubblica, doveva essere governata dai filosofi poiché costoro erano veramente razionali, e Platone riteneva che esistessero differenze naturali nella capacità di essere razionali. Questa, espressa nel linguaggio moderno della genetica comportamentale, è l’idea secondo la quale esistono differenze individuali aventi una base genetica. Aristotele credeva che alcune persone fossero “schiave per natura”19, vale a dire che la gerarchia tra padroni e schiavi fosse naturale. Riflettendo temi comuni alla cultura IE20, gli antichi apprezzavano la fama e la gloria (valutazione positiva da parte degli altri) derivanti da autentiche virtù e dai successi militari e politici, non l’indolenza o l’amore per il lusso, e neppure il lavoro, perché i lavoratori erano spesso schiavi e il legittimo bottino di una conquista.

 

La religione pubblica romana.

 

Come osservato in precedenza, un aspetto importante della religione riguardava le “piccole chiese familiari”. Esisteva tuttavia anche una religione pubblica, che era “profondamente incorporata” nella cultura romana più antica. Si riteneva che i patrizi possedessero una «speciale conoscenza religiosa»21. I dati indicano «un antico nesso tra sacerdozio, senato, patriziato e autorità religiosa»22. Ad ogni modo, Roma divenne via via più secolarizzata, così che i legami tra le famiglie patrizie e la religione gradualmente si attenuarono e insigni plebei poterono detenere alte cariche religiose, un aspetto questo della generale acquisizione da parte della plebe di potere e di status nell’ambito della repubblica e un esempio della mobilità sociale ascendente possibile nelle culture a base IE. Prima della seconda metà del IV sec. a. C. il senato deteneva probabilmente la maggioranza dei sacerdoti, ma in seguito «l’aumento del numero delle magistrature dovette portare ad una secolarizzazione del senato, dato che il prestigio e l’importanza del corpo sacerdotale dei patres vennero intaccati e si ebbe un incremento di senatori di formazione politica e militare»23.

 

Il governo aristocratico e non dispotico di Roma.

 

A detta di tutti, la storia romana più antica, precedente la repubblica, è avvolta nella leggenda. Ciò nondimeno, Forsythe osserva come durante il periodo in cui  governarono i re non vi siano indizi di un principio ereditario24. Lo storico romano Livio scriveva infatti:

 

Un tempo i re governavano la città. Essi tuttavia non la lasciavano ai membri della loro casata. A loro successero persone che non erano loro parenti, ed alcuni stranieri; Romolo fu seguito da Numa, che proveniva dai sabini, vicini certamente ma, a quel tempo, stranieri […] A [Tarquinio Prisco] fu impedito di rivestire cariche pubbliche nella propria città per via del suo sangue impuro, essendo egli figlio di Demarato il corinzio e di una donna di Tarquinia, di buoni natali ma povera, così che dovette accettare suo marito per necessità; ma dopo che fu emigrato a Roma, Tarquinio Prisco ottenne la carica di re25.

 

E’ particolarmente interessante il fatto che un uomo la cui carriera nella propria città era ostacolata dall’avere “sangue impuro” riuscisse a diventare re a Roma. Il caso di Servio Tullio fu simile: era un etrusco che divenne re dopo essere emigrato a Roma, «col più grande vantaggio per lo stato»26.

Ciò è importante in quanto indica (coerentemente con altre culture IE) che i re ottenevano la loro posizione in base alle loro capacità, probabilmente mediante elezione da parte dei loro pari, ma certo non per via ereditaria. Come osservato in questo capitolo, la società IE era un sistema basato sul libero mercato piuttosto che sulla parentela: i capi dei Männerbünde erano in grado di reclutare seguaci grazie alla loro capacità di condurre operazioni belliche di successo. I seguaci venivano ricompensati per i loro sforzi, ma si sarebbero uniti ad altri Männerbünde qualora avessero ritenuto di trovare altrove migliori opportunità.

In generale i re di Roma non furono dei despoti, per quanto sussistano alcune congetture in base alle quali gli ultimi due re si sarebbero comportati da tiranni27; se le cose stessero così, tale esperienza avrebbe potuto costituire la ragione per la quale i romani abbandonarono la monarchia in favore delle istituzioni repubblicane. Nella maggior parte dei casi i re furono “primi tra i pari”, un sistema che Ricardo Duchesne ha definito «egualitarismo aristocratico»28. I re erano consigliati dagli altri aristocratici e probabilmente erano eletti da loro.

Verso la fine del VI sec. a. C., poco prima della nascita della repubblica, Roma aveva un governo tripartito formato da popolo, senato e re. Il popolo era suddiviso in tre tribù secondo un criterio geografico piuttosto che parentale, ciascuna con dieci curiae che formavano la base sia del reclutamento militare sia della partecipazione al voto, e che dunque furono la più antica struttura politica e militare dello stato romano. Nella prima Roma gli aristocratici consigliavano il re; dopo i re, essi formarono un corpo a sè, il senato. Il senato eleggeva un re ad interim, o interrex, «fintanto che il popolo non veniva chiamato a raccolta nei comitia curiata [un’assemblea militare, vedasi oltre] dove un candidato proposto dall’interrex presidente riceveva il voto affermativo del popolo (lex curiata) e l’approvazione del senato (patrum auctoritas29. I due consoli stabiliti dalla repubblica come le più importanti cariche politiche ereditarono essenzialmente i poteri militari e giudiziari del re, mentre il rex sacrorum ne ereditò i compiti religiosi. I consoli avevano il potere di radunare l’esercito e di comandarlo in guerra. I consoli erano collaboratori, non despoti, e l’azione di uno poteva essere bloccata dall’altro. «Il disaccordo aveva come risultato l’inazione»30. Comunque, in tempi di crisi un dittatore poteva essere nominato da uno dei consoli in risposta a un decreto del senato, probabilmente ratificato dai comitia centuriata. A differenza dei consoli, il cui mandato durava un anno, il mandato dei dittatori durava soltanto sei mesi.

Con lo stabilimento della repubblica, Roma venne ad essere dominata da un’aristocrazia. Una componente importante di questa aristocrazia di governo fu un gruppo di antiche ed eminenti famiglie, i patrizi. Per un certo periodo i patrizi tentarono di diventare una casta chiusa e di monopolizzare completamente il consolato. Nel 449 a. C. vene promulgata una legge contro il matrimonio tra patrizi e plebei, che però fu revocata appena cinque anni dopo; dai romani delle epoche successive essa venne generalmente considerata tirannica31.

Un altro aspetto del governo aristocratico della repubblica è che le più alte autorità (consoli e pretori) erano elette dai comitia centuriata, assemblee militari divise in centurie sulla base del censo. Ai censori spettava la responsabilità di verificare le proprietà di ciascun capofamiglia e di assegnarlo ad una centuria. La centuria più ricca votava per prima, e di solito il risultato delle elezioni era già deciso prima che le centurie più  povere potessero votare. I comitia centuriata avevano il potere di approvare le leggi, dichiarare guerra e ratificare i trattati, e fungevano da corte suprema per i crimini punibili con la pena capitale32.

Malgrado ciò, i plebei avevano una certa rappresentanza politica. I tribuni della plebe erano la carica più importante dopo i consoli. I loro compiti si limitavano a gestire «le questioni legislative e giudiziarie [della città] davanti al popolo raccolto in assemblea»33. «Nel pensiero politico romano di epoca tarda i tribuni della plebe erano visti come cani da guardia pubblici e come protettori dei diritti dei cittadini»34. Gran parte delle leggi era promulgata da questi tribuni, ma ciò avveniva «solitamente ai sensi di un decreto del senato»35. Il tardo periodo repubblicano, a partire dall’epoca dei Gracchi (131-121 a. C.), conobbe un notevole conflitto, con «tribuni sediziosi che promuovevano istanze popolari in opposizione al senato»36.

Comunque, per la maggior parte del periodo repubblicano vi fu una netta  separazione dei poteri. Forsythe attribuisce particolare importanza agli accordi politici del 367 e del 338 a. C., che proiettarono Roma verso uno spettacolare successo. «Il potere politico fu distribuito tra i magistrati, il senato e l’assemblea dei cittadini, così da formare quella costituzione mista che riscosse lodi così grandi da parte di Polibio»37.

Un altro storico, Andrew Lintott, riassume la separazione dei poteri a Roma nel modo seguente:

 

A Roma il senato appare come il punto focale della politica. Qui non solo si discutono le questioni di politica estera, ma anche problemi come il disaccordo tra il pretore e il pontifex maximus. Il senato è una cassa di risonanza dell’autorità dei membri dell’esecutivo, che per la maggior parte ne sono anche membri.

Comunque, sarebbe errato pensarlo come un’autorità unica o suprema. E’ in effetti una caratteristica della repubblica il fatto che vi fossero molteplici fonti decisionali che, normalmente, non venivano messe in discussione da parte di una qualche autorità superiore (cosa che doveva in gran parte scomparire sotto la monarchia dei Cesari). I magistrati (tra cui gli aediles, i tribuni, i questori…) e i commissari preposti alla fondazione e rifondazione di colonie dovevano la loro posizione al popolo raccolto in assemblea […] Il voto popolare poteva essere soggetto a quelle che erano considerate come influenze improprie, ma mostra altresì come tali influenze non fossero necessariamente decisive38.

 

L’apertura della società romana: mobilità sociale e incorporazione di popoli diversi. 

 

Come sottolineato in questo capitolo, la struttura sociale IE era basata sul talento e sull’abilità. La mobilità ascendente era possibile, e i gruppi IE in Europa tendevano ad avere, tra conquistatori e popoli conquistati, barriere relativamente deboli e permeabili, che la persona dotata di talento poteva oltrepassare. Ciò valeva anche per Roma. La mobilità ascendente era possibile, come lo era quella discendente.

 

Mobilità ascendente dei plebei.

L’infelice tentativo di stabilire un concetto di cittadinanza riservato ai patrizi incontrò naturalmente l’opposizione di coloro che rimanevano esclusi da questo sistema basato sulla famiglia. I plebei erano originariamente costituiti da immigrati che non avevano rapporto con gli antenati o con la parentela delle famiglie cittadine. Erano un gruppo eterogeneo che comprendeva i poveri delle campagne e della città, ma anche alcune famiglie ricche e di successo che erano ascese socialmente39. Questi plebei più ricchi, in particolare, avevano ambizioni politiche proprie e premevano per espandere i confini della cittadinanza ed aprire alla loro classe l’accesso alle cariche pubbliche. A partire dal tardo V scolo [a. C., n.d. t.] la politica interna romana fu dominata dalla «lotta tra gli ordini», un conflitto di classe tra patrizi e plebei in cui questi ultimi ottennero gradualmente più diritti e un maggiore potere politico.

Fin dal principio della repubblica le cariche erano suddivise tra patrizi e plebei, laddove i primi detenevano il sacerdozio del rex sacrorum, i tre flamen maggiori (sacerdoti assegnati al culto di Giove, Marte e Qirino) e la carica di interrex (che controllava lo stato durante i cinque giorni in cui si tenevano le elezioni consolari). I plebei detenevano il tribunato della plebe e l’edilità plebea (carica che regolava le festività, i mercati e la manutenzione degli edifici pubblici). Ma esisteva una pari ripartizione dei poteri per altre cariche: quelle di curule aedile (responsabile di diverse festività) di console e di censore, come pure per alcune cariche religiose di minore importanza. In generale, i patrizi conobbero un graduale declino man mano che le loro famiglie si estinsero, ma conservarono «grande prestigio e importanza politica»40. A volte patrizi e plebei univano le loro risorse politiche e concorrevano insieme per il consolato.

Verso la metà del IV sec. a. C. l’aristocrazia romana era composta sia da famiglie plebee che da famiglie patrizie. A partire dal 342 a. C. si adottò la pratica che un console fosse patrizio e l’altro plebeo. Nel 172 a. C., a causa del declino di molte famiglie patrizie e dell’estinzione di alcune altre, vi furono spesso due consoli plebei, «e da allora in poi la precedente spartizione del consolato fu abbandonata»41. L’ascesa dei plebei proseguì nella tarda repubblica. Quando Silla divenne dittatore, verso l’82 a. C., ridusse il potere dei tribuni della plebe e restaurò quello dei comitia centuriata, ma ciò generò forti controversie e venne abbandonato nel 70 a. C.

 

Mobilità sociale ascendente dei popoli assimilati.

Fin dai primi tempi della repubblica abbiamo esempi della fluidità sociale dell’aristocrazia romana. Appio Claudio arrivò a Roma dal territorio sabino nel 509 a. C. e divenne membro del patriziato. L. Fulvius Curvus, proveniente da Tusculum, diventò console 60 anni dopo che Roma ebbe conquistato la sua città nel 381 a. C. I consolati degli anni che vanno dal 293 al 280 a. C. inclusero sei nuovi clan e altri due si aggiunsero nel 264 a. C.; almeno cinque di questi clan erano di origini non romane, mentre quelli romani erano plebei.

L’apertura verso gli stranieri appare anche dal fatto che il Latium, che comprendeva le città vicine a Roma con lingua e cultura simili, aveva diritti di commercium (poteva detenere proprietà in altre città) di connubium (matrimonio) e di migrandi (immigrazione). Ciò definì un precedente per le epoche successive, quando altri popoli, non latini, sarebbero stati incorporati nella società romana con una cittadinanza parziale (civitas sine suffragio). Tali popoli avrebbero potuto, in seguito, ottenere la piena cittadinanza, come ad esempio i sabini, che la ottennero nel 268 a. C. Questa apertura verso gli altri popoli fu «una chiave del futuro successo imperiale di Roma»42.

Invece di annientare le élite dei popoli conquistati, Roma spesso le assorbì, garantendo loro all’inizio una cittadinanza parziale, in seguito quella piena. Il risultato fu quello di unire «i diversi popoli italici in un’unica nazione»43. A tutti i popoli conquistati veniva richiesto di fornire soldati, cosa che permetteva a Roma di impegnarsi continuamente in operazioni di guerra. Se una persona si trasferiva a Roma da una zona conquistata, poteva ottenere la piena cittadinanza. Dai gruppi conquistati venivano continuamente create nuove tribù, il cui numero complessivo raggiunse le 31 nel 332 a. C.44.

Coloro ai quali veniva data la cittadinanza venivano assegnati ad una tribù e ad una centuria nei comitia centuriata, espandendo così la popolazione romana e, in definitiva, il potere di Roma. Ad esempio, quando i romani conquistarono la città etrusca di Veio nel 396 a. C. crearono quattro nuove tribù, i cui membri vennero assegnati dal censore romano.

Questo processo proseguì nella tarda repubblica: la Guerra Sociale del 90-88 a. C. ebbe come risultato la piena cittadinanza per le genti non romane dell’Italia centrale e meridionale. Alla fine si cominciò ad estendere la cittadinanza oltre i confini italiani. «Al tempo dell’assassinio di Giulio Cesare […] nel 44 a. C. l’Italia era stata romanizzata, e il medesimo processo (per quanto ad un ritmo assai più lento) era già in corso in altre province d’oltremare» 45.

L’apertura del sistema romano appare anche dal trattamento riservato agli schiavi liberati. I liberti diventavano cittadini romani e clienti dei loro ex-padroni. Nei primi tempi gli schiavi erano dei latini etnicamente molto vicini ai romani che erano stati catturati in guerra e integrati con facilità, ma la legge non venne cambiata neppure dopo che gli schiavi cominciarono ad essere individui provenienti in numero preponderante da altre popolazioni ed altre culture.

 

Qualunque fosse l’origine di questa pratica, Roma non la cambiò mai. A partire dal IV sec. a. C., quando la conquista romana dell’Italia e del Mediterraneo generò un massiccio afflusso di schiavi, la società romana continuò a ricevere costantemente al suo interno nuovi cittadini di origine straniera mediante la pratica della manomissione. Tale apertura contribuì al posteriore successo di Roma quale potenza imperiale capace di unire popoli diversi in un sistema sociale funzionante46.

 

Nel 264 a. C. (inizio della Prima Guerra Punica) esistevano tre classi di romani: 1) i cittadini dell’area centro-italica; 2) gli stati alleati a Roma (etruschi, ecc.) guidati da «élite di proprietari terrieri che avevano essenzialmente gli stessi interessi sociali, economici e politici nonché la stessa mentalità dell’aristocrazia romana»; 3) le colonie latine stabilite in tutta l’Italia47. Tutti facevano parte dell’organizzazione militare romana. Le colonie e gli alleati potevano gestire i loro affari interni, ma Roma ne controllava la politica estera. Si dice che Roma, quando entrò nella Prima Guerra Punica, fosse in grado di mettere in campo 730.000 fanti e 72.700 cavalieri, una forza davvero impressionante. Roma era diventata una potenza mondiale ed era in rotta di collisione con Cartagine.

Per finire, è importante rendersi conto del fatto che l’apertura della società romana non era generalmente caratteristica delle altre città-stato mediterranee, e in particolare di quelle greche.

 

Anche se la società romana era molto gerarchica e niente affatto democratica, essa era assai più aperta di quella delle città-stato greche. Come risultato, Roma ebbe successo nell’unire le popolazioni italiche, molto diverse tra loro, in un’unica confederazione, laddove gli stati della Grecia continentale, per quanto uniti da una lingua e da una cultura comuni, non riuscirono mai a superare la natura esclusoria delle loro istituzioni e a formare un’unione duratura. L’unità greca venne raggiunta solo quando fu imposta dalla forza superiore di una potenza straniera, coma le Macedonia o Roma […] Questa ricettività sociale e politica fu la principale responsabile del duraturo successo di Roma quale potenza imperiale48.

 

Come scrive Tacito, l’imperatore Claudio (che regnò dal 41 al 54 d. C.) fu ben consapevole di questo contrasto tra la Grecia e Roma, come si evince dai suoi commenti nel corso di un dibattito concernente la questione se i galli, già cittadini, potessero avere accesso ad una delle più alte cariche della società romana, quella di senatore. Claudio sottolineò la lunga storia dei non romani che avevano raggiunto posizioni e potere a Roma (inclusi i suoi stessi antenati) come pure il loro contributo alla città e il loro senso di devozione nei confronti della stessa, sostenendo che le nuove genti si sarebbero assimilate e avrebbero fornito un contributo alla società romana.

 

Nei miei stessi antenati, il più antico dei quali, Clausus, un sabino d’origine, fu fatto al contempo cittadino e capo di una casa patrizia, trovo incoraggiamento ad adottare la stessa politica nel mio governo, portando qui ogni autentica eccellenza da qualunque luogo la si trovi. Poiché non ignoro che i Julii vennero tra noi da Alba, i Coruncanii da Camerium, i Porcii da Tusculum; che […] certi membri del senato vennero presi dall’Etruria, dalla Lucania, dall’intera Italia; e che, per finire, l’Italia stessa venne estesa fino alle Alpi, così che non solamente individui, ma paesi e nazioni formassero un unico corpo sotto il nome di romani. […] Cos’altro risultò fatale a Sparta e ad Atene, malgrado il loro potere con le armi, se non la loro politica di tenere a distanza i conquistati come stranieri? Ma la sagacia del nostro fondatore Romolo fu tale che più volte egli combattè e naturalizzò un popolo nel corso del medesimo giorno. […] Se considerate tutte le nostre guerre, nessuna terminò in un tempo più breve di quella contro i galli: da allora in poi c’è stata una pace continua e leale. Ora che i costumi, la cultura e i legami matrimoniali li hanno fusi con noi, che portino tra noi il loro oro e le loro ricchezze, invece di tenerli al di là dei confini! […] Ai magistrati patrizi seguirono quelli plebei, ai plebei quelli latini; ai magistrati latini, quelli provenienti da altre genti dell’Italia49.

 

La posizione di Claudio risultò vincente.

Alla lunga, l’accoglienza degli stranieri ebbe come conseguenza che Roma perdette la sua omogeneità etnica, cosa che probabilmente contribuì al declino delle qualità che avevano fondato e mantenuto il potere romano, come pure all’aumento dei conflitti sociali e politici della tarda repubblica e dell’impero. Tenney Frank rivide criticamente la storia della mescolanza razziale a Roma esaminando la probabile origine dei nomi delle iscrizioni e concludendo: « E’ probabile che, all’epoca in cui essi [Giovenale e Tacito] scrivevano [tra la fine del I e l’inizio del II sec. d. C.] una percentuale assai ridotta dei liberi plebei che circolavano per le strade di Roma potesse comprovare una pura discendenza italica. La stragrande maggioranza (forse il novanta per cento) aveva sangue orientale nelle vene»50.

Frank, che scriveva nel 1916, quando la scienza sociale darwinista era al suo zenit (cfr. cap. 6) propone diverse altre cause del «“suicidio razziale” delle quali gli scrittori dell’età imperiale chiacchieravano apertamente»51. Queste includono le molte guerre i cui soldati provenivano dal ceppo originario dei cittadini nati liberi (che dunque servivano sotto le armi, mentre gli schiavi erano liberi di riprodursi) come pure la bassa fertilità delle classi superiori. Quest’ultimo fattore è davvero notevole:

 

Combinando tra loro fonti epigrafiche e letterarie, è possibile ricavare una storia delle famiglie nobili abbastanza completa, e questa rivela una sorprendente incapacità, da parte di tali famiglie, di perpetuarsi. Sappiamo ad esempio di 45 patrizi viventi all’epoca di Cesare, dei quali uno soltanto era rappresentato da un discendente quando Adriano prese il potere [117 d. C.]. Gli Aemilii, i Fabii, i Claudii, i Manlii, i Valerii e tutti gli altri (con l’eccezione dei Cornelii) erano scomparsi. Augusto e Claudio [all’inizio del I sec. d. C.] elevarono al patriziato 25 famiglie, tutte scomparse, tranne sei, prima del regno di Nerva [96-98 d. C.]. Delle quasi quattrocento famiglie di senatori registrate nel 65 d.C. sotto Nerone, quasi la metà era scomparsa ai tempi di Nerva, ossia una generazione dopo52.

Ma ciò che stava dietro a tutte queste cause di disintegrazione e che costantemente esercitava su di esse la sua influenza era dopo tutto, ed in misura considerevole, il fatto che il popolo che aveva costruito Roma aveva ceduto il suo posto ad una razza differente. La mancanza di energia e di intraprendenza, di previdenza e di buon senso, l’indebolimento della fibra morale e politica furono tutti fattori concomitanti del graduale decremento di quella popolazione che, nell’epoca precedente, aveva dato prova di tali qualità […].

Possiamo addirittura ammettere che se le nuove razze avessero avuto tempo di amalgamarsi e di raggiungere una consapevolezza politica, avrebbe potuto nascere una civiltà più brillante e versatile. Il problema, in ogni caso, non sta qui. E’ evidente che almeno quelle qualità politiche e morali che ebbero maggior peso nella costruzione della federazione italica, nell’organizzazione dell’esercito e del sistema amministrativo provinciale ai tempi della repubblica erano quelle stesse che più necessitavano per tenere insieme l’impero. E per quanto brillanti fossero le doti dei nuovi cittadini, tali qualità facevano loro difetto53.

 

Un chiaro segno di sostituzione della popolazione (già evidente negli Stati Uniti dell’epoca di Frank ma ancor più oggi, quando così tanti monumenti costruiti  dalla maggioranza bianca, comprese le statue di Cristoforo Colombo erette nei quartieri italiani54, vengono abbattuti) fu l’aumento del numero dei santuari dedicati a divinità straniere.

 

Uno dopo l’altro, gli imperatori guadagnarono popolarità tra le masse erigendo santuari ad un qualche Baal straniero, od una statua ad Iside nella sua cappella, più o meno allo stesso modo in cui le nostre città intitolano vie a Garibaldi, Pulaski e via dicendo55.

 

Conclusione: Roma, una strategia evolutiva di gruppo fallimentare.

 

La variante romana del modello culturale IE, nel periodo repubblicano, può essere vista come una strategia che includeva diversi aspetti:

 

  • L’ethos e il prestigio militare IE costituivano la più alta aspirazione pubblica e le famiglie aristocratiche competevano duramente tra loro per la gloria militare;
  • I rapporti patrono-cliente legavano tra loro persone di differenti classi sociali in relazioni di mutuo obbligo e di reciprocità, pratica derivata dai Männerbünde caratteristici delle altre culture IE;
  • Un governo non dispotico e aristocratico, con separazione tra i poteri decisionali e termini di durata ben definiti;
  • Permeabilità tra le classi sociali, così che la mobilità sociale fosse possibile per i plebei dotati di talento;
  • Apertura all’incorporazione di nuovo popoli nella struttura di potere, senza la quale Roma non sarebbe stata in grado di condurre le sue poderose campagne militari.

 

La Roma repubblicana fu essenzialmente un gruppo di clan aristocratici che competevano per l’onore e la gloria mediante manovre politiche volte ad ottenere il consolato e con esso a comandare le operazioni militari contro i gruppi confinanti. Si potrebbe pensare al sistema romano come ad una versione urbanizzata del sistema dei Männerbünde, con un dato numero di famiglie concorrenti per ogni particolare periodo, tutte viventi entro un’area geografica limitata. Poiché i consoli venivano scelti da un’adunanza militare, questo sistema politico formalizzato aveva tipicamente un risultato simile a quello del sistema dei Männerbünde: la selezione dell’uomo più capace nel guidare l’esercito, l’uomo la cui guida avrebbe con maggior probabilità portato alla vittoria e quindi alla ricompensa materiale per la conquista. Allo stesso tempo, prevedendo due consoli per un periodo di tempo limitato, questo sistema era concepito per impedire il dominio di una sola famiglia (a differenza di quanto avverrà nelle tarde aristocrazie europee) garantendo che il talento militare e non l’eredità fosse il fattore critico del successo. Il sistema aveva pertanto le caratteristiche essenziali di un libero mercato. Nel corso del tempo, questo libero mercato del talento venne allargato fino ad includere i plebei e ad eleggere alle più alte cariche dello stato individui provenienti dai popoli conquistati. La mobilità ascendente (come pure quella discendente) era possibile.

Roma era una società schiavista, dove gli schiavi come beni mobili divennero comuni nel IV sec. a. C.; gli schiavi erano una componente di primo piano del bottino di guerra. Comunque, la pratica comune di affrancare gli schiavi, che potevano quindi aspirare alla cittadinanza, fu un altro indicatore dell’apertura e della fluidità sociale della società romana.

Più importante è il fatto che l’esercito non si basò mai sulla schiavitù, come nell’antica Persia. Il successo militare, a sua volta, era un bene per tutte le classi sociali, non solo per le élite. Ad esempio, a prescindere dal bottino derivante dalle campagne militari vittoriose, i cittadini romani erano sovente inviati quali coloni nelle zone conquistate. Nel periodo tra il 338 e il 291 a. C. Roma fondò 16 colonie che coinvolsero circa 50.000 persone, romane e non romane, «che ottennero lo status dei latini diventando coloni»56. Forsythe suggerisce, ragionevolmente, che la pratica della colonizzazione possa essere stata una valvola di sicurezza per i romani poveri e indebitati.

Il risultato fu che il potere romano, a differenza di quello di molte altre civiltà, non era basato sul dispotismo. I cittadini di qualunque classe sociale avevano il loro interesse nel sistema: gli schiavi potevano aspirare alla libertà, coloro che avevano una cittadinanza parziale potevano aspirare alla cittadinanza piena e addirittura alla possibilità di ascendere alla carica di senatore.

Si può ritenere la strategia romana, valutandola correttamente, una strategia evolutiva di gruppo mirante in ultima analisi a migliorare il retaggio genetico di coloro che la praticavano? Suggerirei che la si possa considerare così nella misura in cui le popolazioni assimilate erano strettamente imparentate col ceppo fondatore. Le prime genti assorbite da Roma provenivano da città molto vicine del Lazio. La mobilità sociale ascendente di queste genti fornì a Roma una più vasta manovalanza militare e un più ampio serbatoio di talento politico. All’epoca del discorso di Claudio la questione verteva sull’accorpamento di altri gruppi europei. Nel mondo attuale, essa potrebbe essere considerata analoga all’idea di conseguire un’unione paneuropea con libertà di movimento al proprio interno, limitata tuttavia a popoli che facciano parte del bacino genetico europeo. Se una tale strategia fosse perseguita oggigiorno, essa unirebbe assieme una popolazione bianca ben superiore al miliardo di persone in un formidabile gruppo di cooperazione. Ciò costituirebbe in effetti una strategia evolutiva di gruppo nella misura in cui avesse la volontà politica di escludere le altre popolazioni.

Il problema, naturalmente, proviene dl fatto che una simile politica su base razziale non rappresenta l’obiettivo delle attuali élite di tutto l’Occidente, e si sentono continuamente argomenti, simili a quelli utilizzati da Claudio, secondo i quali tali popolazioni porterebbero un contributo alla società. Un punto di vista realistico sul piano razziale porrebbe l’accento, come obiettivo primario e più importante, sugli interessi genetici degli europei e sul danno a lungo termine che questi  interessi riporterebbero qualora un gruppo che ha una fertilità relativamente bassa accogliesse come cittadini milioni di extraeuropei. Da parte mia porrei altresì in evidenza le differenze tra le popolazioni relativamente a tratti quali in quoziente di intelligenza e l’assimilabilità (p. es. per i musulmani) nonchè i costi del multiculturalismo come pratica che conduce al conflitto tra i gruppi, alla mancanza di coesione sociale e alla riluttanza a contribuire al bene comune.

 

Note.

 

  • Gary FORSYTHE, A Critical History of Early Rome: From Prehistory to the First Punic War by Prof.

Gary Forsythe, Berkeley, University of California Press, 2005.

  • Ibid., 199.
  • FORSYTHE, A Critical History of Early Rome, 200.
  • Ibid., 206.
  • Ibid.
  • Ibid., 307.
  • Ibid., 340.
  • Ibid., 286.
  • Ibid., 286-287.
  • Fiery CUSHMAN, Rationalization is Rational, “Behavioral and Brain Sciences”, in corso di stampa.
  • FORSYTHE, A Critical History of Early Rome, 281.
  • Ibid., 353.
  • Larry SIEDENTOP, Inventing the Individual: The Origins of Western Liberalism, Cambridge, MA, Harvard University Press, 2014: 14.
  • Ibid., 12.
  • Ibid., 13.
  • Ibid., 20.
  • Ibid., 21.
  • Ibid., 25. [19] Ibid., 52.
  • Ricardo DUCHESNE, The Uniqueness of Western Civilization, Leiden, Brill, 2011: passim, vedasi anche cap. 2.
  • FORSYTHE, A Critical History of Early Rome, 167.
  • Ibid., 167.
  • Ibid., 169.
  • Ibid., 98.
  • Ibid., 102-103.
  • Ibid., 103. [27] Ibid., 106.
  • Ricardo DUCHESNE, The Uniqueness of Western Civilization, Leiden, Brill, 2011.
  • FORSYTHE, A Critical History of Early Rome, 110.
  • Ibid., 150.
  • Ibid., 229. Il matrimonio per confarreatio era un’eccezione: era limitato ai sacerdoti ereditari patrizi e il suo significato era che i sacerdoti non potevano sposare donne plebee.
  • Ibid., 111.
  • Ibid., 170.
  • Ibid., 171.
  • Ibid., 170.
  • Ibid., 171.
  • Ibid.
  • Andrew LINTOTT, The Constitution of the Roman Republic, Oxford, Oxford University Press, 1999: 14.
  • FORSYTHE, A Critical History of Early Rome, 156-157.
  • Ibid., 160.
  • Ibid., 159.
  • Ibid., 185. [43] Ibid., 290.
  • Le assemblee tribali (comitia tributa) furono costituite sulla base della residenza geografica così come registrata dal censore. Eleggevano i tribuni della plebe che potevano promulgare le leggi e giudicare cause che non comportassero la pena di morte. Avevano inoltre potere di veto sugli atti del senato o di altri magistrati, compresi i consoli; comunque, fino alla tarda repubblica, tale potere fu raramente utilizzato; Ibid., 176.
  • Ibid., 368.
  • Ibid., 220.
  • FORSYTHE, A Critical History of Early Rome, 363.
  • Ibid., 368.
  • Ibid.
  • Tenney FRANK, Race Mixture in the Roman Empire, “American Historical Review”, 21, n. 4, Luglio 1916: 689-708, rist. in “The Occidental Quarterly”, 5, n. 4, Inverno 2005-2006: 51-68, 52. https://www.toqonline.com/archives/v5n4/54-Frank.pdf [51] Ibid., 63.

[52] Ibid., 64. [53] Ibid., 65.

  • John M. VIOLA, Tearing Down Statues of Columbus Also Tears Down My History, “The New York Times”, October 9, 2017.
  • FRANK, Race Mixture in the Roman Empire, 67.
  • FORSYTHE, A Critical History of Early Rome, 308.