INDIVIDUALISMO E TRADIZIONE PROGRESSISTA OCCIDENTALE: Capitolo 7, L’IDEALISMO MORALE NEL MOVIMENTO ANTISCHIAVISTA BRITANNICO   E IL “SECONDO IMPERO BRITANNICO”

INDIVIDUALISMO E
TRADIZIONE PROGRESSISTA OCCIDENTALE.
Origini evolutive, storia e prospettive future.
traduzione italiana di Marco Marchetti

Capitolo 7: L’IDEALISMO MORALE NEL MOVIMENTO ANTISCHIAVISTA BRITANNICO  

E IL “SECONDO IMPERO BRITANNICO1.

 

 

Non esiste quesito più centrale per la biologia evoluzionista di quello sull’altruismo. Gli altruisti compiono azioni che beneficiano altri senza ricevere in cambio nulla di tangibile. In assenza di determinate condizioni, il comportamento altruistico è, sul piano evolutivo, un vicolo cieco. Ad esempio, la ricerca sulla cooperazione altruistica ha mostrato che essa può svilupparsi se gli altruisti si raggruppano tra loro2 ed escludono i non altruisti in base alla reputazione3, o se sono disposti a punire i non altruisti, come può accadere in un’organizzazione militare4.

Questo capitolo prende in esame la rivoluzione emotiva che ebbe luogo in Inghilterra nel XVIII secolo  concentrandosi sul movimento per l’abolizione della tratta degli schiavi (1807) e dello schiavismo (1833). Come si vedrà più avanti, questa rivoluzione si estese a molti altri ambiti della società britannica. Le sue conseguenze sono evidenti nel libro di David Hackett Fischer Fairness and Freedom [Equità e libertà, n. d.

t.], di cui si parlerà nel seguito, che mette a confronto l’impero britannico del XIX secolo con quello del XVIII secolo durante il periodo di formazione delle colonie americane5. Negli anni 1840, quando la Nuova Zelanda venne popolata da immigrati provenienti dalla Gran Bretagna, nell’impero britannico esistevano forti correnti animate da universalismo morale, preoccupazioni empatiche e senso di equità.

Questa rivoluzione emotiva, che Hannah Moore definì l’“Età della Benevolenza”6, ebbe inizio nel XVIII secolo. Io suggerisco che tale rivoluzione sia stata, in ultima analisi, una conseguenza a lungo termine delle tendenze egualitarie dei puritani e del loro programma di fondare comunità morali come base della coesione sociale, un fenomeno che finì per essere applicato alla società in senso lato, come abbiamo osservato nel capitolo 6. Negli anni 1780, «il carattere morale dell’autorità imperiale e l’etica della condotta britannica al di fuori delle isole britanniche cominciarono ad apparire nel dibattito pubblico dell’impero con frequenza crescente»7. Nel seguito mi concentrerò sul movimento per l’abolizione della tratta degli schiavi e dello schiavismo come esempio che illustra questo aumento di preoccupazione empatica e di senso dell’equità. Lo scopo non è quello di descrivere i processi politici che alla fine portarono all’abolizione [dello schiavismo, n.

  1. t.] e neppure di spiegare come mai il movimento si sia manifestato proprio in quel periodo, ma è quello di esplorare la psicologia di alcuni dei principali attivisti di quel movimento e i metodi che essi impiegarono per far sì che gli altri provassero il loro stesso disgusto nei confronti dello schiavismo. Questi attivisti e scrittori erano portatori di elevati principi e profondamente cristiani, con un forte senso dell’equità e dell’egualitarismo. E sebbene fosse presente, sullo sfondo, una forte influenza dell’ethos puritano descritto nei capitoli precedenti (un ethos che ebbe un ruolo centrale per il movimento abolizionista degli Stati Uniti) i principali attivisti furono quaccheri, cui si unirono in seguito altri gruppi religiosi dissenzienti e, alla fine, la Chiesa d’Inghilterra, i cui membri appartenevano in misura maggiore alle élite britanniche.

In apparenza, tali movimenti implicavano l’altruismo. Nelle parole di Adam Hochschild, i movimenti antischiavisti erano,

 

nei primi tempi, [costituiti da] un gran numero di persone che si sentivano offese, e lo rimasero per molti anni, per i diritti di qualcun altro […] Per cinquant’anni, in Inghilterra, gli attivisti lavorarono per porre fine allo schiavismo nell’impero britannico. Nessuno di loro guadagnò un centesimo facendo ciò, e il loro successo finale significò ingenti perdite per l’economia imperiale. Gli studiosi stimano che l’abolizione dello schiavismo sia costata al popolo britannico l’1.8% del reddito nazionale annuo per oltre mezzo secolo8.

 

Questo movimento si manifestò in un’epoca in cui lo schiavismo era la norma in Africa, nel mondo arabo, in India, nell’impero ottomano e, a tutti gli effetti, in Cina. Come osserva Seymour Drescher, «l’istituzione eccezionale era la libertà, non la schiavitù»9.

Andrebbe osservato come la spiegazione in termini di altruismo non sia pacificamente accettata. Di sicuro, come per ogni movimento di massa, esisteva indubbiamente un’ampia gamma di motivazioni, incluse quelle di carrieristi egoisti che intendevano usare un movimento come quello abolizionista per incrementare la loro fama e la loro fortuna10. Ciò nondimeno, le motivazioni egoistiche all’agire non implicano che l’empatia provata nei confronti degli africani resi schiavi non fosse reale e non costituisse uno stimolo all’azione per molti. Cosa più importante, il nucleo fondamentale del movimento era formato da quaccheri per i quali, come si dirà in seguito, le accuse di motivazioni egoistiche sono, nella migliore delle ipotesi, difficili da sostenere. E per finire, anche se le élite acquisirono un capitale morale abolendo lo schiavismo, occorre domandarsi come e perché il capitale morale avesse una risonanza psicologica, come mai le élite, a cominciare dal XVIII secolo, giustificarono se stesse attirando l’attenzione sul carattere morale delle loro politiche piuttosto che, ad esempio, basarsi semplicemente sulla forza bruta o sull’autorità religiosa.

La questione, qui, è sottile: il punto è che l’idealismo morale e le motivazioni altruiste abbiano caratterizzato un nucleo importante degli abolizionisti, e non che tutti gli abolizionisti potessero essere caratterizzati in tal modo. Certamente continua a sussistere un considerevole dibattito sulle motivazioni di coloro che furono coinvolti nel movimento11. Perfino nel XIX secolo fu proposto che la campagna per porre fine allo schiavismo aveva evitato di affrontare la questione dello sfruttamento del lavoro entro i confini inglesi e aveva prodotto un capitale morale che aveva razionalizzato un impero ben lungi dall’essere perfetto. «Negli anni 1970, pochi tra gli storici accademici si facevano problemi a scrivere di uomini “altruisti” impegnati in una “virtuosa crociata”»12.

 

Il contesto dell’Età della Benevolenza.

 

I due partiti politici dell’Inghilterra del XVIII secolo erano i Whigs e i Tories, «derivati dai due schieramenti della Guerra Civile»13, rispettivamente i Roundheads a base puritana e i Cavaliers [13a]. L’Inghilterra era prospera e relativamente ricca, e tanto la sua popolazione rurale quanto quella urbana stavano «visibilmente meglio» di quella dell’Europa continentale14. Il sistema era oligarchico e c’erano dei rotten borough14a controllati da facoltosi proprietari terrieri, ma era assi più democratico dell’Europa continentale: «la maggior parte delle circoscrizioni elettorali aveva un elettorato autentico»15.

L’Inghilterra del XVIII secolo era dunque assai più egualitaria del continente:

 

Questa fu un’età dell’oro per l’aristocrazia, tuttavia essa non aveva uno status legale privilegiato, a differenza della maggior parte delle aristocrazie continentali, dove la signoria feudale e la servitù erano la norma. Le relazioni di potere locali erano basate sulla “deferenza”, ma la deferenza doveva, in una certa misura, essere guadagnata, e poteva essere revocata […] Anche il più povero aveva diritti legali, inclusa l’assistenza economica in virtù della Legge sui Poveri del 1601. Ciò dava agli uomini e alle donne ordinari, che a turno assumevano nelle loro parrocchie la funzione di Supervisori dei Poveri, la responsabilità di assistere i vicini bisognosi che si rivolgevano a loro, i costi essendo coperti da una “quota per i poveri” versata dai membri più facoltosi. Alla fine del secolo XVIII questo istituto era unico al mondo16.

 

Nel 1780 un osservatore tedesco notò che i londinesi «dalla classe più elevata a quella più umile [erano] quasi tutti persone di bell’aspetto, puliti e vestiti con cura, senza la distinzione così grande tra le classi che c’è in Germania»17.

Un relativo egualitarismo era pertanto collegato ad una società relativamente pacifica ed economicamente prospera, una società nella quale anche i poveri erano considerati detentori di diritti nei confronti del sistema. Nel seguito esamineremo come questi fenomeni fossero anche collegati ad una rivoluzione emotiva, facendo dell’Inghilterra un luogo più gentile e più mite e spianando la strada al successo del movimento abolizionista e alla trasformazione dell’impero britannico.

Sebbene qui ci si concentri sull’abolizionismo, l’Età della Benevolenza non si limitava a disapprovare lo schiavismo.

 

Tra il 1720 e il 1750 furono fondati cinque grandi ospedali a Londra e nove nel resto del paese, e il mezzo secolo che seguì vide la fondazione di dispensari, cliniche e ospedali specializzati (cliniche ostetriche, ospedali per malattie infettive, manicomi). Una legge che forniva assistenza all’infanzia per i figli dei poveri in campagna e altre misure quali la pavimentazione e il drenaggio di molte strade di Londra e lo sgombero di alcuni dei suoi peggiori bassifondi ebbero come risultato una sensibile riduzione del tasso di mortalità, soprattutto tra i bambini18.

 

L’educazione dei poveri venne accolta come parte del nuovo Zeitgeist:

 

Il movimento per l’educazione dei poveri rifletteva dunque la stessa sensibilità e lo stesso ethos che ispiravano altri movimenti filantropici e di riforma come le campagne contro la crudeltà verso gli animali, per l’abolizione dello schiavismo, per la riforma delle prigioni e delle leggi e per la fondazione di una moltitudine di società che si impegnavano ad alleviare una molteplicità di mali sociali19.

 

Fu anche i periodo in cui, come si legge nell’opera di Lawrence Stone, le relazioni intime basate sull’affetto e sull’amore vennero universalmente considerate come la base appropriata del matrimonio in tutte le classi sociali, inclusi i proprietari terrieri aristocratici20. Stone descrive «un nuovo tipo ideale, e cioè l’uomo di sentimento, prototipo del romantico del tardo Settecento»21. La narrativa poneva l’accento sulla morale: era «il romanzo sentimentale», come Pamela di Samuel Richardson.

La nuova etica trascendeva le classi sociali, i partiti politici e le divisioni religiose22.

 

[I metodisti] rigenerarono la Chiesa d’Inghilterra […] Essi ebbero addirittura un’influenza sui liberi pensatori, che in seguito si trattennero dal criticare la dottrina cristiana per dedicarsi all’economia politica e alla filantropia. Utilitaristi ed evangelici accettarono di lavorare insieme per la libertà del commercio, per l’abolizione dello schiavismo, per la riforma della legge penale e dell’organizzazione delle prigioni23.

I liberi pensatori, in associazione con i filantropi del movimento evangelico, lavoravano per il miglioramento materiale e morale dei poveri. Nel frattempo, venivano “convertiti” alla filantropia attraverso l’influenza dei predicatori metodisti24.

 

Questo non significa che il risultato fosse una società ideale. «In base a criteri posteriori, certo, le riforme, le società e le istituzioni che riflettevano quest’etica appaiono tristemente inadeguate […] L’Età della Benevolenza aveva ovviamente il suo rovescio della medaglia. Se essa produsse una generazione di riformatori e di spiriti umanitari fu in parte perché c’erano così tante cose da riformare, ed ancor più ce n’erano che offendevano la sensibilità di una persona umana»25.

Per i criteri odierni la Gran Bretagna del XVIII secolo era in effetti piuttosto brutale, un luogo in cui la pena capitale si applicava anche a reati minori, sebbene l’effettivo numero delle esecuzioni si fosse ridotto della metà dagli anni 1590. Comunque, in generale, il tasso di criminalità era abbastanza basso, malgrado la scarsa organizzazione nell’applicazione delle leggi, e il tasso di omicidi era diminuito bruscamente, dalla fine del XVI secolo, fino a raggiungere valori prossimi a quelli moderni. Le associazioni per la promozione del  benessere sociale miravano ad ottenere un miglior trattamento per i criminali, sebbene proliferassero mali sociali come l’alcolismo, cosa questa che forse indica come i controlli sociali tradizionali delle comunità rurali si stessero dissolvendo man mano che le persone andavano a cercare lavoro nelle aree urbane.

L’accento posto sulle riforme sociali si accompagnava all’utopismo morale, ossia alle ideologie esplicite relative a come costruire la società ai fini del bene morale che sono state menzionate nel capitolo 6 come particolarmente caratteristiche degli intellettuali di origine puritana nell’America del XIX secolo. Gli abolizionisti inglesi elaborarono modelli ideali di comunità per gli schiavi liberati. Ad esempio, Granville Sharp concepì una società utopica nella quale schiavi liberati e bianchi si sarebbero stabiliti in Sierra Leone26; la comunità sarebbe stata governata dagli schiavi liberati, col consenso degli autoctoni africani. «Tutto ciò era assai più idealistico di molte altre comunità utopiste: Brook Farm nel Massachusetts, ad esempio, non invitò mai gli indiani d’America ad unirsi a lei». La comunità [di Sharp, n. d. t.] quale effettivamente si realizzò ebbe una bandiera raffigurante due mani, una bianca e una nera, che si stringevano; almeno la metà dei membri delle giurie doveva essere della stessa razza dell’imputato; si occupavano del lavoro sia i bianchi che i negri. La cosa non finì bene27 e la Sierra Leone finì col diventare una colonia britannica.

 

La psicologia dell’altruismo e dell’universalismo morale.

 

Esistono in effetti forti correnti culturali che si oppongono alla possibilità dell’altruismo e che comprendono non solo quello che si potrebbe chiamare il pensiero evoluzionista tradizionale avente al suo centro l’interesse egoistico (che abbiamo sintetizzato in precedenza) ma anche l’ideologia marxista, che negli ultimi decenni ha spesso influenzato il dibattito. Il marxismo implica l’interesse egoistico di ciascuna classe sociale e vede nell’ideologia nulla più che un riflesso degli interessi di classe. I marxisti sono per loro natura scettici circa il fatto che possa esistere un movimento guidato da persone che non abbiano nulla da guadagnarci e ritengono che se una tale impresa avesse successo, essa avrebbe un costo per la società nel suo insieme. Ad esempio il testo di Eric William, Capitalism and Slavery [Capitalismo e schiavismo, n. d. t.] del 1944 propone una spiegazione marxista che sostiene che la campagna per porre fine allo schiavismo sorse quando fu economicamente vantaggiosa, perché le colonie avevano perso valore28. Questa interpretazione è stata respinta in base a recenti ricerche secondo le quali le colonie conservarono di fatto il loro valore fino al XIX secolo inoltrato29.

Dato che il mondo accademico contemporaneo è decisamente orientato a sinistra ed è fortemente critico nei confronti dell’impero e della cultura tradizionale britannica, non sorprende che le basi umanitarie del movimento siano «sempre più trascurate e da tempo screditate»30. Ciò nondimeno, uno psicologo evoluzionista contemporaneo non deve necessariamente sposare l’idea che l’interesse egoistico sia inevitabile. Come osserva Christopher Lee Brown,

 

un atteggiamento prudente [riguardo all’imperscrutabilità delle motivazioni] ha il suo senso, ma nella pratica tale atteggiamento tende a chiudere le indagini proprio quando queste dovrebbero cominciare. Quando ci chiediamo il perché dell’abolizionismo, perché individui e gruppi si siano organizzati contro la tratta degli schiavi, non ci poniamo domande che riguardano solamente i processi macrostorici e il contesto. Ci poniamo anche domande sulle motivazioni, sulle decisioni ad agire. Questo problema non può essere eluso. Se la risposta alle domande sulle motivazioni deve rimanere incompleta, com’è destinata ad essere, eludere il problema incoraggia (com’è avvenuto nella maggior parte degli studi pubblicati sugli abolizionisti) spiegazioni implicite o sbrigative del comportamento individuale e collettivo che si limitano a presupporre o ad affermare le motivazioni nobili (o spregevoli) dei personaggi in questione […] Per affrontare il problema delle motivazioni, dobbiamo riesaminare le intenzioni degli evangelici31.

 

Questo non significa sostenere che coloro che furono coinvolti nel movimento antischiavista furono motivati soltanto dall’altruismo e dall’empatia. Quando il movimento antischiavista prese piede, divenne possibile costruirsi una carriera nel campo dell’attivismo contro la schiavitù, e una volta che si diffuse l’idea che lo schiavismo era un male, la gente potè esibire la propria virtù e migliorare la propria reputazione opponendosi ad esso a gran voce.

Inoltre, come si vedrà più vanti, mentre non possono esserci dubbi sul fatto che il reverendo Thomas Clarkson, il più efficace e famoso abolizionista, provasse un sincero sentimento di empatia nei confronti degli schiavi, egli possedeva anche un eroico senso di ambizione che era estraneo ai quaccheri in mezzo ai quali lavorava; scriveva infatti: «Grandiosa nell’ambizione, visionaria nello scopo, esigente nell’esecuzione e quasi impossibile da conseguire, e tuttavia di buoni principi nel fine, altruistica nello spirito e piacevole alla contemplazione: cos’altro potrebbe essere più eroico di una vita dedicata all’abolizione della tratta degli schiavi e alla fine dello schiavismo?»32.

Brown descrive diverse figure di antischiavisti che avevano un analogo senso eroico dell’ambizione messo al servizio della causa della rettitudine morale33. Tali motivazioni richiamano la descrizione fatta da Ricardo Duchesne dell’ethos dei guerrieri IE, con l’enfasi che esso poneva sull’azione eroica e sulla fama imperitura quali elementi fondamentali dello spirito occidentale: «E’ mia opinione che la cultura aristocratica degli IE fosse dominata da uomini le cui anime erano “troppo allegre, troppo intrepide e troppo indifferenti riguardo alla morte”»34. «L’aggressione espansionista dell’Occidente è un’espressione ineludibile delle sue radici, che affondano in uomini aristocratici liberi e perciò determinati e ambiziosi, sicuri di sé, facili all’offesa e non disposti ad accettare una quieta subordinazione»35.

Quanto segue descriverà i meccanismi psicologici che possono dare origine ad atteggiamenti e a comportamenti altruistici, soprattutto in persone a ciò già predisposte, meccanismi che saranno utili per spiegare l’idealismo e l’indignazione morale esibiti da un consistente sottoinsieme degli oppositori allo schiavismo. Due meccanismi saranno presi in considerazione: l’emozione dell’empatia e il processo esplicito che rende possibile l’idealismo morale e un comportamento altruistico intenzionale in conformità ad un’ideologia (in questo caso l’ideologia dell’universalismo morale incorporata nel cristianesimo di quel periodo). Si forniranno quindi delle prove del fatto che l’empatia e un’ideologia morale universalista ebbero effettivamente importanza ai fini dell’abolizionismo.

 

Il sistema empatico della personalità.

L’empatia è un’emozione sociale che spinge a prestare aiuto. Gli individui empatici sono fortemente motivati dalle sofferenze degli altri; in effetti, in casi estremi, questi individui sono inclini all’“altruismo patologico”, adottando un comportamento maladattivo, personalmente nocivo o autodistruttivo a beneficio di altri36. I soggetti patologicamente altruisti sono inclini al disturbo dipendente di personalità, caratterizzato da un comportamento autosacrificatorio a vantaggio di altri provocato sia dall’empatia che dal timore di interrompere una relazione intima. «Compiono straordinari sacrifici personali o sopportano abusi verbali, fisici o sessuali»37.

Nella maggior parte delle versioni del modello della personalità a cinque fattori38 le differenze individuali in fatto di empatia sono strettamente collegate a un tratto della personalità come la piacevolezza. Nell’ambito di una rotazione dei fattori prodotta dall’evoluzione, che evidenzia le differenze sessuali nell’adattamento psicologico evolutivamente prevedibili, l’empatia si allinea all’amore / cura, quel sistema della personalità che sta alla base delle relazioni intime e della fiducia evolutosi al fine di cementare gli stretti legami familiari39. Gli individui che si collocano all’estremità superiore della curva di distribuzione di questo tratto sono inclini all’amore e all’intimità, mente quelli all’estremità inferiore tendono alla sociopatia, un tratto che predispone alla freddezza verso gli altri, a relazioni finalizzate allo sfruttamento e alla mancanza di senso di colpa o di rimorso nel caso in cui si danneggino gli altri. Mentre i tratti sociopatici sono più frequenti tra gli uomini, l’empatia e il desiderio di essere amati sono più frequenti tra le donne: in media, le donne sono più altruiste ed empatiche degli uomini e attribuiscono maggior valore alle relazioni intime. Nel seguito si mostrerà come gli abolizionisti abbiano fatto appello alle tendenze empatiche del loro pubblico rappresentando graficamente le sofferenze degli schiavi, e che sebbene entrambi i sessi abbiano risposto a questo messaggio, le donne lo fecero in misura maggiore rispetto agli uomini.

Ciò nondimeno, vi sono prove che l’empatia, in sé, può anche non motivare il comportamento altruistico quando il destinatario di tale comportamento è visto come un membro di un altro gruppo. Esistono consistenti risultati di ricerche che collegano l’empatia ai livelli dell’ormone ossitocina. Comunque, l’ossitocina agisce in modo da rendere le persone più altruiste e difensive nei confronti del proprio gruppo, quello che Carsten De Dreu ha denominato “altruismo campanilistico”40. Poiché in questi studi i gruppi non si basano sull’omogeneità etnica, tali risultati possono essere interpretati come un sostegno all’ipotesi che gli individui inclini all’altruismo sarebbero probabilmente portati a sostenere e a difendere gruppi costituiti su una base culturale (p. es. le comunità morali) anche a costo di rimetterci personalmente.

Queste ricerche suggeriscono che una buona strateglia per gli abolizionisti sarebbe stata quella di presentare gli schiavi africani come membri di una comune umanità, dunque come membri del proprio gruppo, piuttosto che di un gruppo estraneo. Nel seguito si addurranno prove che indicano come gli abolizionisti abbiano effettivamente fatto appello alla comune umanità degli schiavi africani. Per il reverendo James Ramsey, il faro intellettuale degli anglicani evangelici, il senso dell’opposizione allo schiavismo era di «guadagnare alla società, alla ragione, alla religione mezzo milione di individui del nostro genere, adatti quanto noi a progredire in ogni arte e scienza che può distinguere uomo da uomo, capaci come noi di guardare al futuro e di goderne»41. Similmente, il summenzionato reverendo Thomas Clarkson si riferiva agli schiavi come a «fratelli oppressi»42.

 

Idealismo morale e ideologia dell’universalismo morale.

 

Altri meccanismi rilevanti per la psicologia umana dell’altruismo sono quelli che rendono possibile l’idealismo morale che, come si è visto nel capitolo 6, ha giocato un ruolo tanto importante nel puritanesimo. Questa analisi si basa sulle ricerche psicologiche esaminate nel capitolo 5, che indicano due tipi molto differenti di processo psicologico, quello implicito e quello esplicito. Il processo esplicito è coinvolto nella regolazione delle emozioni ed è fondamentale ai fini dell’intelligenza generale43.

L’idealismo morale è possibile per via della capacità che le rappresentazioni esplicite delle idee morali hanno di controllare la psicologia modulare del ragionamento e del comportamento morali (cioè gli stati emotivi e le tendenza all’azione mediati dal processo implicito frutto dell’evoluzione e avente sede nel cervello inferiore)44. Per esempio, gli individui sono in grado di sopprimere, attraverso uno sforzo, le tendenze etnocentriche che hanno origine nella parte inferiore e modulare del cervello45. Perciò, in condizioni sperimentali, alcuni soggetti bianchi cui venivano mostrate fotografie di negri avevano una risposta meno negativa quando le fotografie venivano presentate per un tempo abbastanza lungo affinchè potesse aver luogo un processo esplicito46. Altre ricerche indicano come le persone possano sopprimere emozioni morali come l’indignazione, empatia e il senso di colpa. Ad esempio Alan Sanfey et al. hanno mostrato come i meccanismi di scelta razionale prefrontali possano sopprimere il sentimento di indignazione nei confronti di soggetti che facciano offerte non eque nel gioco dell’ultimatum (si può presumere che si tratti di un meccanismo modulare che promuove l’interesse personale producendo irritazione nei confronti di coloro che si comportano slealmente)47. Inoltre, le emozioni morali come l’empatia possono essere scavalcate da preoccupazioni di carattere utilitaristico: i soggetti prenderanno decisioni che passeranno sopra la preoccupazione per una particolare vittima qualora a beneficiarne siano più persone48.

Date le scoperte di carattere generale in base alle quali le idee rappresentate in modo esplicito sono in grado di sopprimere emozioni di indignazione morale e di empatia, è facile arrivare a supporre che un ideale morale possa anche spingere le persone a controllare i sistemi modulari subcorticali (che inducono  all’egoismo) indipendentemente dall’interesse personale o da considerazioni utilitaristiche49.

La letteratura psicologica dunque offre sostegno alla possibilità dell’idealismo morale. Una struttura del genere può essere osservata nella letteratura abolizionista. Per esempio, l’influente scrittore abolizionista Anthony Benezet, un quacchero, sottolineava la necessità di sopprimere l’orgoglio umano e il desiderio di successo mondano impegnandosi in opere caritatevoli50. Come altri quaccheri, Benezet non vedeva l’opposizione allo schiavismo in termini di ambizione personale: «Come la maggior parte dei quaccheri, Anthony Benezet mostrava scarso interesse all’autopromozione. Anonimo e privo di carisma, era più interessato alla carità che a dare smalto alla propria reputazione»51.

Questo implica che il comportamento altruistico sia possibile grazie al potere del processo esplicito su quello implicito; le tentazioni mondane implicate dallo schiavismo (cupidigia, controllo sugli altri) potevano venire soppresse, proprio com’è possibile sopprimere il comportamento orientato alla ricompensa, l’aggressione e l’etnocentrismo52. Il processo esplicito è in grado di controllare le emozioni morali egoistiche in funzione di un ideale morale, anche altruistico. Nel seguito verranno esaminate prove fornite dalla documentazione storica, ad indicare come l’idealismo morale fosse parte del concetto di sé degli abolizionisti.

Le ideologie sono una forma particolarmente importante di processo esplicito che può avere come risultato un controllo del comportamento che agisce da un livello superiore a uno inferiore. Ciò vuol dire che le rappresentazioni esplicite del mondo (come ad esempio una teoria dei costi e dei benefici mediata dal linguaggio umano e dalla capacità umana di creare rappresentazioni esplicite degli eventi) possono motivare il comportamento. Ciò è suggerito, ad esempio, dallo studio di Sanfey et al. menzionato in precedenza: le persone possono decidere razionalmente di agire in modo opposto alle loro inclinazioni morali. Le ideologie sono credenze coerenti ed esplicitamente professate, associate alla corteccia prefrontale che è in grado di  controllare il comportamento e le predisposizioni derivanti dall’evoluzione, le quali, in assenza di controllo prefrontale, sono un prodotto involontario del cervello inferiore53. Esse non sono necessariamente adattive54. Le ideologie caratterizzano spesso i sottogruppi formatisi su base volontaria all’interno di una società (p. es. chiese, partiti politici o il movimento abolizionista negli Stati Uniti o in Gran Bretagna). E per finire, le ideologie spesso razionalizzano il controllo sociale (p. es. la razionalizzazione marxista a sostegno di una “dittatura del proletariato” che vorrebbe sradicare con la forza il dissenso rispetto all’ortodossia politica); a sua volta, l’accettazione sociale delle ideologie può venire rafforzata da tale controllo (p. es. l’imposizione dell’insegnamento del marxismo nel sistema educativo).

Nel seguito descriverò le ideologie degli abolizionisti e in particolare le ideologie religiose che concettualizzano tutti gli esseri umani come creature di Dio, dotate di uguali capacità naturali e candidate  alla salvezza eterna. E’ abbastanza chiaro come lo scopo del movimento abolizionista fosse quello di attuare controlli sociali che suscitassero opposizione alla tratta degli schiavi e allo schiavismo. Le ideologie del movimento abolizionista razionalizzavano tali controlli.

Mettendo insieme le osservazioni fatte nella presente sezione con quelle precedenti realtive alle basi dell’empatia nella personalità, ci aspetteremmo che i soggetti portati all’empatia (che presentano tratti pronunciati di amore / cura) siano altresì inclini a un idealismo morale che promuove un comportamento volto ad alleviare le altrui sofferenze. Comunque, un’ideologia moralmente idealistica può avere un ruolo indipendente e facilitare un comportamento positivo verso gli altri anche in assenza di forti tendenze all’empatia; ed è certamente vero anche il contrario: i soggetti inclini all’empatia possono cercare di alleviare le sofferenze altrui anche senza sottoscrivere un’ideologia esplicita che li esorti a farlo.

 

Precedenti filosofici.

 

Un vantaggio degli abolizionisti era che potevano far riferimento all’autorità di filosofi influenti e famosi che nell’insieme avevano modificato l’opinione delle élite nella direzione di un apprezzamento dell’empatia. Il libro di Gertrude Himmelfarb, The Roads to Modernity: The British, French and American Enlightenments [Strade per la modernità: l’illuminismo britannico, francese e americano, n. d. t.] descrive l’illuminismo britannico come una «sociologia della virtù», in contrasto con quello francese che l’autrice caratterizza come «ideologia della ragione»55. La caratteristica centrale dell’illuminismo britannico era l’accettazione di un’etica «derivante da un senso morale che ispirava simpatia, benevolenza e compassione per gli altri»56. «La filosofia morale britannica […] era riformista più che sovversiva, rispettosa del passato e del presente pur guardando ad un futuro più illuminato. Era anche ottimista e, almeno sotto questo aspetto, egualitaria, essendo il senso morale e il senso comune condivisi da tutti gli uomini e non soltanto da quelli istruiti e di nobili natali»57:

 

Il “senso morale” o “sentimento morale”, le “virtù sociali” o “affetti sociali”, le idee di “benevolenza”, “simpatia”, “compassione”, “affinità” erano termini che definivano la filosofia morale che stava al centro dell’illuminismo britannico […] Era questo ethos che trovava espressione pratica nei movimenti riformatori e nelle iniziative filantropiche che fiorirono nel corso del secolo culminando in quella che l’autrice evangelica Hannah Moore descrisse (in termini non del tutto elogiativi) come “l’Età della Benevolenza” e che una storica posteriore definì “il nuovo umanitarismo”58.

 

Hannah Moore (ca. 1746 – 1833) fu una commediografa che scrisse anche su argomenti morali e religiosi; fu anche un’abolizionista appartenente all’anglicanesimo evangelico, che verrà esaminato più avanti per il suo ruolo di primo piano nell’abolizionismo. La “storica posteriore” menzionata da Himmelfarb è Mary Gwladys Jones, il cui libro del 1983, The Charity Schoool Movement: A Study of Eighteenth-Century Puritanism in Action [Il movimento della Scuola di Carità: studio sull’azione del puritanesimo nel XVIII secolo. n. d. t.] descrive le radici puritane dell’Età della Benevolenza e verrà preso in esame nel seguito59.

In effetti era comune tra gli abolizionisti citare filosofi quali Montesquieu, David Hume e Adam Smith60. Hume riteneva che il senso morale fosse comune a tutti gli uomini. Alla radice del senso morale stava la simpatia, la «fonte principale dei giudizi morali» nonché «del bene pubblico»61 e del «bene dell’umanità»62. Nel suo Trattato sulla natura umana, Hume sostenne che tutti gli esseri umani sono sensibili alle emozioni positive e che tali emozioni hanno come effetto emozioni simili negli altri, ciò che gli psicologi moderni definiscono contagio emotivo:

 

Le menti di tutti gli uomini sono simili nei loro sentimenti e nelle loro operazioni; né una può essere mossa da un’affezione alla quale tutte le altre non siano, in una certa misura, sensibili. Come nel caso di corde accordate sulla stessa nota, il moto di una si comunica alle altre; così tutte le affezioni passano rapidamente da una persona all’altra e producono moti  corrispondenti in ogni creatura umana63.

 

Nella Ricerca sui principi della morale Hume pone l’accento sulla «generale benevolenza» o «benevolenza disinteressata», vale a dire senza preoccupazione per il tornaconto personale.

 

Sembra che una tendenza verso il bene comune e la promozione della pace, dell’armonia e dell’ordine nella società ci faccia sempre schierare, toccando i principi benevoli della nostra natura, dalla parte delle virtù sociali64.

Vi è una qualche benevolenza, per quanto piccola, infusa nel nostro petto; qualche scintilla di amicizia per il genere umano; qualche particella di colomba frammista a quelle del lupo e del serpente65.

 

L’opera famosa e assai stimata di Adam Smith, la Teoria dei sentimenti morali (1759) pone anch’essa in evidenza il contagio morale, ma menziona altresì i sentimenti di piacere per la felicità degli altri, l’empatia per le loro sofferenze, la capacità umana di controllare l’egoismo e il desiderio di conseguire una reputazione di persona moralmente virtuosa:

 

Per quanto egoista possa essere considerato l’uomo, esistono evidentemente nella sua natura alcuni principi che lo fanno interessare alla fortuna degli altri e fanno sì che la loro felicità gli sia necessaria, sebbene da ciò egli non ricavi nulla al di là del piacere di assistervi. A questi appartengono la pietà e la compassione, le emozioni che proviamo nei confronti della infelicità degli altri quando la vediamo o quando ci viene rappresentata in maniera molto vivace [p. es. attraverso le rappresentazioni grafiche delle sofferenze degli schiavi utilizzate dagli abolizionisti] […] Tramite l’immaginazione ci mettiamo nella loro situazione […] è come se entrassimo nel loro corpo e diventassimo in una certa misura la stessa persona66.

 

Da ciò deriva altresì che provare un forte sentimento per gli altri ed uno più debole per se stessi, limitare il proprio egoismo [attraverso un atto volontario, come descritto in precedenza67] e indulgere alle nostre affezioni benevole costituisce la perfezione della natura umana68.

 

L’uomo, per sua natura, desidera non soltanto di essere amato, ma di essere piacevole […] Egli teme, per sua natura, non soltanto di essere odiato, ma di essere odioso […] Egli desidera non solo la lode, ma anche di esserne degno69.

 

Smith dunque pone l’accento sulle emozioni morali piuttosto che su regole di giustizia astratte basate sulla ragione. Le teorie sulle emozioni morali, inoltre, erano separate dalla religione e pertanto esercitavano un’attrazione nei confronti delle élite di mentalità più laica, che guardavano con disprezzo all’entusiasmo degli anglicani evangelici e dei metodisti70, per non dire dei quaccheri. Smith era un ardente oppositore dello schiavismo che nel 1759 aveva definito i proprietari di schiavi delle colonie «gli avanzi di galera d’Europa». Chiamandoli «mascalzoni», aveva scritto: «la fortuna non ha mai esercitato la propria sovranità sugli uomini in maniera più crudele che quando ha sottomesso quelle nazioni di eroi [gli africani] alla frivolezza, alla brutalità e alla bassezza morale» dei coloni britannici d’America71.

Poiché questa impostazione culturale dominava la maggior parte dei circoli intellettuali della società britannica, fu facile agli abolizionisti trovare un argomento morale credibile.  L’opposizione allo schiavismo può essere facilmente vista come un esempio della benevolenza disinteressata di Hume e della compassione universale per le sofferenze degli altri di Smith. Inoltre era arduo difendere lo schiavismo quando «i testi guida dell’illuminismo [come Lo spirito delle leggi di Montesquieu e l’Encyclopédie] sottoponevano sempre più la schiavitù umana ad una forte critica. Sarebbe stato difficile […] verso la metà del XVIII secolo, trovare nelle Isole Britanniche molte persone disposte a descrivere lo schiavismo nelle colonie e la tratta atlantica come simboli del progresso sociale, culturale o morale»72. «Divenne più comune dubitare della moralità del sistema schiavistico perché così facevano certi intellettuali e perché eminenti teologi, filosofi e storici sollevavano domande imbarazzanti riguardo alla moralità e alle basi giuridiche su cui quel sistema si reggeva»73.

 

 

Empatia e abolizionismo.

 

Il movimento abolizionista richiamò chiaramente l’attenzione sulle sofferenze degli schiavi. «In Gran Bretagna la campagna per l’abolizione dello schiavismo, come gli altri movimenti riformatori, non era mossa da una “volontà razionale”, bensì dallo zelo umanitario, dalla compassione più che dalla ragione»74. Il movimento comprese che «il modo per stimolare uomini e donne all’azione non era l’impiego degli argomenti biblici, ma la vivida, indimenticabile descrizione di atti di grande ingiustizia compiuti nei confronti dei loro fratelli umani [«in maniera molto vivace», come scriveva Adam Smith (si veda sopra)]. Gli abolizionisti riposero le loro speranze non nei testi sacri, ma nell’empatia umana»75. Sebbene si impiegassero anche argomenti di carattere pratico (p. es. che i proprietari di schiavi avrebbero tratto beneficio dall’abolizione della tratta) l’empatia suscitata dalla raffigurazione delle sofferenze degli schiavi non fu soltanto lo strumento principale con cui gli abolizionisti fecero appello alle masse: essa fu evidente anche nelle figure chiave del movimento. Mentre svolgeva ricerche per il suo saggio, che vinse un premio all’università di Oxford75a nel 1785, il reverendo Thomas Clarkson «si sentì sopraffare dall’orrore»76; il suo saggio mostra una «sincera indignazione nei confronti dello schiavismo»77.

Questa empatia in attivisti come Clarkson era evidente agli occhi degli osservatori. Il poeta e filosofo Samuel Taylor Coleridge scrisse, a proposito di Clarkson: «Nulla può superare la bellezza morale del modo in cui egli […] riferisce circa la parte da lui avuta in quella guerra immortale […] [Clarkson è] una macchina a vapore morale»78.

Chiaramente, le emozioni di Clarkson non erano di natura religiosa, ma empatica. Egli trascorse molto tempo viaggiando attraverso l’Inghilterra impegnato a trovare esempi e testimoni delle crudeltà compiute non solo nei confronti degli schiavi, ma anche dei marinai delle navi negriere. Una famosa medaglia che raffigura uno schiavo inginocchiato reca la scritta: «Non sono anch’io un uomo e un fratello?». «Riprodotta ovunque, dai libri e volantini alle tabacchiere e ai gemelli per polsini, l’immagine ebbe un successo immediato»79. Un’altra immagine molto efficace nel produrre empatia fu il disegno di una nave negriera, la H. M. S.

Brookes, che mostrava gli spazi molto angusti occupati dagli schiavi durante il loro viaggio verso le Indie Occidentali. Questa immagine venne utilizzata nel corso dei dibattiti parlamentari sullo schiavismo e fu inclusa nell’opera di Clarkson intitolata Abstract of the Evidence delivered before a select committee of the House of Commons in the years 1790 and 1791, on the part of the petitioners for the Abolition of the slave trade [Sintesi delle prove presentate ad un comitato scelto della Camera dei Comuni negli anni 1790 e 1791 da parte dei latori della petizione per l’abolizione della tratta degli schiavi, n. d. t.] che vendette diverse centinaia di migliaia di copie. Più che ai sentimenti religiosi, il documento si dedica alla descrizione dettagliata delle sofferenze degli schiavi «con particolari raccapriccianti»80. L’appello era rivolto all’empatia dei lettori.

Tra gli attivisti era comune affermare che se la gente avesse saputo ciò che veramente accadeva nella tratta degli schiavi avrebbe simpatizzato per l’abolizionismo. Un altro importante attivista, Granville Sharp, osservò: «Siamo chiaramente dell’opinione che la natura della tratta degli schiavi debba solo essere conosciuta per essere detestata»81, un commento che presuppone le capacità empatiche del suo uditorio. Riguardo a questo «enorme male» Clarkson scrisse di essere «sicuro che agli abitanti di queste isole privilegiate sarebbe bastato soltanto conoscerlo per provare verso di esso una giusta indignazione»82. Come risultato di questi sforzi, l’abolizione della tratta degli schiavi era già popolare tra il pubblico assai prima di diventare una legge, nel 1807. In effetti, già negli anni 1787-1788 «se la questione avesse potuto essere decisa dalla pubblica opinione, la tratta degli schiavi sarebbe stata abolita immediatamente»83. Un contemporaneo stimò che 300.000 britannici avessero rinunciato allo zucchero per ragioni morali; un altro valutò il loro numero a 400.000. Oulaudah Equiano, un ex schiavo, compose un’autobiografia che descriveva la crudeltà dello schiavismo e della tratta degli schiavi, opera che divenne un best-seller. Nel 1788, Joseph Wool, mercante e abolizionista quacchero, scrisse che «il popolo britannico era come legna che ha preso immediatamente fuoco a partire dalla scintilla di informazione che l’ha raggiunta»84. Nell’aprile del 1788 un attore in tournée scrisse che «le principali città britanniche per le quali era passato avevano “preso fuoco” a proposito dello schiavismo»85. Quando la tratta fu infine abolita, la forza motrice non era stata il governo; un articolo dell’Edinburgh Review affermò che «il sentimento della nazione ha imposto l’abolizione ai nostri governanti»86.

 

Empatia e opposizione ideologica allo schiavismo: quaccheri, anglicani evangelici e metodisti.

 

Nel XVIII secolo i sentimenti antischiavisti venivano spesso espressi piuttosto chiaramente, e in effetti sembra siano stati alquanto diffusi, in attesa soltanto di un movimento organizzato e di una maggior democratizzazione delle istituzioni politiche per esercitare un effetto sulla politica pubblica.

 

In Gran Bretagna i mercanti di schiavi incontrarono la pubblica disapprovazione già all’inizio del XVIII secolo, decenni prima che emergessero quei movimenti culturali cui spesso si attribuisce il merito di aver prodotto un sentimento antischiavista, e decenni prima del culmine della rinascita evangelica o dell’illuminismo europeo, o dell’’emergere di un culto della sensibilità […]. Nel 1776 un propagandista della Royal Africa Company osservava che «molti hanno pregiudizi contrari alla tratta e pensano che quello del commercio dei negri sia un traffico barbaro, disumano e illegale per un paese cristiano»87.

 

Queste osservazioni sull’opposizione allo schiavismo sono fatte in modo sbrigativo, il che mostra che l’autore considerava diffusi i sentimenti antischiavisti. Inoltre «verso la metà del XVIII secolo una cultura della simpatia rese sempre più di moda rappresentare gli schiavi africani in maniera romantica, come esempi di innocenza violata»88. Durante la guerra rivoluzionaria americana i sostenitori della Gran Bretagna sottolineavano l’ipocrisia della retorica della libertà americana in un contesto schiavista. Gli americani controbattevano che i britannici non erano certo estranei alla pratica e che in definitiva erano i responsabili dello schiavismo in America. Gli elementi antischiavisti americani (specialmente i quaccheri e i discendenti dei puritani del New England) evidenziavano come lo schiavismo fosse in effetti incompatibile con gli ideali americani89.

Malgrado ciò, non si ebbe un movimento effettivo fino agli anni 1780. A quell’epoca divenne possibile concepire una carriera come attivista antischiavista:

 

Negli anni 1780 condannare lo schiavismo per principio e le istituzioni coloniali nella pratica era divenuto il segno distintivo di un cristiano illuminato e umano. A partire dalla metà del secolo romanzieri come Sarah Scott e Laurence Sterne avevano presentato l’uomo e la donna di sentimento, con la loro caratteristica simpatia per l’africano, come esempi di virtù morale. Mancava soltanto un piccolo passo per vedere come l’opposizione attiva allo schiavismo avrebbe potuto essere usata come un mezzo per dimostrare il valore morale dell’individuo [segnalazione morale] una volta che tale scopo avesse smesso di essere associato ad un idealismo senza speranze90.

 

Sebbene gli atteggiamenti antischiavisti fossero molto influenzati dall’empatia per le sofferenze degli altri e non fossero necessariamente collegati a una forte credenza religiosa, gli attivisti e le organizzazioni chiave, riflettendo in ciò senza dubbio la generale religiosità dell’epoca, avevano evidenti legami con gruppi religiosi: quaccheri, anglicani evangelici e metodisti. Un’eccezione è rappresentata forse da Granville Sharp, anglicano della High Church e uno dei primi attivisti contro lo schiavismo. Così come gli anglicani evangelici (p. es. James Ramsey) Sharp era motivato dal fervore morale cui si mescolava la preoccupazione per gli effetti dello schiavismo sulla vita nell’aldilà. «Quando credeva che qualcosa fosse male si metteva in marcia con fiducia per affrontare personalmente il malfattore»91. La tratta degli schiavi e lo schiavismo delle colonie avevano portato alla Gran Bretagna «un disonore indelebile», una «famigerata malvagità»92; «essere al potere e trascurare (la vita essendo molto incerta) anche per un solo giorno l’impresa  di porre fine ad una tale mostruosa ingiustizia e sfrenata malvagità deve necessariamente mettere in pericolo la vita eterna di un uomo»93. Per Sharp l’opposizione allo schiavismo era un dovere morale, profondamente radicato nella sua visione del mondo; «egli non potè mai considerare di vincolare un uomo in termini diversi da quelli morali»94. Brown colloca Sharp nel contesto del calvinismo del New England95. Come si è visto nel capitolo 6 e si vedrà più avanti, negli Stati Uniti l’eredità dei puritani del New England generò la più potente opposizione allo schiavismo nel periodo che precedette la Guerra Civile. Come i quaccheri e le donne anglicane evangeliche, Sharp sembra non aver avuto interesse all’autopromozione e, di norma, evitò la ribalta96.

 

I quaccheri.

I quaccheri di Philadelphia concepirono presto un’antipatia nei confronti dello schiavismo, manifestandola apertamente nel 175497 ed espellendo i proprietari di schiavi negli anni 1760 e 177098. I quaccheri degli Stati Uniti liberarono i loro schiavi e alcuni di loro pagarono dei risarcimenti. I quaccheri americani fecero pressioni sui loro confratelli / correligionari britannici affinchè assumessero un ruolo più attivo nell’abolizionismo99.

In Gran Bretagna le organizzazioni e il denaro dei quaccheri ebbero «un’importanza critica» nelle prime campagne del 1787-1788; essi furono «i principali campioni della libertà per gli africani resi schiavi»100. Nel 1783 i quaccheri, che contavano all’incirca 20.000 membri, diedero inizio ad un’energica campagna contro lo schiavismo che portò alla prima petizione presentata alla Camera dei Comuni quello stesso anno, al primo comitato antischiavista (che cominciò ad operare nel 1783 ma incluse anche la “Società per l’attuazione dell’abolizione della tratta degli schiavi”, assai influente e fondata nel 1787) e alla stampa e diffusione della letteratura antischiavista. I quaccheri svolsero la gran parte dell’opera pratica e quotidiana della Società e furono una delle sue principali fonti di finanziamento.

«I propagandisti quaccheri influenzarono l’informazione disponibile al pubblico dei lettori dopo il 1783»101.

Distribuirono anche in maniera aggressiva la loro letteratura sia tra i membri dell’élite (per esempio  tra i personaggi politici) che tra il popolo (ad esempio tramite articoli sui giornali della provincia privi di  riferimento ai quaccheri come autori, un metodo che «permise loro di dissimulare in quale misura l’improvvisa comparsa dei sentimenti antischiavisti sulla stampa rifletteva l’iniziativa dei quaccheri»102). «Dozzine di quaccheri in tutta l’Inghilterra dedicarono innumerevoli ore, nel 1784 e nel 1785, a far pervenire la letteratura antischiavista nelle giuste mani»103. A cominciare dagli anni 1780 tutta la letteratura antischiavista fu stampata dal quacchero James Phillips, di regola col supporto finanziario di altri quaccheri. Le opere del quacchero di Philadelphia Anthony Benezet ebbero un’importanza fondamentale e furono spesso citate da altri scrittori; Maurice Jackson dà alla sua biografia di Benezet il sottotiolo: «Il padre dell’abolizionismo atlantico»104. Benezet scrisse che lo schiavismo e la tratta erano «malvagità prodigiose» e «prodigiose iniquità»105.

I quaccheri erano un gruppo marginale nella società britannica: «Erano marginalizzati perché non potevano ricoprire cariche, dato che solo i membri [della Chiesa d’Inghilterra] potevano farlo. Erano spesso canzonati e “derisi come tipi strambi e senza alcun potere”»106. Brown sostiene che i quaccheri abbiano fatto uso del pubblico consenso contro lo schiavismo che era venuto manifestandosi negli anni 1780 come mezzo per ottenere un maggiore accettazione107. Essi furono, in effetti, molto lodati per aver presentato una petizione antischiavista alla Camera dei Comuni: «Questi riconoscimenti incoraggiarono gli “Amici” a presentarsi come attivisti morali e ad indossare il manto dei crociati della giustizia e della virtù»108. L’opposizione allo schiavismo divenne un aspetto centrale dell’identità quacchera: «L’impegno contro “l’avarizia dell’uomo ingiusto” rafforzò il legame di appartenenza religiosa e instillò il senso di uno scopo collettivo»109.

Elizabeth Hayrick, una convertita al quaccherismo, fu un’efficace sostenitrice dell’abolizionismo. In generale, l’abolizionismo era molto popolare tra le donne e molte di loro erano impegnate nella propaganda di strada distribuendo letteratura, ecc. Le società femminili erano «quasi sempre più audaci di quelle maschili»110. Furono le donne a mantenere vivo il movimento quando esso perse vigore negli anni 1820 e al principio degli anni 1830.

L’ideologia religiosa dei quaccheri è il non plus ultra dell’universalismo morale; essi «credevano che la

“luce interiore” della rivelazione divina brillasse egualmente sugli uomini di ogni razza o classe»111. Per Benezet l’eguaglianza tra gli uomini «era un fatto ontologico più che una dottrina o una massima filosofiche»112; oltre a preoccuparsi per gli schiavi africani, egli estese il proprio interessamento al bene degli indiani d’America e dei poveri di Philadelphia. Una dichiarazione sottoposta al parlamento da un sottocomitato quacchero recava il titolo: The Case of Our Fellow-Creatures, the Oppressed Africans [La questione dei nostri simili, gli africani oppressi, n. d. t.]113.

I quaccheri erano anche fortemente egualitari: erano «democratici e non gerarchici»114, non avevano vescovi né ministri del culto ordinati e chiunque (comprese le donne) aveva diritto di parola. Com’è tipico dei gruppi egualitari (cfr. il capitolo 3) le scelte politiche passavano attraverso il consenso dell’intera assemblea. In generale, i quaccheri erano persone di successo sul piano economico, una classe mercantile in grado di devolvere consistenti risorse alla causa dell’attivismo antischiavista115. Pur avendo avuto inizio come un gruppo marginale, ampiamente deriso per i loro costumi (i primi quaccheri della metà del XVII secolo si mostravano a volte nudi in pubblico116) essi crearono alla fine una religione (come gli unitariani, derivati dai puritani) i cui membri appartenevano all’élite urbana e degli affari con «alcuni dei nomi più famosi dell’ambiente imprenditoriale e finanziario britannico»117.

Già agli inizi del XVIII secolo le preoccupazioni dei quaccheri andavano al di là delle considerazioni di carattere utilitaristico (quali ad esempio i pericoli connessi al possesso dei schiavi):

 

I moralisti quaccheri, da William Edmundson a Johm Woolman, insistevano sulla contrapposizione tra lo schiavismo e i principi fondamentali della giustizia, della morale e della rettitudine. Questo atteggiamento riflette in parte la peculiare mentalità della fede quacchera. Più di ogni altra setta i quaccheri tentarono di tradurre in pratica i principi egualitari impliciti nell’ala radicale della Riforma protestante. Gli “Amici” sapevano che Cristo aveva prescritto la compassione per il debole. E sapevano che la violenza necessaria ad istituire e a mantenere lo schiavismo era in conflitto con il loro peculiare impegno pacifista […] Ponevano un particolare accento sulla rinuncia ai lussi mondani, sul dimostrare nella vita di ogni giorno il rifiuto dell’avidità e dell’interesse egoistico118.

 

Come osservato in precedenza, Woolman, noto come «la quintessenza del quacchero», si sentiva in colpa per la preferenza accordata ai propri bambini piuttosto che a quelli che vivevano all’altro capo del mondo119.

 

Gli anglicani evangelici.

Gli anglicani evangelici erano motivati da un’indignazione morale verso lo schiavismo cui si univano forti implicazioni ideologiche basate su una visione religiosa del mondo. A differenza dei quaccheri o dei metodisti, essi «godevano di una posizione di primo piano e di status sociale»120 e si trovavano pertanto in condizioni migliori per poter modificare la mentalità e il comportamento delle élite. I principali esponenti sono il reverendo Thomas Clarkson (il più importante attivista, scrittore efficace e figura ponte tra gli anglicani evangelici e i quaccheri) il reverendo James Ramsey (lo scrittore a pamphlettista più in vista) William Wilberforce (il capo dello schieramento abolizionista in parlamento) Hannah More (la scrittrice e filantropa che, come osservato in precedenza, fu la prima ad usare l’espressione “Età della Benevolenza”) Beilby Porteus (un influente vescovo anglicano) Elizabeth Bouverie (una facoltosa benefattrice) e l’ammiraglio Charles Middleton con sua moglie Margaret (quest’ultima una ricca e pia benefattrice che «insisteva affinchè Barham Court [la tenuta dei Middleton a Teston] fosse usata come luogo di conversazione sul tema dello schiavismo»121); Margaret è considerata un’influenza formatrice tra gli anglicani evangelici.

Mentre l’empatia nei confronti degli schiavi è piuttosto evidente nei loro scritti e nelle loro dichiarazioni, vi era anche una forte enfasi religiosa, un’ideologia universalista in base alla quale tutti gli esseri umani erano stati creati da Dio come candidati alla salvezza eterna122. «I revivalisti evangelici erano a volte più disposti a trascurare le differenze razziali ed etniche. Tra le sette evangeliche esistevano differenze importanti nella teologia e nella pratica, tuttavia esse possedevano una comune tendenza a presupporre un’eguaglianza spirituale con gli uomini e le donne di razza negra»123.

In effetti nel suo libro An Essay on the Treatment and Conversion of African Slaves in the British Sugar Colonies [Saggio sul trattamento e sulla conversione degli schiavi africani nelle colonie britanniche produttrici di zucchero, n. d. t.] del 1784, il reverendo James Ramsey sottolineava l’eguaglianza morale e intellettuale degli schiavi africani: «Posso confermare la richiesta di un’attenzione da parte nostra proveniente dai negri illustrando le loro capacità naturali e dimostrando come essi siano su un piano di eguaglianza, quanto alla possibilità di conseguire un miglioramento della loro mente, con gli abitanti di qualsiasi altro paese»124. Il libro di Ramsey fu influente e ben recensito nelle pubblicazioni d’élite, ma provocò un «parossismo di indignazione da parte degli interessi che avevano la loro base nelle Indie Occidentali»125. Nel 1788 anche i testi pro-schiavisti ammettevano le premesse morali dell’abolizione con osservazioni del tipo: «nessuno può negare il fatto che la schiavitù sia un male», oppure «nessuno condanna più di me, come proposizione astratta, il potere esercitato sulle vite e sulla proprietà dei propri simili»126. Ciò nondimeno, con l’autorità che gli veniva dalla sua esperienza, essendo vissuto per quasi vent’anni nelle Indie Occidentali ed essendo stato egli stesso un proprietario di schiavi, Ramsey pubblicò delle descrizioni che illustravano l’oppressione degli schiavi e che erano chiaramente concepite per evocare l’empatia. I proprietari di schiavi erano «abituati fin dall’infanzia a scherzare coi sentimenti e a sorridere delle sofferenze dei disgraziati nati per essere gli umili strumenti della loro avarizia e gli schiavi del loro capriccio»127. Egli descrive schiavi che ricevevano «venti colpi con una lunga frusta da carrettiere» per lievi mancanze compiute nello svolgimento del compito quotidiano di raccogliere il foraggio per gli animali domestici128. La frusta da carrettiere, «nelle mani di un conducente esperto, taglia via pezzi di pelle e carne ad ogni colpo; e il disgraziato, dopo questo trattamento, viene rimandato al lavoro, col sole o con la pioggia, e questo peso, talvolta, provoca una sofferenza tale da porre fine alla sua vita e alla sua schiavitù»129. Vi sono descrizioni dettagliate delle punizioni inflitte agli schiavi, spesso per mancanze irrisorie. Vengono anche descritti i pericoli del lavoro nelle piantagioni di canna da zucchero, come il rischio di perdere un braccio nell’utilizzo dei macchinari, rischio aggravato dalla stanchezza degli schiavi privati del sonno dall’eccessivo lavoro.

Ramsey, pur disprezzando l’avidità, sosteneva che migliorare le condizioni degli schiavi sarebbe stato un bene anche per i padroni: «Se l’uomo di sentimento vedrà soddisfatto ogni suo generoso slancio dalla prospettiva che ha aperto, il politico, l’egoista vedrà pienamente realizzati tutti i suoi piccoli desideri di opulenza e di accumulazione»130. Ramsey è anche attento a sottolineare come il suo sia un impegno altruistico e come egli non sia spinto da un qualsivoglia tipo di guadagno o di riconoscimento personale. In effetti, il suo comportamento avrà un costo perché dovrà subire la censura degli altri: «Egli rinuncia al profitto e volontariamente trasferisce ogni credito che può derivarne a colui che lo condannerà»131. Ramsey pertanto vedeva se stesso «come un martire, non come un eroe»132.

In base all’ideologia dell’universalismo morale, la possibilità di condurre gli schiavi nell’ovile cristiano rivestiva un’importanza primaria. Questa ideologia razionalizzava forti controlli sociali miranti a tenere a freno i proprietari delle piantagioni. Gli anglicani evangelici si proponevano di ottenere i loro scopi promuovendo, «nelle parole del vescovo Beilby Porteus, l’istituzione di “leggi fisse” e di una “polizia” per reprimere i proprietari di schiavi che commettevano abusi, nonchè iniziative che avrebbero fornito agli schiavi “protezione, sicurezza, incoraggiamento, miglioramento e conversione”»133. Porteus era stato fortemente colpito dalle descrizioni del trattamento riservato agli schiavi: «per lui il modo in cui venivano trattati gli schiavi britannici era diventato, nel 1784, una misura della virtù collettiva»134.

Riflettendo sul fatto che gli atteggiamenti antischiavisti erano divenuti, negli anni 1780, la tendenza dominante, Brown interpreta il sostegno ad essi fornito dagli evangelici come motivato dal desiderio di ricavare un capitale morale da utilizzare per conseguire i loro obiettivi a più ampio raggio, e cioè di accrescere la pietà e un comportamento moralmente cauto in ambiti diversi135. In altre parole, la causa dell’abolizione aveva raggiunto la dimensione di un imperativo morale, al punto che nel pubblico in generale essa «veniva associata alle buone maniere, alla sensibilità, al patriottismo e alla dedizione alla libertà britannica»136. Poteva pertanto essere utilizzata come un ariete contro l’immoralità in altri ambiti.

Malgrado ciò, il loro attaccamento alla causa abolizionista non era meramente strumentale; era presente una forte motivazione empatica: «il loro orrore per il traffico e la riduzione in schiavitù di esseri umani era autentico»137: un giudizio che certamente appare evidente a chiunque legga i saggi di Ramsey.

 

I metodisti.

L’esplosione del “Nuovo Dissenso” (specialmente il metodismo) dagli anni 1760 agli anni 1840 segnò uno dei mutamenti sociali e culturali più netti nella storia del paese […] Il metodismo fu l’unica denominazione che sicuramente prosperò sul mutamento socio-economico, includendo in ciò la crescita della popolazione, l’industrializzazione, l’emigrazione e la mobilità sociale. Così, nelle sue varie forme, esso divenne il più potente catalizzatore del dissenso culturale in Inghilterra. Le cappelle e le loro scuole domenicali, spesso animate da artigiani e minatori autodidatti, divennero un canale della rivolta contro i proprietari terrieri e i parroci138.

 

Durante questo periodo, i metodisti furono degli evangelici che si opponevano allo schiavismo ma operavano al di fuori della Chiesa d’Inghilterra. Fondato nel 1739, il metodismo era molto in sintonia con l’enfasi posta su un senso morale universale: «Mentre i filosofi chiamavano in causa il senso morale quale base dei sentimenti sociali, i predicatori metodisti mettevano in pratica tale idea diffondendo un messaggio religioso fatto di buone opere, impegnandosi in una serie di cause umanitarie e accogliendo i poveri nel loro ovile»139.

 

Sebbene ponessero l’accento sull’impegno personale nella carità e nelle opere buone, i metodisti contribuivano a fondare e a sostenere iniziative filantropiche e istituzioni di ogni tipo: ospedali, dispensari, orfanotrofi, società di mutuo soccorso, scuole e biblioteche. Essi giocarono anche un ruolo di primo piano nel movimento per l’abolizione della tratta degli schiavi. Lo stesso Wesley si appassionava al tema della «esecrabile infamia», lo schiavismo. «Un africano […] non era inferiore a un europeo sotto qualunque aspetto»; se tale sembrava, era perché gli europei lo avevano mantenuto in una condizione di inferiorità, privandolo di «ogni opportunità di miglioramento sia nella conoscenza che nella virtù»140.

 

In una lettera a William Wilberforce, il capo degli abolizionisti nel parlamento, Wesley scrisse: «Andate avanti, nel nome di Dio e nel potere della Sua potenza, fino a che anche lo schiavismo americano (il più abietto che mai si sia visto sotto il sole) non svanisca di fronte ad essa»141. Secondo Wesley, se l’impero necessitava dello schiavismo, allora si sarebbe dovuto ripudiarlo142: un eccellente esempio della mancanza di considerazione, da parte degli abolizionisti, per gli interessi individuali o nazionali.

Sebbene fossero coinvolti nell’invio di petizioni al parlamento143, i metodisti non furono al centro dei movimenti attivisti. Ciò nondimeno, la loro posizione era chiara. Nel 1774 Wesley pubblicò uno scritto antischiavista dal titolo Thoughts upon Slavery [Pensieri sullo schiavismo, n. d. t.] che conteneva crude descrizioni del reclutamento degli schiavi e del modo in cui venivano trattati durante il viaggio verso le Indie Occidentali e nelle piantagioni di canna da zucchero:

 

E cosa può esservi di più miserabile della condizione in cui vengono a trovarsi? Banditi per sempre dal loro paese, dai loro parenti ed amici, vengono ridotti ad uno stato difficilmente preferibile a quello delle bestie da soma […] Il loro sonno è breve, il loro lavoro continuo e spesso al disopra delle loro forze: così la morte ne libera molti prima che abbiano vissuto la metà dei loro giorni […] Sono frustati da sorveglianti che, se ritengono che perdano tempo o che non abbiano fatto qualcosa come avrebbero dovuto, li battono nel modo più spietato, così che si possono vedere i loro corpi, per molto tempo, segnati e sfregiati, di solito dalle spalle fino ai fianchi […] Quanto alle punizioni che vengono loro inflitte, dice sir Hans Sloan[e], «spesso li castrano, o gli tagliano la metà di un piede; poi vengono frustati finchè sono tutti scorticati. Alcuni gettano [sulle loro ferite, n. d. t.] pepe e sale. Altri colano cera fusa sulla loro pelle. Altri ancora tagliano loro le orecchie e li costringono a cucinarle sulla griglia e a mangiarle. Se si ribellano» (e cioè se affermano la propria naturale libertà alla quale hanno diritto come all’aria che respirano) «li legano al terreno ponendo della legna su tutte le loro membra, quindi applicando il fuoco un po’ alla volta, ai piedi e alle mani, li bruciano a poco a poco fino alla testa»144.

 

Che pratiche del genere venissero eseguite o meno, o che fossero più o meno consuete, brani come questo erano chiaramente concepiti per suscitare empatia e disgusto nei lettori.

Il metodismo aveva sviluppato una notevole retorica dell’altruismo. Tutte le ricchezze che andavano al di là di quanto era necessario per sostenere una famiglia dovevano essere date ai poveri e ciò doveva essere fatto, secondo Wesley, «in modo quanto più possibile segreto e senza ostentazione»145. Questo in effetti toglieva importanza alla reputazione personale come motivazione per gli atti di carità. I metodisti tendevano ad evitare un approccio organizzato alla carità in favore dell’iniziativa individuale.

 

Fu dunque stabilita una disposizione alla filantropia, piuttosto che un’organizzazione della stessa, il che spiega in larga misura il generoso sostegno dato dai membri del Collegamento Metodista al miglioramento della condizione dei sofferenti, fosse questa dovuta alla povertà o alla malattia, alla prigionia o alla schiavitù; e spiega inoltre la carenza di sforzi organizzati nell’affrontare ciascuno dei principali problemi sociali dell’epoca146.

 

La produzione artistica dei metodisti poneva l’accento sulla virtù morale: «I metodisti pubblicarono romanzi sentimentali e poemi […] così come sermoni e trattati. E la teologia aveva al suo centro sensazioni, sentimenti ed emozioni cui veniva data espressione attraverso la preghiera, gli inni, le omelie e, non ultimo, il servizio personale ai malati e ai bisognosi»147.

Come per i quaccheri e gli anglicani evangelici, esisteva nel metodismo una forte venatura di egualitarismo. Sebbene leale verso la gerarchia stabilita, all’interno della chiesa «il movimento era, nello spirito se non formalmente, democratico […] All’interno della chiesa c’erano poche distinzioni sociali […] E la struttura organizzativa, per quanto gerarchica, promuoveva uno spirito di comunità e di fraternità»148. Le donne costituivano spesso la maggioranza nelle congregazioni e rivestivano un importante ruolo di guide «nella preghiera, nel consigliare e nell’esortare»149. C’erano molte predicatrici, con il medesimo status degli uomini. Il metodismo incoraggiava un’etica analoga a quella puritana basata sulla parsimonia, sulla diligenza e sul duro lavoro, cui si accompagnava «l’obbligo sociale della carità e delle opere buone, facendo così dell’“aiutare se stessi” un corrispondente dell’aiuto dato agli altri»150. Il metodismo attirava «le classi medie; esso si mantenne alleato all’evangelicalismo che avrebbe ispirato la “Riforma Morale” e i movimenti filantropici che rappresentarono un aspetto così distintivo dell’illuminismo britannico»151.

 

Il puritanesimo come prototipo dell’“Età della Benevolenza”.

 

Il libro di Mary Gwladys Jones dal titolo Il movimento della Scuola di Carità: studio sull’azione del puritanesimo nel XVIII secolo descrive le radici puritane dell’“Età della Benevolenza” nel Settecento152. Ciò è importante ai fini della presente discussione perché sebbene i puritani in sé non siano stati alla testa del movimento per l’abolizione dello schiavismo, il lavoro della Jones mostra chiaramente che l’etica puritana che abbiamo illustrato nel capitolo 6 stava alla radice di ciò che ella descrive come «il duraturo umanitarismo e la generosa filantropia» del XVIII secolo153. Ciò comprendeva l’interessamento nei confronti degli schiavi africani:

 

Le richieste delle missioni estere, le sofferenze dei rifugiati religiosi, l’infelicità degli schiavi negri, dei trovatelli e dei bambini impiegati come spazzacamini, le brutalità della legislazione criminale, gli stenti dei più poveri, degli anziani e degli infermi, i sacrifici dei “secondi poveri” [i poveri che non ricevevano l’aiuto delle parrocchie] per rimanere a galla, le sofferenze dei malati e dei carcerati non mancavano di commuovere le coscienze e di sciogliere i cordoni delle borse dei cittadini religiosi e filantropi dell’Inghilterra del XVIII secolo154.

 

Nel collegare queste tendenze al puritanesimo, Jones non suggerisce un legame di fedeltà ad un particolare dogma religioso, bensì uno sforzo «di vivere le loro vite in puntigliosa conformità agli insegnamenti cristiani». Persone del genere si potevano trovare in tutte le organizzazioni religiose, compresa la Chiesa d’Inghilterra. «Esse non erano unite da una specifica forma di costituzione ecclesiastica, ma da un pietismo, da un purismo religioso che mirava a promuovere, tramite un’austera disciplina personale, la gloria di Dio e la santificazione interiore dell’individuo»155. La loro motivazione era «la ricompensa spirituale nel mondo a venire»156. La sensibilità degli evangelici del XVIII secolo rappresentava pertanto la caratteristica di ciò che Jones definisce «puritanesimo classico»157. «La pratica continua e incrollabile della pietà e della carità rimase la loro caratteristica dominante».

 

“Il secondo impero britannico” nel XIX secolo: un luogo più gentile e più mite.

 

La ribellione di Morant Bay in Giamaica e i suoi sostenitori in Inghilterra.

Il movimento per abolire lo schiavismo fu solo una parte del movimento generale verso una società in cui l’empatia, l’equità e i “sani principi” avessero un peso maggiore, una società caratterizzata da forti principi morali. Questo atteggiamento di un importante settore della società britannica si manifestò nella reazione alla ribellione dei negri giamaicani contro i bianchi che ebbe luogo a Morant Bay, in Giamaica, nel 1865, e che è stata studiata da Andrew Joyce158.

Considerando il contesto delle ribellione, l’abolizione dello schiavismo in Giamaica non pose certamente fine alle tensioni razziali. Lo schiavismo ebbe fine nel 1833 e dal 1838 la forza lavoro venne reclutata secondo un sistema di mercato, col risultato che molti lavoratori caddero in povertà e i proprietari delle piantagioni si lamentarono dell’indolenza degli operai; la produzione di zucchero ebbe un calo significativo. La situazione in Giamaica presentava differenze critiche rispetto a quella più o meno contemporanea della

Nuova Zelanda, dove i coloni inglesi avevano principi più elevati (si veda più avanti). A differenza della Nuova Zelanda, la Giamaica aveva una lunga storia di sfruttamento di schiavi africani per il lavoro nelle grandi piantagioni che risaliva alla fine del XVII secolo. Una prospettiva razziale realista evidenzia il basso quoziente intellettivo degli africani, come pure il loro scarso controllo sugli impulsi e la loro scarsa etica del lavoro. Joyce cita Lawrence James, un noto storico dell’impero britannico, che osservò come molti negri rifiutassero di lavorare nelle piantagioni dopo che sull’isola si stabilì un libero mercato del lavoro. Il risultato fu che i proprietari ricorsero all’importazione di manodopera dall’India e dalla Cina per il lavoro agricolo. Dal punto di vista del realismo razziale, non sorprende che i discendenti di questi lavoratori asiatici abbiano acquisito una posizione di spicco nella classe mercantile dell’isola, raggiungendo una posizione che è senza dubbio superiore a quella dei negri159. In tempi recenti ciò ha provocato tensioni etniche, nelle quali in particolare i cinesi sono divenuti il bersaglio dell’ostilità dei negri giamaicani poveri. Tumulti anticinesi negli anni 1970 hanno causato un’emigrazione su larga scala dall’isola. Una prova rivelatrice dell’etica del lavoro dei negri giamaicani è data dal fatto che quando gli imprenditori cinesi aprirono delle aziende tessili in Giamaica negli anni 1980-90 portarono con loro manodopera cinese.

Queste tensioni non sono scomparse: malgrado i cinesi continuino a dominare l’economia, alcuni di loro lasciano l’isola a causa degli atteggiamenti anticinesi e della diffusione del crimine160. Come osserva un articolo sulla stratificazione sociale nella Giamaica contemporanea, «buona parte della ricchezza nazionale è detenuta da un piccolo numero di famiglie dalla pelle chiara o bianca, e una porzione significativa è controllata da individui di origine cinese o mediorientale»161. Inoltre, l’origine africana è «ancora associata all’immagine di individui “incivili”, “ignoranti”, “pigri” e “inaffidabili”». Questi stereotipi sui negri giamaicani sono simili a quelli che riguardano i negri in altri paesi e sono coerenti con i risultati di una ricerca razziale realista162. Questi risultati collocano nel loro contesto le difficoltà che le autorità giamaicane dovettero affrontare nel 1865.

La reazione del governatore della Giamaica John Eyre alla ribellione non riflette quel secondo impero britannico “più gentile e più mite” di cui si parla nel seguito in relazione alla Nuova Zelanda. I ribelli uccisero degli ufficiali di polizia e dopo che ebbero dato l’assalto a un tribunale le vittime bianche della sommossa furono uccise «in circostanze di grande atrocità»163, ad esempio tagliando loro la lingua e le dita mentre erano ancora vive. Il governatore Eyre chiese rinforzi alla Marina Reale, che ristabilì l’ordine dopo aver ucciso diverse centinaia di ribelli, compresi il loro capo Paul Bogle e i suoi fratelli. George William Gordon, persona facoltosa di razza mista che era membro del parlamento giamaicano, fu giustiziato per complicità e in seguito divenne il protagonista di colorite agiografie prive di accuratezza storica, diffuse tra i critici della risposta governativa alla ribellione.

Comunque, la reazione di certi settori della società britannica riflettè certamente il tema di un impero britannico “più gentile e più mite”. L’articolo di Joyce mostra come i sentimenti che guidarono il movimento antischiavista in Inghilterra fossero evidenti e potenti nell’Inghilterra degli anni 1860:

 

Per una persona capace di un ragionamento lucido si trattò di una serie di azioni evidentemente criminali e inconcepibilmente brutali compiute per motivi crudeli contro una popolazione presa di mira perché bianca. E tuttavia, in Inghilterra vi fu una fazione progressista convinta non solo che la vera vittima fosse la popolazione negra, ma anche che i loro connazionali bianchi fossero mostri riprovevoli che avevano meritato il loro destino. Questa risposta patologica, carica di un’emotività eccessiva e malriposta, avrebbe scosso l’impero nelle sue fondamenta, fiaccando la sua fiducia e lasciando un’eredità percepibile ancor oggi164.

 

Le opinioni sull’impero negli anni 1860 erano nettamente divise, con i critici progressisti che facevano capo ad un gruppo informale chiamato Exeter Hall composto da individui facoltosi che avevano accesso ai fiorenti mezzi di informazione dell’epoca basati sui giornali. Nell’opinione pubblica essi venivano identificati «con ciò che Charles Dickens descriveva come «simpatia da palcoscenico per il negro e […] indifferenza da palcoscenico per i nostri stessi compatrioti»165. I commenti di Dickens, scritti nel 1865, sono interessanti perché riflettono il pensiero progressista dell’epoca: impegno nell’aiutare i poveri in luoghi remoti promuovendo l’immigrazione, senza alcuna considerazione per gli effetti negativi su ampi settori della popolazione autoctona, in particolare sulla classe lavoratrice. Così Dickens:

 

L’insurrezione in Giamaica è un altro bel tipo di affare che lascia ben sperare. Quella simpatia da palcoscenico per il negro (o per il nativo, o per il diavolo) che sta lontano e quella indifferenza da palcoscenico per i nostri stessi compatrioti che si trovano in mezzo ad enormi difficoltà tra spargimenti di sangue e brutalità, mi fanno veramente infuriare. Soltanto l’altro giorno c’è stato un raduno di mascelle d’asino165a a Manchester per criticare il governatore della Giamaica [Eyre] per il modo in cui aveva sedato l’insurrezione! Allo stesso modo veniamo assillati per i neozelandesi [maori] e gli ottentotti, come se costoro fossero identici agli uomini di Camberwell165b vestiti con linde camice, e come questi dovessero essere tenuti a bada da penna e inchiostro! Così Exeter Hall ci mantiene in un perfetto stato di mortale sottomissione a missionari che (fatta sempre eccezione per Livingston) sono delle perfette seccature e lasciano sempre qualunque posto in condizioni peggiori di come l’hanno trovato […] Se i negri giamaicani non fossero stati eccessivamente impazienti e precipitosi, i bianchi sarebbero stati sterminati166.

 

Rispecchiando i sentimenti di molti sostenitori del movimento antischiavista degli anni precedenti, la cricca di Exeter Hall era composta da «filantropi cristiani che credevano che le [altre, n. d. t.] razze potessero essere portate a livelli di educazione e di condotta tali da porle alla pari con gli europei. I membri di questo gruppo tendevano ad essere dei protestanti dissidenti, membri della classe media, progressisti o radicali nelle loro idee politiche»167. Come osserva Joyce, «Exeter Hall fu ampiamente responsabile della produzione e della diffusione di una serie di documenti propagandistici antischiavisti e pro-negri [ricolmi di esagerazioni, omissioni e deliberate rielaborazioni dei fatti storici] che con la loro caratteristica esaltazione emotiva ebbero successo tra coloro che erano influenzati dal movimento romantico»168.

Come per numerosi trascendentalisti e capi religiosi del XIX secolo di cui si è detto nel capitolo 6, le loro idee erano influenzate dalla credenza che le caratteristiche razziali fossero modificabili, e in particolare che convertendo gli africani questi sarebbero diventati parte dell’ethnos cristiano. Com’è stato osservato, queste idee rappresentano una versione cristiana delle idee ottimiste ed utopiche fondate sulle teorie di Lamarck dell’ereditabilità dei caratteri acquisiti. Nell’ideologia lamarckiana le razze possono essere modificate assorbendo la cultura britannica o quella americana, di modo che alla fine esse diventino “proprio come noi”: è la fusione tra razza e cultura.

Stante il grande peso degli accademici ebrei nella cultura occidentale contemporanea, è altresì interessante notare gli aspetti ebraici della rivolta e come questi vennero percepiti all’epoca dei fatti. Joyce cita un resoconto di prima mano di un membro della Royal Geographical Society del 1871169. Oltre ad osservare le inesattezze di molte relazioni sulla ribellione e la scarsa disponibilità dei negri a lavorare, questa persona

 

fece luce sulla minuscola ma ogni giorno più potente comunità ebraica giamaicana. Sempre più danneggiati dal calo del prezzo dello zucchero, i piantatori bianchi «misero sul mercato le loro proprietà». Le risorse dell’isola cominciarono così a cadere «nelle mani degli ebrei, che divennero ricchi e prosperi, e grazie alla complicità di avvocatucoli che si erano ingrassati con le parcelle per la stesura dei documenti legali e agli interessi esorbitanti dei prestiti contratti da numerosi piantatori che tentavano di salvarsi dalla completa rovina, si aprirono la strada verso la Camera dell’Assemblea, dove ebbero presto il sopravvento ed usarono il loro potere per procurare lavoro a se stessi e ai loro amici170.

Il contesto ebraico della ribellione di Morant Bay è stato del tutto trascurato da Gad Heuman [il cui lavoro, come osserva Joyce, cerca di inculcare «un complesso di colpa postimperiale»171] e dalla sua cricca di zelanti ricercatori “post-colonialisti”. In effetti, non si troverà alcun riferimento agli ebrei giamaicani in qualunque opera storica esistente sulla ribellione di Morant Bay. La cosa è più che curiosa quando si considerino due fatti piuttosto sorprendenti. Il primo è che la stampa giamaicana era, se si eccettuano alcuni minuscoli bollettini ecclesiastici, completamente nelle mani della piccola comunità ebraica dell’isola. Una guida della Giamaica del 1895 di fonte governativa, destinata a possibili coloni, elencava i giornali locali: The Colonial Standard, gestito da George Levy, The Gleaner, The Jamaica Princes Current e The Tri-Weekly Gleaner, tutti gestiti dai fratelli ebrei De Cordova172.

Il secondo aspetto decisamente cruciale è che George William Gordon non fu l’unica personalità influente che venne arrestata per sedizione e tradimento: le altre furono il proprietario del The County Union, un certo signor Sidney Levien, e un “procuratore legale” di nome D. P. Nathan173. Il fatto che tali informazioni possano essere scoperte soltanto attingendo alle fonti originali, assenti od oscurate dai nostri testi storici dopo quasi 150 anni e molto inchiostro versato, è piuttosto significativo.

Lo stesso governatore Eyre era convinto che gran parte dei disordini avesse la propria origine negli «articoli soggettivi, scurrili, vendicativi e sleali di una stampa licenziosa e priva di scrupoli»174. Il 20 novembre 1865 Eyre scrisse all’Ufficio Coloniale di Londra esprimendo l’opinione che «molte persone colte e in ottima posizione si sono impegnate a sviare la popolazione negra mediante discorsi e scritti incendiari, dicendo loro che erano maltrattati e oppressi ed incitandoli a cercare un risarcimento»175.

Vi erano dunque le prove che questi istigatori avessero pianificato e anticipato l’esplosione di violenza già da un certo tempo. Un mese prima della ribellione, Levien aveva scritto a diverse persone promettendo di pubblicare editoriali che, nelle sue parole, avrebbero dovuto «mettere al riparo voi e loro [i negri] dall’accusa di anarchia e di insurrezione che in breve tempo farà seguito a queste possenti dimostrazioni»176. Eyre si mise anche in contatto col segretario per le colonie Edward Cardwell, adducendo prove che Levien, Nathan ed altri erano «strettamente collegati a George William Gordon in tutti questi fatti» e dimostrando che essi erano entrambi ben consapevoli dell’impatto che la loro propaganda stava avendo «sulla mente dei negri» e che avevano «deliberatamente perseguito i loro intenti per conseguire l’esito previsto»177, 178.

 

L’opera di Joyce illustra dunque diversi aspetti importanti. Il fenomeno di Exeter Hall è un eccellente esempio di idealismo morale e di empatia per le altrui sofferenze del XIX secolo espressi a livello cosciente in termini di idee religiose cristiane. Inoltre, se si deve credere a Charles Dickens, Exeter Hall era alquanto simile alla sinistra contemporanea, che tipicamente ignora gli effetti di abbassamento dei salari e di distruzione delle comunità prodotti dall’immigrazione di massa non-bianca sulla classe lavoratrice autoctona, in particolare quella bianca. Il lavoro di Joyce illustra altresì come gli storici accademici contemporanei, alcuni probabilmente spinti da animosità etnica nei confronti delle maggioranze bianche tradizionali e agenti in maniera analoga a quella degli intellettuali ebrei esaminati nel libro La Cultra della Critica, siano impegnati a indurre nella popolazione bianca dei sensi di colpa circa il passato dell’Occidente179. Nella misura in cui tali campagne hanno successo, esse dipendono dalle preesistenti tendenze al senso di colpa e all’empatia che caratterizzano una porzione importante degli europei occidentali, tendenze che derivano dalla peculiare storia evolutiva e culturale dell’Occidente presa in esame in altre parti di questo volume.

 

David Hackett Fischer: il “secondo impero britannico”.

Il libro di David Hackett Fischer Albion’s Seed: Four British Folkways in America [Il seme d’Albione: quattro tradizioni britanniche in America, n. d. t.] ha modellato la mia visione della storia americana e di molte altre cose180. Esso fornisce una spiegazione convincente di come i quattro principali gruppi di derivazione britannica (puritani, “cavalieri decaduti”, quaccheri e abitanti della zona di confine tra Scozia e Irlanda [scozzesi d’Irlanda, n. d. t.]) differivano tra loro e della loro lotta per ottenere il dominio sull’America. Per me, come evoluzionista, gran parte dell’attrattiva per il lavoro di Fischer sta nel fatto che egli pone le radici di queste differenze culturali nel lontano passato. Perciò le tendenze dei due gruppi principali, i puritani originari dell’East Anglia e i cavalieri originari dell’Inghilterra sudorientale, risalgono al nebuloso periodo della preistoria inglese. Questi gruppi (i puritani inclini all’individualismo egualitario e i cavalieri inclini all’individualismo aristocratico) mostravano differenze culturali molto forti che probabilmente furono influenzate da differenze etnico-genetiche, come si è visto nei capitoli precedenti.

Fairness and Freedom, [Equità e libertà, n.d. t.], un’altra opera di Fischer, prosegue nell’approccio comparativo questa volta confrontando due diverse società di derivazione britannica, quella della Nuova Zelanda e quella degli Stati Uniti181. La tesi di fondo è che la cultura politica della neozelandese sia molto più pervasa da «una profonda preoccupazione per l’equità»182, mentre quella statunitense si concentra maggiormente su un’ideologia della libertà individuale. Come si vedrà, questo paragrafo richiama quanto si è visto a proposito dei puritani e del movimento antischiavista riguardo al rilievo dato al senso dell’equità e dell’empatia per le sofferenze degli altri che venne caratterizzando la gestione delle colonie britanniche nel XIX secolo. Per quanto ponga un’enfasi minore sull’egualitarismo, anche Fischer descrive la Nuova Zelanda come fortemente egualitaria. La “sindrome dell’alto papavero”, che è piuttosto simile alle “leggi di Jante”182a della cultura scandinava che saranno esaminate nel capitolo 8, è definita come l’invidia e il risentimento nutriti nei confronti  delle persone «palesemente di successo, eccezionalmente dotate o insolitamente creative»183. «Essa è divenuta talvolta un atteggiamento più generale di aperta ostilità verso ogni sorta di eccellenza, di distinzione o del raggiungimento di risultati importati, in particolare di quelli che richiedono sforzo mentale, prolungato impegno o intelligenza applicata […] Il possesso di doti straordinarie è percepito come iniquo da parte di coloro che ne sono privi»184.

L’espressione “sindrome dell’alto papavero” ha avuto origine in Australia, ma sembra più caratteristica della Nuova Zelanda. Le persone di successo vengono chiamate “papaveri”. Questa tendenza non è così forte come un tempo, ma per quanto alcuni neozelandesi di successo vengano accettati, «altri neozelandesi brillanti e creativi sono stati trattati in maniera crudele dai compatrioti, che sembrano ritenere che vi sia qualcosa di fondamentalmente ingiusto nei cervelli migliori o nelle qualità creative, e ancor più nella determinazione a farne uso»185.

Senza dubbio a causa delle medesime tendenze egualitarie, il sistema neozelandese incoraggia l’indolenza e lo scarso profitto; i lavoratori insistono affinchè i colleghi rallentino il ritmo e non lavorino sodo. “Per l’ora di pranzo stacchiamo” è il motto di un gran numero di lavoratori neozelandesi.

Forse come riflesso dell’egualitarismo, Fischer sostiene che fino alla metà del XX secolo (e da allora, senza dubbio, soltanto grazie all’influenza occidentale) non esistessero equivalenti della parola fairness185a se non nelle lingue inglese, danese, norvegese e frisone (e con la notevole esclusione del tedesco)186. Inoltre, le parole fair e fairness non hanno radici latine o greche, ma sono nondimeno riconducibili a un’origine IE. L’originale termine IE ha il significato di “essere contento”, da cui è derivato più tardi il gotico fagrs, che significa “piacevole alla vista” e che spesso indica un individuo dai capelli biondi e dalla pelle chiara. Alla fine il termine è passato ad indicare qualcosa su cui la maggior parte delle persone può trovarsi d’accordo, per esempio a fair price [un prezzo equo, corretto, onesto, n. d. t.].

A differenza di Albion’s Seed, incentrato sulle differenze profonde, durature (già presenti nella documentazione più antica) e assai probabilmente di origine etnico-genetica che spiegano le variazioni culturali, Fairness and Freedom fornisce una spiegazione dello sviluppo in Occidente di un’etica universalista dell’equità [fairness] in termini esclusivamente culturali:

 

Nell’antica pratica etica, le parole significanti equità [fairness] tendevano ad essere usate all’interno delle tribù britanne e scandinave, dove si riferivano a uomini che godevano di buona reputazione. Donne, schiavi e stranieri appartenenti ad altre tribù erano spesso esclusi da un trattamento basato sull’equità e se ne risentivano profondamente. Gli usi tribali di fair […] rivelano l’ironia della storia. Queste idee fiorirono nelle remote regioni periferiche dell’Europa nordoccidentale tra gruppi appartenenti a popolazioni fiere, forti, violente e predatrici, che vivevano in ambienti ostili, combattevano all’ultimo sangue per i mezzi di sostentamento e a volte depredavano la loro stessa gente. Le idee di equità [fairness] e di correttezza [fair play] si svilupparono come un modo per trattenere questi piantagrane abituali dall’ammazzarsi l’un l’altro fino all’estinzione della tribù […]

Qualcosa di fondamentale cambiò in una seconda fase, quando cioè le culture popolari della Britannia e della Scandinavia cominciarono a evolversi in un’etica che abbracciava anche i soggetti estranei alla tribù, come pure le persone di ogni rango e condizione. Tale tendenza espansiva aveva le sue radici in valori universali, come l’idea cristiana della “regola aurea”186a. Questo più ampio concetto di equità si allargò ulteriormente quando incontrò le idee umanistiche del Rinascimento, lo spirito universale dell’illuminismo, quello ecumenico del movimento evangelico e le rivoluzioni democratiche in America e in Europa187.

 

Fischer dunque propone che a partire unicamente da un sottoinsieme nordico delle popolazioni europee nordoccidentali si sia verificata una serie di mutamenti esclusivamente culturali che, cominciando col cristianesimo, culminarono (come Fischer sostiene in seguito) in ciò che io considero come il senso alquanto esagerato dell’equità che ora sta alla base della cultura occidentale. Dire che “qualcosa cambiò” non offre spiegazioni, ma indica semplicemente un insieme di ipotetici mutamenti storici. Fischer non fornisce ulteriori indicazioni sul perché tali cambiamenti ebbero luogo.

Egli sostiene che nella storia americana l’equità rivesta un’importanza assai minore rispetto alla libertà. Attualmente, fairness appare essere un termine di moda tra i sostenitori del Partito Democratico, mentre gli intellettuali conservatori a volte rifiutano del tutto il concetto. Tuttavia, Fischer afferma che «la frequenza [dell’impiego, n. d. t.] della parola fairness è andata crescendo nell’uso americano nel corso del XX secolo, sebbene in misura assai inferiore rispetto a freedom [libertà, n. d. t.] e free [libero, n. d. t.]. Anche così, però, sono pochi gli americani che considerano l’equità [fairness] il principio organizzativo della loro società aperta»188. In Inghilterra, l’uso del termine fairness è andato crescendo fin dal 1800, mentre quello di liberty [libertà, n. d. t.] è andato costantemente declinando a partire da un picco massimo intorno al 1780.

Dopo aver brevemente trattato i quattro principali gruppi americani già dettagliatamente esaminati in Albion’s Seed, Fischer descrive il modello assai differente della Nuova Zelanda. Gli immigrati che giunsero in Nuova Zelanda provenivano da varie parti dell’Inghilterra, senza però presentare forti differenze culturali. Tendevano ad appartenere almeno al ceto medio e alcuni di loro avevano legami con l’aristocrazia; la maggior parte arrivò grazie all’assistenza di organizzazioni che effettuavano una scrupolosa selezione in base al carattere morale e ad altre caratteristiche. Per esempio, un tipico programma richiedeva una lettera scritta dal vicario del candidato all’emigrazione attestante che costui fosse «tra i membri più rispettabili della sua classe»189. Gli scozzesi che emigrarono a Otago, nell’Isola Meridionale, sono descritti come «[gli elementi, n. d. t.] più istruiti e religiosi della classe media e inferiore»190. Forse come riflesso di questi processi [selettivi, n. d. t.] il quoziente di intelligenza dei neozelandesi bianchi è leggermente superiore  rispetto alla media dei bianchi. Due ampi studi condotti nel 1989 e nel 1997 hanno rilevato che il quoziente intellettivo dei neozelandesi bianchi è rispettivamente 101 e 102191.

Secondo Fischer, la differenza fondamentale tra gli Stati Uniti e la Nuova Zelanda risiede nel fatto che i coloni americani vennero trattati in modo orribile dai britannici («sei generazioni di coloni americani vennero sfidate dai britannici a combattere per i loro diritti»192). Fischer osserva come il Bill of Rights [Carta dei Diritti, n. d. t.] sia un elenco di lagnanze specifiche relative a ciò che gli inglesi avevano fatto ai coloni amenicani dal 1760 al 1775. Inoltre il modello economico delle colonie americane era concepito per beneficiare l’Inghilterra piuttosto che le colonie. Tutto ciò ebbe come conseguenza una potente ideologia della libertà.

Sull’altro versante, la Nuova Zelanda sperimentò l’impero britannico “più gentile e più mite” della metà del XIX secolo e oltre. Questo “secondo impero”, così come si sviluppò in Nuova Zelanda, fu «basato su elevati principi e fu profondamente cristiano, con un senso di equità e di giustizia complesso ed evoluto […] Le loro azioni [dei britannici, n. d. t.] spesso non furono all’altezza dei loro ideali. Ma nelle loro vite fu presente un’impegno costante ed essi piantarono i semi di un sistema etico che continuò a svilupparsi a lungo dopo che se ne furono andati»193.

A differenza di quanto avvenne nelle colonie americane, in Nuova Zelanda i britannici incoraggiarono l’autogoverno e cercarono di proteggere gli indigeni maori. La Nuova Zelanda non aveva schiavi, servitù debitoria o un’economia basata sulle piantagioni; non esisteva un significativo numero di cavalieri impoveriti come quello che diede forma alla cultura del Sud degli Stati Uniti. Nel XIX secolo l’impero britannico abbandonò il mercantilismo, che mirava a beneficiare l’Inghilterra, in favore del libero commercio. Ma la caratteristica più importante dell’impero britannico all’epoca della colonizzazione della Nuova Zelanda, a partire dal 1840 (nell’epoca in cui gli americani stavano conquistando il continente a spese degli indigeni) fu una maggiore enfasi posta sulla giustizia sociale. Amministratori coloniali come il capitano William Hobson («una guida di grande probità […] [che] reclutò persone capaci ed onorevoli per il servizio nelle colonie»194) erano interessati alla giustizia e all’equità, nel tentativo consapevole di affermare una morale universalista. Vediamo dunque affermarsi, in Nuova Zelanda, un forte senso dei “buoni principi”195 e un universalismo morale impegnato. George Augustus Selwyn, che divenne vescovo anglicano della Nuova Zelanda nel 1841, era «un idealista di elevati principi», fautore di un’«aperta versione ecumenica del cristianesimo che, in Nuova Zelanda, si collegò a un’idea di eguaglianza razziale tra i pakeha [i bianchi] e i maori»; Selwyn fu «un accanito difensore dei diritti dei maori»196.

La contemporanea cultura di colpevolizzazione dei bianchi e di idealizzazione dei non-bianchi che si osserva in tutto l’Occidente ha avuto come conseguenza un moralismo a base laica che ignora il cannibalismo dei maori e la loro cultura fondata sullo stato di guerra intraetnico. I campus universitari sono diventati ricettacoli di atteggiamenti positivi nei confronti dei maori. Un ufficiale militare si riferisce con accenti di sdegno alla contemporanea «maorilatria» accademica197.

D’altro canto, gli stessi maori si sono resi conto del fatto che la loro cultura lasciava alquanto a desiderare. Un capo [maori, n. d. t.] del XIX secolo si domandava: «Cosa facevamo prima che arrivassero i pakeha? Combattevamo, combattevamo in continuazione». In definitiva, un gran numero di maori vide senz’altro l’arrivo dei coloni bianchi in termini positivi.

Questa mentalità etica e questo impegno per l’equità si possono osservare in una tradizione di tendenza socialista che è assai più forte in Nuova Zelanda che in America. Ad esempio, «dopo il 1891 la Nuova Zelanda diede inizio a un duraturo programma di ridistribuzione delle sue terre»198, non mediante la confisca delle grandi proprietà terriere, ma tramite acquisti da parte del governo quando quelle terre venivano messe sul mercato. Fischer documenta, in Nuova Zelanda, una più forte  preoccupazione di estendere l’equità a tutti i cittadini, non senza sforzi beninteso, ma con un successo maggiore rispetto agli Stati Uniti. «In generale, la Nuova Zelanda conobbe una presenza decisamente scarsa di quel conservatorismo rigido e di estrema destra e che era invece più forte in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e nel Canada […] [Anche gli elementi più conservatori] diedero il loro appoggio al voto femminile e ad altre misure progressiste»199.

La propensione al socialismo della Nuova Zelanda può essere osservata nella sua risposta alla Grande

Depressione. Mentre la filosofia del New Deal di Franklin Roosevelt viene descritta come «aiutare le persone ad aiutare se stesse»200, la Nuova Zelanda istituì versamenti di denaro diretti per le persone che avevano sofferto il collasso economico. Queste politiche erano dirette a «far lavorare la gente e intendevano altresì stabilire un principio di imparzialità, equità e giustizia sociale»201. Nel corso degli anni 1930 si ebbe un grande incremento della proprietà pubblica delle banche, delle acciaierie, delle miniere di carbone e delle linee aeree, così che nel 1939 il 25% dei lavoratori della Nuova Zelanda lavorava per il governo; negli Stati Uniti quella quota era dell’8%. Comunque, non vennero fatti tentativi di ottenere un’eguaglianza delle classi (Fischer descrive la Svezia come molto più radicale della Nuova Zelanda, cfr. il capitolo 8). Piuttosto, l’obiettivo fu quello di «sostenere un ideale di autonomia e di crescita individuali»202.

Negli Stati Uniti, d’altro canto, Roosevelt si oppose all’elemosina ai poveri: «Il governo federale deve abbandonare questa faccenda del soccorso, e lo farà […] Non ho intenzione di far sì che la vitalità del nostro popolo sia ulteriormente fiaccata dall’elargizione di denaro […] Non dobbiamo salvare dall’indigenza soltanto i corpi dei disoccupati, ma anche il rispetto che essi anno di sé e la loro autonomia»203. Il sistema previdenziale americano è l’unico programma di assistenza agli anziani i cui fondi provengano dagli stipendi effettivi dei lavoratori. La Nuova Zelanda creò nel 1938 un sistema sanitario nazionale che è un misto di sussidi pubblici e versamenti privati. Come negli Stati Uniti, vi fu un’opposizione da parte di gruppi di medici, ma fu possibile raggiungere un compromesso. Non è stato così negli Stati Uniti (a parte il programma Medicare per gli anziani) fino alla recente approvazione, estremamente controversa, dell’Affordable Care Act del presidente Obama.

Un’altra indicazione delle tendenze di sinistra della politica neozelandese è rappresentata dall’attivismo antinucleare. Negli anni 1980 e 1990 la Nuova Zelanda adottò unilateralmente politiche di opposizione agli armamenti nucleari, con grande umiliazione dei governi Reagan e Tatcher. Negli anni 1990 si unirono  anche i conservatori, e una nave militare fu inviata sul sito dei test nucleari francesi. Ma la Nuova Zelanda finì per cedere e per orientarsi verso la sicurezza collettiva, rendendosi conto che un piccolo paese non può fare da solo. L’amministrazione Clinton imparò a convivere con la politica antinucleare neozelandese. Fischer interpreta ciò come un esempio del suo «persistente attaccamento alle idee di giustizia, equità e correttezza nel mondo»204.

D’altro canto, la nozione di libertà individuale è relativamente debole in Nuova Zelanda. Nel 1990 fu finalmente adottata una Carta dei Diritti, ma a differenza di quella degli Stati Uniti essa incorporava i “diritti umani” (inclusa la “giustizia naturale” e affermazioni esplicite di equità procedurale e istituzionale) piuttosto che, come in America, diritti contro il potere dello stato che tanto stavano a cuore ai Padri Fondatori degli Stati Uniti. La maggior parte dei neozelandesi ha una scarsa consapevolezza della propria Carta dei Diritti, mentre negli Stati Uniti tale documento ha una grande rilevanza psicologica per la maggioranza degli americani.

 

La libertà di parola negli Stati Uniti e in Nuova Zelanda.

Nell’Occidente contemporaneo gli Stati Uniti sono l’unico paese che, grazie al Primo Emendamento, protegge la libertà di parola. Comunque, soltanto una risicata maggioranza parlamentare è impegnata a respingere le leggi sull’incitamento verbale all’odio [hate speech] che porrebbero dei limiti a quanto è possibile dire pubblicamente in materia di razza, etnicità e orientamento sessuale, e vi sono forti voci, provenienti dalla comunità giuridica e dagli attivisti, che reclamano restrizioni alla libertà di parola.

La legge neozelandese protegge la libertà di parola, ma negli ultimi anni la legislazione ha cercato di porre dei limiti alla discussione relativa all’immigrazione, alla razza, all’etnicità. Una legge del 1993 stabilisce che è «illegale per chiunque pubblicare o distribuire parole minacciose, violente o offensive che possano eccitare l’ostilità o indurre il disprezzo verso qualsiasi gruppo di persone che possa giungere in Nuova Zelanda a motivo del colore della pelle, della razza o delle origini etniche di quel gruppo di persone»205. Un’opera di convincimento potrebbe comportare un processo civile, ma diviene un fatto penale con la possibilità di condanna al carcere qualora si dimostri che essa ha scopo deliberato di provocare «rancore e ostilità verso le persone prese di mira».

Stante questa differenza circa i concetti di equità e libertà tra Stati Uniti e Nuova Zelanda, forse non è un caso che Jeremy Waldron, un noto sostenitore delle limitazioni alla libertà di parola, sia nato in Nuova Zelanda e sia ora docente di diritto alla New York University e professore associato presso la Victoria University della Nuova Zelanda. Waldron afferma che la libertà di parola, nelle società contemporanee, è  sostanzialmente in conflitto con l’equità e pertanto propugna la soppressione delle garanzie previste dal Primo Emendamento negli Stati Uniti206. Waldron si concentra unicamente sui sentimenti feriti di coloro che sono l’obiettivo di certi discorsi, sostenendo che certi tipi di discorso venati di razzismo incidono negativamente sulla possibilità delle minoranze razziali e sessuali di vivere una vita dignitosa. Waldron metterebbe al bando affermazioni relative a certe caratteristiche dei gruppi umani che io considero solidamente fondate sui dati empirici. Waldron sostiene che ogni deviazione dall’ortodossia progressista (come ad esempio l’idea che tutte le razze possiedano gli stessi talenti e le stesse capacità naturali e che il multiculturalismo apporti benefici a tutti) siano false in maniera così ovvia da poter essere facilmente messe al bando senza alcun danno per il legittimo dibattito. Waldron afferma che «in effetti il dibattito fondamentale sulla razza è terminato, vinto, concluso». Quello della razza «non è più un tema attuale». Queste frasi suonano più come il pronunciamento di un Grande Inquisitore che come le parole di qualcuno che sia interessato alla verità riguardo alle differenze umane.

In effetti il dibattito sulla razza non è concluso, sebbene il mondo accademico possa essere adeguatamente definito come una comunità morale di sinistra nel senso dato all’espressione da  Jonathan Haidt207: una comunità morale che esercita un rigoroso controllo sulla ricerca che entra in conflitto con i dogmi dell’egualitarismo razziale.  Ricercatori come Arthur Jensen, Richard Lynn e Philippe Rushton, che hanno cercato di pubblicare i loro risultati sulle differenze razziali, si sono ritrovati socialmente isolati e hanno presto dovuto accorgersi che per loro esistono ostacoli alla pubblicazione sulle riviste accademiche più diffuse e che non c’è alcuna sovvenzione ufficiale per le loro ricerche.

Le ricerche sulle differenze razziali sono rilevanti ai fini dell’equità perché, secondo il mio parere e quello di molti altri, la politica delle azioni positive [affirmative actions], che introduce discriminazioni contro i bianchi, è intrinsecamente iniqua verso questi ultimi, limitando le opportunità di carriera di individui che non possono essere incolpati degli insuccessi degli altri gruppi. Prova ne sia che i sostenitori di tale politica non prendono in considerazione le reali differenze di capacità tra le razze e, senza alcuna prova, attribuiscono il successo dei bianchi al nebuloso concetto di “privilegio bianco”, malgrado il fatto che alcuni gruppi nonbianchi (p. es. i cinesi) forniscano in media prestazioni in ambito accademico migliori di quelle dei bianchi e abbiano occupazioni e redditi che li pongono al disopra della media dei bianchi. Da questo punto di vista, bandire la libertà di parola sul tema della razza in nome dell’equità verso questi gruppi significa non considerare l’iniquità nei confronti dei membri della maggioranza bianca.

L’appello di Waldron affinchè venga limitata la libertà di parole in nome dell’equità rafforza la tesi di Fischer, dato che Waldron è neozelandese e attribuisce a ciò che egli considera come equità un valore assai maggiore di quello della libertà individuale. Ma ciò evidenzia anche il problema dell’esistenza, almeno in certi casi, di un conflitto molto concreto tra equità e libertà che persiste nel mondo contemporaneo. Negli Stati Uniti esiste in effetti una forte tradizione circa la libertà di parola, ma non vi sono ragioni di supporre che essa continuerà in futuro. Ciò appare particolarmente ovvio considerato l’ambiente polarizzato in termini razziali prodottosi a causa della massiccia immigrazione non-bianca e del fatto che i non-bianchi sono clienti della sinistra, che attualmente sta promuovendo attivamente la censura sulle questioni riguardanti la razza e l’immigrazione. E in ogni caso, come è stato osservato in precedenza, bandire i discorsi sulla razza in nome dell’equità è un atteggiamento privo di coerenza interna, considerato come simili discorsi possano generare politiche inique verso i bianchi.

 

La rivoluzione emotiva in Inghilterra: un’ipotesi etnica.

 

Un’ipotesi etnica propone che il secolo XVIII abbia visto l’emergere di un ethos egualitario che rifletteva il passato evolutivo di importanti segmenti della popolazione britannica: l’eredità genetica dei CR primordiali e assai probabilmente una selezione successiva alle incursioni delle antiche popolazioni di derivazione Yamnaya provenienti dalle Steppe Pontiche (prese in esame nei capitoli 1-3). Come si è osservato nel capitolo 3, l’egualitarismo è un tratto notevole dei gruppi di CR di tutto il mondo. Tali gruppi possiedono dei  meccanismi atti ad impedire il dispotismo e a garantire la reciprocità, con forme di punizione che vanno dal danneggiamento fisico all’isolamento sociale e all’ostracismo208. Nel presente capitolo sono state evidenziate le forti tendenze egualitarie che caratterizzarono la rivoluzione emotiva del XVIII secolo, come pure la descrizione fatta da David Fischer delle forti tendenze verso un’etica egualitaria in Nuova Zelanda all’epoca del “secondo impero” del secolo XIX. Come si è detto nel capitolo 3, le società di CR sono comunità morali nelle quali gli individui vengono tenuti sotto attenta osservazione allo scopo di rilevare le loro deviazioni dalle norme sociali; i devianti vengono isolati, ridicolizzati e ostracizzati (un’importante caratteristica, questa, della cultura puritana descritta nel capitolo 6); le decisioni, comprese quelle di sanzionare un individuo, sono prese mediante consenso; i maschi adulti si trattano tra loro come pari.

Queste caratteristiche sono tipiche dei quaccheri e degli altri gruppi di cui si è parlato qui. L’etica dei CR implica che la reputazione morale di una persona divenga l’aspetto più importante del suo status all’interno del gruppo. Gli individui mantengono la loro posizione nella società aderendo alle sue norme morali e non manifestando disaccordo rispetto al consenso del gruppo. Fondamentalmente, il movimento per l’abolizione dello schiavismo agì definendo se stesso come in gruppo morale, psicologicamente analogo alle comunità morali dei gruppi di CR esaminati nel capitolo 3. Coloro che continuarono a sostenere la tratta e lo schiavismo vennero isolati come dei paria morali. Il fondamento morale del gruppo antischiavista era saldamente ancorato ad una sincera risposta empatica alle sofferenze degli schiavi. Queste reazioni naturali alle sofferenze altrui da parte di una significativa percentuale della popolazione stava a indicare che il gruppo morale era molto più di una creazione artificiale o arbitraria; un gruppo arbitrario non sarebbe stato convincente sul piano emotivo. Sotto questo aspetto è interessante il fatto che, come osservato in precedenza, i sostenitori dello schiavismo rendessero regolarmente omaggio all’imperativo morale dell’abolizionismo. Incapaci di creare un gruppo morale plausibile, essi optarono per argomenti basati sulla necessità o sul bene dell’impero.

La logica che collega queste tendenze al modello egualitario-individualista dei CR è quella per cui, come tutti gli esseri umani in un mondo pericoloso e difficile, i CR (o i gruppi risultanti dalla selezione evolutiva nell’Europa nordoccidentale) hanno bisogno di sviluppare gruppi coesi e collaborativi. Ma invece di fondare la coesione del gruppo sulle relazioni di parentela note, i gruppi egualitari-individualisti originari dell’Europa nordoccidentale si sono basati sulla reputazione morale, sulla fiducia e sul consenso interno. Gli egualitariindividualisti hanno creato comunità morali o ideologiche nelle quali coloro che violavano la pubblica fiducia, il consenso interno e altre manifestazioni dell’ordine morale venivano isolati, ostracizzati ed esposti alla pubblica umiliazione: un destino che, nel duro periodo ecologico dell’Età Glaciale, avrebbe significato la morte evolutiva.

Come i puritani, i quaccheri derivano da una particolare subcultura britannica a base etnica che ebbe origine in Scandinavia209. La regione inglese dove i quaccheri erano più diffusi era quella delle North Midlands, colonizzata dagli invasori vichinghi a partire all’incirca dalla fine dell’VIII secolo. Costoro attribuivano valore alla proprietà individuale di case e campi ed erano visti dagli altri come individui indipendenti ed egualitari, che vestivano in maniera simile e che mangiavano insieme. «Le loro case erano scarsamente ammobiliate e la loro cultura considerava la semplicità e il parlare schietto una virtù»210. Erano in generale contadini relativamente poveri, che lavoravano terreni scadenti e pietrosi. Storicamente, furono dominati da un’élite oppressiva e forestiera; consideravano una virtù la semplicità e il duro lavoro in un ambiente ostile211.

 

Le origini etniche e il declino dell’ethos aristocratico in Gran Bretagna.

Infine, se nel XVIII secolo si affermò saldamente un’etica egualitaria, in precedenza la società britannica era stata dominata da minoranze aristocratiche portatrici di valori elitari e gerarchici; tale sistema godeva ancora di un ampio radicamento politico e di conseguenza gli atteggiamenti popolari riguardo allo schiavismo non ebbero come risultato l’adozione di leggi contrarie alla tratta fino al 1807, e allo schiavismo in quanto tale fino al 1833. Il declino di questa struttura sociale cominciò nel XVII secolo con l’ascesa dei puritani; lo scopo di questo capitolo è stato di descrivere l’emergere della coscienza egualitaria e dei gruppi definiti su base morale nel XVIII secolo.

Fischer sostiene che la cultura aristocratica che stava per essere sostituita sembra avere avuto le proprie origini nella subcultura etnica dei sassoni germanici occidentali, che rispecchiava il filone individualista aristocratico dell’influenza culturale europea212. Questo gruppo emigrò nel VI secolo nell’Inghilterra sudoccidentale, dove divenne un’élite che praticava il matrimonio endogamico. A partire dal IX secolo circa, i membri di questa élite possedettero grandi proprietà terriere con servi e villani appartenenti alle classi medio-basse, che erano sostanzialmente degli schiavi. L’élite sassone riprodurrà questa cultura nel Sud degli Stati Uniti: una cultura caratterizzata da «ineguaglianze profonde e pervasive, da modelli di insediamento rurali e dalla coltivazione di prodotti di base, da potenti oligarchie di grandi proprietari terrieri monarchici in politica e di fede anglicana»213. Le relazioni erano relativamente egualitarie all’interno dell’élite (individualismo aristocratico) ma la società nel suo insieme era fortemente gerarchica.

Le differenze tra l’Inghilterra meridionale e le Midland industrializzate continuarono a sussistere fino al XIX secolo inoltrato, con l’«Inghilterra tory» del sud dedita all’agricoltura e quella del sudovest e delle Midland «non conformista [in materia religiosa, n. d. t.] e di solito progressista», caratterizzata da «una situazione economica più diversificata e competitiva, da un’occupazione in settori diversi da quello agricolo, dall’immigrazione (proveniente specialmente dalla “periferia celtica”) da una rapida crescita della popolazione e dall’urbanizzazione»214.

Se l’analisi di Fischer ritrae in maniera convincente la cultura aristocratica avente il suo centro nell’Inghilterra sudoccidentale, questa cultura può altresì essere stata influenzata dagli invasori normanni dell’XI secolo, dato che «la conquista annientò la classe dirigente inglese, fisicamente e geneticamente. Circa 4000-5000 thegn214a furono eliminati nelle battaglie, con l’esilio o mediante l’espropriazione, nel corso del più grande trasferimento di proprietà della storia inglese […] L’ultimo conte inglese, Watheof, fu decapitato nel 1076 […]. La classe dirigente preesistente venne di fatto digerita»215.

Ciò nondimeno i normanni, sebbene originari della Scandinavia, istituirono chiaramente nei loro nuovi domini una analoga cultura aristocratica, oppressiva, gerarchica e molto più centralizzata di quella sassone.

«La conquista significò la completa degradazione nazionale»216.

 

Conclusione.

 

Vi è un’evidente continuità tra le comunità morali che emersero nel XVIII e nel XIX secolo e il mondo contemporaneo. La logica dell’universalismo morale basato sull’interessamento empatico è oggi diffusa ovunque e utilizzata per razionalizzare qualunque cosa, dalle guerre di liberazione contro dittatori tirannici in terre lontane ai tentativi di lenire le sofferenze degli immigrati impoveriti del Terzo Mondo o degli animali. La preoccupazione empatica è il fulcro della politica per l’immigrazione e i rifugiati politici, per le relazioni etniche, la povertà e quant’altro.

Per quanto queste tendenze all’egualitarismo e all’universalismo morale fossero presumibilmente adattive all’interno delle piccole società evolutesi tra gli europei nordoccidentali (quello che gli evoluzionisti chiamano “ambiente di adattività evolutiva”) esse si stanno dimostrando maladattive nel mondo moderno, dove empatia e altruismo possono essere manipolati da potenti élite per servire ai loro interessi materiali.

A questo riguardo merita di essere menzionata una caratteristica particolare del mondo moderno: se il movimento antischiavista che ebbe inizio nel XIX secolo trasse certamente vantaggio dai giornali per la diffusione del suo messaggio, il raggio d’azione e il potere dei mezzi di comunicazione di massa odierni sono di gran lunga superiori. Grazie al potere del processo esplicito, i messaggi dei media porrono essere usati per presentare gli eventi in maniera tale da evocare empatia e perciò razionalizzare azioni che possono essere cinicamente messe al servizio degli interessi di coloro che controllano i grandi gruppi dell’informazione.

Ad esempio, nel periodo precedente la guerra in Iraq cominciata nel 2003, vi furono numerosi servizi e articoli che presentavano Saddam Hussein come un malvagio criminale, che opprimeva il suo popolo, uccideva i curdi con i gas, compiva sanguinose rappresaglie contro gli sciiti e si preparava ad usare armi di distruzione di massa contro gli Stati Uniti. L’empatia suscitata da questa propaganda mediatica che presentava un Iraq sofferente e un’America minacciata può essere stata reale, ma è altamente dubbio che l’empatia fosse l’emozione che guidava i neoconservatori e gli altri lobbisti pro-Israele, che sono stati i maggiori responsabili della propaganda in favore della guerra nei mezzi di informazione, nelle aule del Congresso e nei centri chiave delle istituzioni di sicurezza nazionale217.

La manipolazione della cultura dell’empatia per conseguire obiettivi di potere e denaro è sempre una possibilità concreta. Ma le prove presentate qui riguardano il fatto che il movimento antischiavista, così come si sviluppò nel tardo Settecento, non aveva in generale quei secondi fini, e che i suoi protagonisti diedero mostra di un sincero altruismo motivato dall’empatia (che è influenzata dalle differenze individuali nei tratti della personalità dell’amore / cura) diffondendo pubblicamente immagini raffiguranti le sofferenze degli schiavi, come pure ideologie di universalismo morale.


Note.

 

  • Il materiale sul movimento antischiavista britannico di questo capitolo si basa su Kevin MACDONALD,

The Anti-slavey Movement as an Expression of the Eighteenth-Century Affective Revolution in England: An

Ethnic Hypothesis, in Michael AUSTIN, Kathryn STASIO (eds.), Reasoning Beasts: Evolution, Cognition and Culture in the Long Eighteenth Century, New York, AMS Press, 2013: 2-39; https://www.researchgate.net/publication/312717632.

  • Per esempio, David Sloan WILSON, Lee Alan DUGATKIN, Group Selection and Assortative Interactions, “American Naturalist”, 149, 1997:336-351.
  • Kevin MACDONALD, Effortful Control, Explicit Processing and the Regulation of Human Evolved Predispositions, “Psychological Review”, 115, n. 4, 2008: 1012-1031.
  • Robert BOYD, Peter J. RICHERSON, Punishment Allows the Evolution of Cooperation (od Anything Else) in Sizable Groups, “Ethology and Sociobiology”, 13, 1995: 171-195; Joseph HENRICH, Robert BOYD, Why People Punish Defectors: Weak Conformist Transmission Can Stabilize Costly Enforcement of Norms in Cooperative Dilemmas, “Journal of Theoretical Biology, 208, 2001: 79-89.
  • David Hackett FISCHER, Fairness and Freedom: A History of Two Open Societies, New Zeland and the United States, New York, Oxford University Press, 2012.
  • In Gertrude HIMMELFARB, The Roads to Modernity: The British, French and American Enlightenments, New York, Vintage reprint (ed. orig. 2004): 131; si veda più avanti.
  • Christopher Leslie BROWN, Moral Capital, Chapel Hill, NC, North Carolina Press, 2006:161.
  • Adam HOCHSCHILD, Bury the Chains: Prophets and Rebels in the Fight to Free an Empire’s Slaves, Boston, Mariner Books, 2006: 5; corsivo nell’originale.
  • Seymour DRESCHER, Capitalism and Antislavery: British Mobilization in Comparative Perspective, New York, Oxford University Press, 1987: 2.
  • BROWN, Moral Capital, 450.
  • Ibid., 3-22.
  • Ibid., 16.
  • Robert TOMBS, The English and Their History, London, Penguin Books, 2015 (ed. orig. London, Allen Lane, 2014): 318.

[13a]  N. d. t.: Roundheads e Cavaliers (teste rotonde e cavalieri) furono le due fazioni che si fronteggiarono durante la Guerra Civile Inglese, e cioè rispettivamente i puritani che appoggiavano il parlamento e i sostenitori del re Carlo I.

  • Ibid., 329.

[14a]  N. d. t.: Rotten boroughs erano dette quelle circoscrizioni parlamentari il cui elettorato, a motivo delle sue esigue dimensioni, poteva essere facilmente controllato in vari modi.

  • Ibid., 324.
  • Ibid., 327-328.
  • In Ibid., 329.
  • Gertrude HIMMELFARB, The Roads to Modernity, 134.
  • Ibid., 142.
  • Lawrence STONE, The Family, Sex and Marriage in England: 1500-1800, London, Weidenfeld & Nicholson, 1977.
  • Ibid., 238.
  • HIMMELFARB, The Roads to Modernity, 144.
  • Elie HALÉVY, The Birth od Methodism in England, trad. Bernard Semmel, Chicago, 1971: 37.
  • Ibid., 66.
  • HIMMELFARB, The Roads to Modernity, 146.
  • HOCHSCHILD, Bury the Chains, 146 ss.
  • Ibid., 310.
  • Eric WILLIAMS, Capitalism and Slavery, Chapel Hill, NC, University of North Carolina Press, 1944. [29] BROWN, Moral Capital, 15.
  • Ibid., 24.
  • Ibid., 315.
  • Ibid., 441.
  • Ibid., 438-439.
  • Ricardo DUCHESNE, The Uniqueness of Western Civilization, Leiden, Brill, 2011: 486; virgolette nell’originale; la citazione è tratta dal filosofo David Hume.
  • Ibid., 481.
  • Barbara OAKLEY, Ariel KNAFO, Guruprasad MADHAVAN, David Sloan WILSON (eds.), Pathological Altruism, New York, Oxford University Press, 2012; cfr. cap. 8.
  • Diagnostic and Statistical Manual of the American Psychiatric Association, Washington, DC, American Psychological Association, 2000, 722.
  • Thomas A. WIDIGER, Jennifer Ruth PRESNALL, Pathological Altruism and Personality Disorder, in

Barbara OAKLEY, Ariel KNAFO, Guruprasad MADHAVAN, David Sloan WILSON (eds.), Pathological Altruism, New York, Oxford University Press, 2012: 85-93.

  • Kevin MACDONALD, Evolution, the Five Factor Model, and Levels of Personality, “Journal of Personality”, 63, 1995: 525-567.

[39a] N. d. t.: Traduciamo con amore / cura l’espressione originale love / nurturance. Il termine inglese nurturance rimanda all’affetto protettivo della madre per il figlio, o dei genitori verso i figli. Per la discussione di tale sistema della personalità si veda il cap. 8.

  • Carsten K. W. DE DREU et al., The Neuropeptide Oxytocin Regulates Parochial Altruism in Intergroup Conflict among Humans, Science, 328, n. 5984, 11 giugno 2010: 1408-1411.
  • James RAMSEY, An Essay on the Treatment and Conversion of African Slaves in the British Sugar Colonies, London, James Phillips, 1784: 2-3; https://books.google.it/books?id=Zf9AAAAAcAAJ&pg=PR1&source=gbs_selected_pages&cad=3#v=onep age&q&f=false
  • Thomas CLARKSON, Abolition of the African Slave-Trade by the British Parliament, Vol. 1, Augusta, GA, P. A. Brinsmade, 1830: 24; https://books.google.it/books?id=YHwNAAAAYAAJ&printsec=frontcover#v=onepage&q&f=false [43] MACDONALD, Effortful Control, Explicit Processing and the Regulation of Human Evolved Predispositions.
  • Ibid.
  • Si veda la recensione in Ibid.
  • William A. CUNNINGHAM et al., Separable Neural Components in the Processing of Black and White Faces, “Psychological Science”, 15, 2004: 806-813.
  • Alan G. SANFEY, Reid HASTIE, Mark K. COLVIN, Jordan GRAFMAN, Phineas Gauged: Decisionmaking and the Human Prefrontal Cortex, “Neuropsychologia”, 41, 2004: 1218-1229.
  • Joshua D. GREENE et al., Pushing Moral Buttons: The Interaction between Personal Force and Intention in Moral Judgment, “Cognition”, 111, n. 3. 2009: 364-371.
  • Kevin MACDONALD, Evolution and a Dual Processing Theory of Culture: Applications to Moral Idealism and Political Philosophy, “Politics and Culture”, Issue # 1, aprile 2010, seza numeri di pagina.
  • BROWN, Moral Capital, 398.
  • Ibid., 441.
  • MACDONALD, Effortful Control, Explicit Processing and the Regulation of Human Evolved Predispositions.
  • John GERRING, Ideology: A Definitional Analysis, “Political Research Quarterly”, 50, 1997: 957-994;

Kathleen KNIGHT, Transformations of the Concept of Ideology in the Twentieth Century, “American Political Science Review, 100, 2006: 619-625.

  • Kevin MACDONALD, Evolution, Psychology and a Conflict Theory of Culture, “Evolutionary Psychology”, 7, n. 2, 2009: 208-233.
  • HIMMELFARB, The Roads to Modernity, 19.
  • Ibid., 31.
  • Ibid., 51.
  • Ibid., 131.
  • Mary Gwladys JONES, The Charity School Movement: A Study of Eighteenth Century Puritanism in Action, Cambridge, Cambridge University Press, 1938.
  • BROWN, Moral Capital, 430.
  • David HUME, An Enquiry Concerning the Principles of Morals, 1739-1740, libro III, p.te 3, sez. 6.
  • Ibid., sez. I, p.te. 3.
  • David HUME, A Treatise of Human Nature, 1739, lib. III, p.te 3, sez. 1.
  • David HUME, An Enquiry Concerning the Principles of Morals, sez. IX, p.te. 1.
  • Ibid., sez. V, p.te. 2.
  • Adam SMITH, A Theory of Moral Sentiments, 1759, p.te I, sez. 1, cap. 1.
  • MACDONALD, Effortful Control, Explicit Processing and the Regulation of Human Evolved Predispositions.
  • SMITH, A Theory of Moral Sentiments, p.te I, sez. 1, cap. 5.
  • Ibid., p.te I, cap. 2.
  • BROWN, Moral Capital, 380.
  • In Ibid., 115.
  • Ibid., 48.
  • Ibid., 98.
  • HIMMELFARB, The Roads to Modernity, 234 [75] HOCHSCHILD, Bury the Chains, 366.

[75a] N. d. t.: in realtà a Cambridge.

  • In Ibid., 88.
  • In Ibid., 91.
  • In Ibid., 313.
  • Ibid., 128.
  • Ibid., 190.
  • In Ibid., 366.
  • In Ibid., 366.
  • BROWN, Moral Capital, 23.
  • In HOCHSCHILD, Bury the Chains, 128-229.
  • In Ibid., 133.
  • Ibid., 307.
  • BROWN, Moral Capital, 37-38; corsivo nell’originale.
  • Ibid., 49.
  • Ibid., 106-153.
  • Ibid., 437.
  • HOCHSCHILD, Bury the Chains, 45.
  • In BROWN, Moral Capital, 170. 181.
  • In Ibid., 175; corsivo nell’originale.
  • In Ibid., 199.
  • Ibid., 179-180.
  • Ibid., 441.
  • HOCHSCHILD, Bury the Chains, 91.
  • BROWN, Moral Capital, 78.
  • Ibid., 405.
  • Ibid., 391.
  • Ibid., 426.
  • Ibid., 430. [103] Ibid., 428.
  • Maurice JACKSON, Let This Voice Be Heard: Amthony Benezet, Father of Atlantic Abolitionism, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2010.
  • BROWN, Moral Capital, 401.
  • HOCHSCHILD, Bury the Chains, 78.
  • BROWN, Moral Capital, 424.
  • Ibid., 424.
  • Ibid., 429.
  • HOCHSCHILD, Bury the Chains, 327.
  • Ibid., 77.
  • BROWN, Moral Capital, 397.
  • Ibid., 425.
  • HOCHSCHILD, Bury the Chains, 108.
  • Ibid., 127.
  • Brooke PALMIERI, The Wild, the Innocent and the Quaker’s Struggles, “The Appendix”, 21 agosto 2014; http://theappendix.net/issues/2014/7/the-wild-the-innocnet-and-the-quakers-struggles.
  • TOMBS, The English and Their History, 460.
  • BROWN, Moral Capital, 88-89.
  • Thomas P. SLAUGHTER, The Beautiful Soul of John Woolman, Apostle of Abolition, New York, Hill and Wang, 2008.
  • Ibid., 341.
  • Ibid., 349.
  • Ibid., 349.
  • Ibid., 66.
  • James RAMSEY, An Essay on the Treatment and Conversion of African Slaves in the British Sugar Colonies, xvii.
  • BROWN, Moral Capital, 366.
  • In Ibid., 369.
  • RAMSEY, An Essay on the Treatment and Conversion of African Slaves in the British Sugar Colonies,

67.

  • Ibid., 70.
  • Ibid., 74-75.
  • Ibid., 3.
  • Ibid., 4.
  • BROWN, Moral Capital, 442.
  • Ibid., 352.
  • Ibid., 357.
  • Ibid., 387.
  • Ibid.
  • Ibid., 388.
  • TOMBS, The English and Their History, 459-460.
  • HIMMELFARB, The Roads to Modernity, 120.
  • Ibid., 123.
  • In Ibid., 129.
  • BROWN, Moral Capital, 210.
  • Ibid., 339.
  • John WESLEY, Thoughts upon Slavery, Dublin, W. Whitestone, 1775 (ed. orig. 1774): 13-14; https://books.google.it/books?id=iTdcAAAAQAAJ&printsec=frontcover&source=gbs_ge_summary_r&cad =0#v=onepage&q&f=false.
  • John Wesley, citato in JONES, The Charity School Movement, 141.
  • JONES, The Charity School Movement, 141.
  • HIMMELFARB, The Roads to Modernity, 139.
  • Ibid., 127-128.
  • Ibid., 128.
  • Ibid., 129.
  • Ibid., 130.
  • JONES, The Charity School Movement.
  • Ibid., 3.
  • Ibid.
  • Ibid., 7.
  • Ibid., 8.
  • Ibid., 10.
  • Andrew JOYCE, The 1865 Morant Bay Rebellion: Race and White Pathology at the Height of the British Empire, “The Occidental Quarterly”, 13. n. 2, estate 2013: 15-38.
  • Voce Jamaica in http://www.everyculture.com/Ja-Ma/Jamaica.html; Wikipedia, voce Indo Jamaicans, https://en.wikipedia.org/wiki/Indo-Jamaicans#Impact_on_Jamaican_culture_and_economy.
  • Chinese Shun Jamaica: Asian People Say Crime, Racism Make Them Feel Left Out in Society,

“Jamaica Observer”, 5 novembre 2016,  http://www.jamaicaobserver.com/news/Chinese-shun-Jamaica_78653. [161] Voce Jamaica in http://www.everyculture.com/Ja-Ma/Jamaica.html.

  • Si veda, ad esempio, J. Philippe RUSHTON, Race, Evolution and Behavior, London, Ontario, Charles Darwin Research Institute, 2000 (ed. orig. New Brunswick, NJ, Transaction, 1994).
  • JOYCE, The 1865 Morant Bay Rebellion, 16.
  • Ibid., 17-18.
  • Life, Letters and Speeches of Charles Dickens, Vol. 2: Letters of Charles Dickens, New York, Houghton Mifflin, 1894: 220.

[165a] N. d. t.: jawbones of asses: mascelle d’asino; riferimento biblico alla vicenda di Sansone, usato probabilmente per indicare dei militanti religiosi fanatici.

[165b] N. d. t.: Camberwell: quartiere di Londra dove sono vissuti diversi artisti e scrittori e che rappresenta uno dei centri della cultura londinese.

  • Ibid., 220, 220-221.
  • Lawrence JAMES, The Rise and Fall of The British Empire, London, Abacus, 2014: 185; citato in JOYCE, The 1865 Morant Bay Rebellion, 18.
  • JOYCE, The 1865 Morant Bay Rebellion, 19.
  • A FELLOW OF THE ROYAL GEOGRAPHICAL SOCIETY, Jamaica and Its Governor During the Last Six Years, London, Stanford, 1871.
  • Ibid., 4.
  • JOYCE, The 1865 Morant Bay Rebellion, 23-24.
  • Jamaica in 1895: A Handbook of Information for Intending Settlers and Others, London, Institute of Jamaica, London School of Economics Selected Pamphlets, 1895.
  • Louis CHAMEROVZOW, The Reign of Terror in Jamaica, London, William Nichols, 1866: 3.
  • Louis CHAMEROVZOW, The Continued Massacres in Jamaica, London, editore ignoto,1865: 11.
  • Blue Books on Jamaica, Bristol, University of Bristol, Bristol Selected Pamphlets, 1866: 36.
  • Ibid., 37.
  • Ibid.
  • Il passo evidenziato è tratto da JOYCE, The 1865 Morant Bay Rebellion, 30-31.
  • Kevin MACDONALD, The Culture of Critique: An Evolutionary Analysis of Jewish Involvement in

Twentieth-Century Intellectual and Political Movements, Bloomington, IN, AuthorHouse, 2002 (ed. origin.: Westport, CT, Praeger, 1998).

  • David Hackett FISCHER, Albion’s Seed: Four British Folkways in America, New York, Oxford University Press, 1989.
  • FISCHER, Fairness and Freedom.
  • Ibid., 14.

[182a] N. d. t.: Con l’espressione “leggi di Jante” (dal nome di un personaggio di un romanzo di Aksel Sandemose) si designa un modello comportamentale diffuso nella cultura scandinava che tende a criticare o ridimensionare il successo individuale in favore del ruolo della collettività. Si veda anche il capitolo 8 alla sezione intitolata L’estremismo della cultura scandinava, ecc..

  • Ibid., 386.
  • Ibid., 486-487.
  • Ibid., 487.

[185a] N. d. t.: fairness, che qui traduciamo con equità, rende anche il senso di correttezza, onestà, imparzialità, ecc. Si veda anche il capitolo 1 al paragrafo intitolato Selezione dell’abilità cognitiva generale e dei tratti fisici e alla nota 27a.

  • In base a contatti con persone di madrelingua svedese, è evidente che anche lo svedese possiede parole che rendono il senso di fair e fairness, rispettivamente: rättvis e rättvisa. Ciò non sorprende, vista la vicinanza delle lingue e delle culture scandinave.

[186a] N. d. t.: Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te.

  • Ibid., 16-17.
  • Ibid., 27.
  • Ibid., 57.
  • Ibid., 60.
  • Richard LYNN, Tatu VANHANEN, IQ and Global Inequality, Augusta, GA, Washington Summit Press, 2006.
  • FISCHER, Fairness and Freedom, 76.
  • Ibid., 93.
  • Ibid., 84.
  • Ibid., 87.
  • Ibid.
  • Ibid., 96.
  • Ibid., 106.
  • Ibid., 324.
  • Ibid., 507.
  • Ibid., 398.
  • Ibid., 400.
  • Ibid., 401. [204] Ibid., 367.
  • Tracy CORMACK, Freedom of Speech vs Hate Speech, New Zelan Law Society, 4 aprile 2019; https://www.lawsociety.org.nz/practice-resources/practice-areas/human-rights/freedom-of-speech-vs-hatespeech.
  • Jeremy WALDRON, The Harm in Hate Speech, Cambridge, Harvard University Press, 2012.
  • Jonathan HAIDT, Post-partisan Social Psychology; presentazione agli incontri della Society for Personality and Social Psychology, San Antonio, TX, 27 gennaio 2011; http://people.virginia.edu/~jdh6n/postpartisan.html.
  • Christopher H. BOEHM, Hierarchy in the Forest: The Evolution of Egalitarian Behavior, Cambridge, Harvard University Press, 1999.
  • Hugh BARBOUR, The Quakers in Puritan England, New Haven, Yale University Press, 1964; FISCHER, Albion’s Seed.
  • FISCHER, Albion’s Seed, 448.
  • Ibid.
  • Ibid.
  • Ibid., 246.
  • TOMBS, The English and Their History, 462.

[214a] N. d. t.: thegn: l’antica classe dei funzionari di corte anglosassoni.

  • Ibid., 44-45.
  • Ibid., 44.
  • Kevin MACDONALD, Neoconservatism as a Jewish Movement, “The Occidental Quarterly”, 4, n. 2, 2004: 7-74; John MEARSHEIMER, Stephen WALT, The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy, New York, Farrar, Straus and Giroux, 2008.