Gli ebrei e la critica radicale della cultura gentile: introduzione e teoria

Per 1500 anni la società ebraica era stata concepita per produrre intellettuali…  La società ebraica era strutturata per sostenerli… I ricchi mercanti sposavano le figlie dei saggi; …Di colpo, intorno al 1800, quest’antica ed efficacissima macchina sociale per la creazione di intellettuali cominciò a cambiare produzione. Anziché immettere tutti i suoi prodotti nel circuito chiuso degli studi rabbinici, …ne indirizzò una parte notevole e sempre maggiore verso la vita laica. Questo fu un evento di sconcertante importanza nella storia mondiale. (A History of the Jews, [Storia degli ebrei, N.d.T.], Paul Johnson 1988, 340-341)

Un tema importante di Separation and Its Discontents (SAID) è quello della manipolazione ideologica mirata a spiegare razionalmente determinate forme di giudaismo, a interpretare la storia e a combattere l’antisemitismo. Il presente volume è per molti versi un’estensione di questi fenomeni. Tuttavia, i movimenti intellettuali e le attività politiche qui discussi si sono tipicamente verificati nel mondo intellettuale e politico più ampio e non sono stati ideati al fine di razionalizzare forme specifiche del giudaismo. Anzi, possono essere caratterizzati in senso lato come tentativi di critica culturale e, talvolta, come tentativi di influenzare la cultura più ampia della società in maniera conforme a specifici interessi ebraici.

Qui non si allude affatto a una “congiura” ebraica unificata tesa a sovvertire la cultura gentile, come quella descritta nei famigerati Protocols of the Elders of Zion [Protocolli dei Savi Anziani di Sion, N.d.T.]. A partire dall’Illuminismo, il giudaismo non è mai stato un movimento unificato e monolitico, e si è manifestata chiaramente la profonda divisione tra gli ebrei in merito a come proteggersi e raggiungere i propri obiettivi durante questo periodo. I movimenti discussi in questo volume (l’antropologia boasiana, il radicalismo politico, la psicoanalisi, l’Istituto per le ricerche sociali di Francoforte e gli Intellettuali di New York) furono portati avanti da un numero relativamente esiguo di individui i cui punti di vista erano forse sconosciuti o incompresi dalla maggioranza della comunità. La tesi qui sostenuta è che tali movimenti fossero dominati da ebrei, che la stragrande maggioranza di questi individui fosse caratterizzata da un marcato senso di identità ebraica,

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e che questi stessi individui perseguissero obiettivi ebraici attraverso i suddetti movimenti e partecipandovi. Pertanto non si implica che il giudaismo costituisca un movimento unificato o che tutte le frazioni della comunità ebraica partecipassero a questi movimenti. Gli ebrei potrebbero costituire un elemento predominante o necessario nei movimenti politici radicali o in quelli delle scienze sociali, e l’identificazione ebraica potrebbe essere altamente compatibile con questi movimenti o persino facilitarli senza il coinvolgimento della maggioranza degli ebrei. Di conseguenza, la questione degli effetti complessivi delle influenze ebraiche sulla cultura gentile è indipendente dal se tutti o la maggior parte degli ebrei supportassero i movimenti mirati a trasformare la cultura gentile.

Questa distinzione è importante perché da una parte gli antisemiti spesso presumevano, implicitamente o esplicitamente, che il coinvolgimento ebraico nei movimenti politici radicali facesse parte di una strategia ebraica complessiva che includeva anche ricchi capitalisti ebrei, come pure il coinvolgimento ebraico nei media, nel mondo accademico e in altre sfere della vita pubblica. D’altra parte, gli ebrei intenzionati a ridimensionare l’antisemitismo derivante dal ruolo predominante degli ebrei in molti movimenti politici radicali hanno spesso fatto notare che solo una minoranza di ebrei era coinvolta in questi movimenti, e che vi prendevano parte anche i gentili. Pertanto, per esempio, la consueta risposta dell’American Jewish Committee ([Comitato ebraico statunitense, N.d.T.] di qui in seguito AJCommittee) negli anni ’30 e ’40 alla predominanza degli ebrei nei movimenti politici radicali era quella di sottolineare che la maggior parte degli ebrei non era radicale. Perciò, durante lo stesso periodo, l’AJCommittee si adoperò per contrastare il radicalismo all’interno della comunità ebraica (p. es. Cohen 1972).48 L’AJCommittee riconosceva implicitamente che le affermazioni secondo cui solo una minoranza di ebrei era radicale forse erano pur vere, ma erano irrilevanti all’atto di stabilire (1) se l’identificazione ebraica fosse compatibile con i movimenti politici radicali o facilitasse il coinvolgimento negli stessi, (2) se gli ebrei costituissero un elemento predominante o necessario nei movimenti politici radicali, o (3) se le influenze sulla società gentile derivanti dalla predominanza ebraica nei movimenti radicali (o negli altri movimenti intellettuali ebraici analizzati in questo volume) potessero essere concettualizzate come conseguenza del giudaismo come strategia evolutiva di gruppo.

In modo analogo, il fatto che la maggioranza degli ebrei prima degli anni ’30 non era – perlomeno apertamente – sionista, certamente non implica che l’identificazione ebraica fosse irrilevante in relazione al sionismo, o che gli ebrei non costituissero infatti un’influenza predominante sul sionismo, o che il sionismo non incidesse sulle società gentili, o che alcuni gentili non fossero diventati ardenti sionisti. Il radicalismo politico è stata una tra le tante opzioni a disposizione degli ebrei nel mondo post-illuministico, e qui non c’è alcuna implicazione che il giudaismo costituisse un gruppo monolitico unificato nel mondo post-illuministico. Che gli ebrei fossero più inclini a scegliere alternative politiche radicali e che essi costituissero un’influenza predominante in

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alcuni movimenti politici radicali sono pertanto fatti fortemente pertinenti al presente progetto.

Né è sorprendente che alcuni gentili fossero coinvolti in questi movimenti. A livello teorico, il mio ragionamento si basa ancora una volta su un’interpretazione evoluzionistica della teoria dell’identità sociale (si veda SAID, cap. 1). È possibile che i gentili fossero attratti dai movimenti politici e intellettuali che allettano gli ebrei e per molti degli stessi motivi, ovvero motivi legati all’identificazione sociale e alla concorrenza ingroup-outgroup. Per esempio, gli intellettuali afro-americani sono stati spesso attratti dai movimenti intellettuali di sinistra e da spiegazioni ambientalistiche delle differenze di QI tra gruppi razziali, almeno in parte come reazione alla propria percezione dell’animosità dei bianchi e alle conseguenti implicazioni di inferiorità genetica. Allo stesso modo, io sostengo che l’antisemitismo è stato una forza motivante per molti intellettuali ebrei. Si pensi al ruolo motivante dell’autostima come  primitivo teorico nella teoria dell’identità sociale. Tanti che, per qualsiasi motivo, si sentono vittime di un particolare sistema sociopolitico, sono attratti dai movimenti che criticano tale sistema, che biasimano altri per i loro problemi e che, in generale, giustificano la loro percezione positiva di sé e del proprio ingroup nonché la loro percezione negativa degli outgroup. In ciascuno dei movimenti intellettuali e politici da me analizzati, l’identificazione ebraica e l’impegno a combattere l’antisemitismo erano chiaramente coinvolti.

Inoltre, una volta che gli ebrei ottengono la predominanza intellettuale, non sorprende che i gentili siano attratti dagli intellettuali ebrei in quanto appartenenti a un gruppo dominante e prestigioso nonché elargitori di preziose risorse. Una tale prospettiva è perfettamente in linea con la prospettiva evoluzionistica sulle dinamiche di gruppo: nel navigare all’interno della gerarchia intellettuale, i gentili sarebbero presumibilmente attratti dalle caratteristiche dei membri predominanti della gerarchia, specialmente se questa era vista come permeabile. Lo scrittore William Barrett, un editore gentile della Partisan Review, descrive “il timore reverenziale e l’ammirazione” da egli nutriti nei confronti degli Intellettuali di New York (gruppo di intellettuali, prevalentemente ebrei, esaminato nel capitolo 6) all’inizio della sua carriera. “Ai miei occhi erano avvolti da uno strano e misterioso fascino” (in Cooney 1986, 227). La Partisan Review era una rivista portabandiera di questo movimento intellettuale molto influente e aveva un peso decisivo per il successo o l’insuccesso nel mondo letterario. Leslie Fiedler (1948, 872, 873), egli stesso un Intellettuale di New York, descrive un’intera generazione di scrittori americani ebrei (compresi Delmore Schwartz, Alfred Kazin, Karl Shapiro, Isaac Rosenfeld, Paul Goodman, Saul Bellow e H. J. Kaplan) come “ebrei tipicamente inurbati e di seconda generazione.” Le opere di questi scrittori comparivano regolarmente nella Partisan Review, e Fiedler osserva poi che “lo scrittore di provincia attirato da New York si sente… un bifolco, tenta di adeguarsi; e la quasi parodia dell’ebraicità offerta dallo scrittore gentile a New York è una testimonianza strana e cruciale dei nostri tempi.”

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Del campione di intellettuali americani di élite del secondo dopoguerra presentato da Kadushin (1974, 23), quasi la metà era composta da ebrei. Il campione si basava sui collaboratori più frequenti delle principali riviste intellettuali, seguito da interviste in cui gli intellettuali “votavano” per un altro intellettuale che più avesse influenzato il loro pensiero. Più del 40 percento degli ebrei del campione ricevette sei o più voti come figura più influente, rispetto a un esiguo 15 percento dei non ebrei (p. 32). Non sorprende dunque che Joseph Epstein (1997) rilevi che durante gli anni ’50 e i primi anni ’60 l’essere ebrei era un titolo “onorifico” tra gli intellettuali in generale. Gli intellettuali gentili “setacciavano il proprio albero genealogico alla ricerca di antenati ebrei” (Epstein 1997, 7). Già dal 1968 Walter Kerr poté scrivere: “Ciò che è successo dalla seconda guerra mondiale in poi è che la sensibilità americana è diventata parzialmente ebraica, forse tanto ebraica quanto altro… La mente americana colta è arrivata in qualche misura a ragionare in modo ebraico. Così le è stato insegnato, ed era pronta a farlo. Agli uomini di spettacolo e ai romanzieri seguirono i critici, i politici e i teologi ebrei. I critici, i politici e i teologi sono formatori per professione; plasmano i modi di vedere.” Nella mia esperienza personale, questo status onorifico degli intellettuali ebrei è tuttora comune tra i miei colleghi ed è evidente, per esempio, nella recente opera di Hollinger (1996, 4) sulla “trasformazione della demografia etnoreligiosa della vita accademica americana da parte degli ebrei” nel periodo compreso tra gli anni ’30 e gli anni ’60.

Infine, un tema importante è quello del frequente ricorso da parte dei movimenti qui esaminati al reclutamento attivo dei gentili, ai quali veniva conferito un ruolo di grande rilievo all’interno di questi movimenti per sminuire l’impressione che fossero effettivamente dominati dagli ebrei o che fossero finalizzati esclusivamente a ristretti interessi settari ebraici. Dalla prospettiva della teoria dell’identità sociale, tale strategia mira a far sì che i gentili percepiscano il movimento intellettuale o politico come permeabile ai non ebrei e volto a soddisfare gli interessi dei gentili. Come indicato in SAID (capp. 5,6), la retorica dell’universalismo e il reclutamento di gentili come fautori degli interessi ebraici sono stati temi ricorrenti nel combattere l’antisemitismo sia nel mondo antico che in quello moderno.

È inoltre importante tenere presente che l’efficacia e l’importanza della partecipazione ebraica ai movimenti discussi in questo volume erano indubbiamente assai sproporzionate rispetto al numero effettivo degli ebrei coinvolti. A titolo di esempio, sebbene in particolari epoche storiche gli ebrei costituissero una minoranza numerica all’interno dei movimenti politici o intellettuali radicali, è ben probabile che rappresentassero una condizione necessaria per l’efficacia e l’importanza storica di questi movimenti. Gli ebrei che diventarono radicali conservarono il loro elevato QI, l’ambizione, la persistenza, la laboriosità, e la capacità di organizzare e partecipare a gruppi coesi e fortemente impegnati (si veda PTSDA, cap. 7). Come fa notare Lindemann (1997, 429) a proposito dei bolscevichi ebrei, “citare i

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numeri assoluti degli ebrei, o la percentuale da loro rappresentata, porta a tralasciare certi fattori chiave, sebbene intangibili: l’assertività e le capacità verbali spesso ammalianti dei bolscevichi ebrei, la loro energia e la loro forza di convinzione.” Gli ebrei tendono a essere nettamente al di sopra della media per quanto concerne questi tratti, e questi tratti sono stati fondamentali per il giudaismo in quanto strategia evolutiva di gruppo nel corso della storia.

A proposito degli intellettuali radicali ebrei americani, Sorin (1985, 121-122) fa notare in modo particolare la loro laboriosità e dedizione, il desiderio di lasciare un segno e di farsi strada nel mondo, di promuoversi e di conquistare il plauso pubblico – tutte caratteristiche che favoriscono la mobilità ascendente in qualsiasi percorso di vita. Questi attivisti diventarono pertanto una forza più potente ed efficace rispetto ai gruppi di gentili similmente proletarizzati. “Un proletariato ebraico, consapevole del proprio interesse di classe e della propria identità culturale, cresceva, e contemporaneamente crescevano l’attivismo e l’organizzazione” (Sorin 1985, 35). Sorin (1985, 28) concorda con l’affermazione secondo cui circa la metà dei rivoluzionari in Russia nel 1903 era composta da ebrei e osserva che la militanza operaia ebraica – calcolata in base al numero di scioperi e del tempo lavorativo perso – era tre volte quella di qualsiasi altra classe operaia in Europa tra il 1895 e il 1904 (p. 35).  Nell’ambito dei circoli di sinistra, gli ebrei erano considerati l’avanguardia del movimento. Una volta che questa massa critica di ebrei divenne radicalizzata, non sorprende che ci furono importanti ripercussioni in Europa e nell’America del Nord. Oltre a essere radicali, questi ebrei erano un gruppo di persone di grande talento, intelligenza e impegno. Analogamente, Hollinger (1996, 19) osserva che gli ebrei esercitarono maggiore influenza, rispetto ai cattolici, nel declino dell’omogeneità della cultura cristiana protestante negli Stati Uniti, per via della loro maggior ricchezza, status sociale, e competenza tecnica nella sfera intellettuale.

Un tema importante, pertanto, è che gli ebrei che avviarono e dominarono i movimenti analizzati in questo volume erano caratterizzati da intelligenza, persistenza, e dalla capacità di far parte di gruppi coesi, collaborativi, e altamente focalizzati. Questi gruppi possono dunque essere concettualizzati come versioni laiche dei gruppi ebraici storici, non solo per l’alto grado di identità ebraica caratteristica dei loro membri, ma anche perché questi gruppi mantenevano le caratteristiche essenziali del giudaismo come strategia evolutiva di gruppo. Per via di tali caratteristiche, questi gruppi erano straordinariamente efficaci nel raggiungere i loro obiettivi. Nel complesso, i casi di studio qui discussi offrono un’ulteriore indicazione del fatto che i gruppi altamente disciplinati e collaborativi sono in grado di sbaragliare le strategie individualiste. Infatti, un importante filo rosso nei capitoli che seguono è quello secondo il quale gli intellettuali ebrei hanno formato gruppi molto coesi la cui influenza deriva in larga misura dalla solidarietà e dalla coesione del gruppo. L’attività intellettuale è come qualsiasi altra impresa umana: i gruppi coesi prevalgono sulle strategie individualiste. La verità fondamentale di questo assioma è stata cardinale per il successo del giudaismo nel corso della sua storia, sia nelle alleanze d’affari

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e nei monopoli commerciali che nei movimenti intellettuali e politici qui discussi (si veda in particolare PTSDA, cap. 5).

Un altro importante tema di questo volume è quello secondo cui gli intellettuali ebrei hanno creato movimenti intellettuali che hanno assoggettato le istituzioni della società gentile a forme radicali di critica. Per contro, le società dominate dai gentili hanno spesso sviluppato ideologie egemoniche intese a spiegare e a razionalizzare le istituzioni attuali della società. Presumibilmente, questo è stato il caso per le principali religioni del mondo e, più recentemente, ideologie quali il comunismo, il fascismo, e la democrazia liberale sembrano svolgere una funzione simile. Il giudaismo, a causa della sua posizione come strategia di gruppo minoritario dedicato alla propria visione del mondo, tendeva ad adottare ideologie in cui le istituzioni e le ideologie della società circostante sono percepite negativamente.

Tale risultato deriva direttamente dalla teoria dell’identità sociale. Di particolare rilievo sono le percezioni negative dei gentili, manifeste negli scritti religiosi ebraici. La legge della purezza considera i gentili e le loro terre intrinsecamente impuri. I gentili sono tipicamente paragonati a bestie capaci delle peggiori nefandezze, come negli scritti di Maimonide in cui le donne pagane sono sospettate di prostituzione e gli uomini pagani di bestialità (The Code of Maimonides, Book V: The Book of Holiness, XXII, 142 [Il codice di Maimonide: Il libro della santità, N.d.T.]). Gli ebrei concettualizzano se stessi come i discendenti di Giacobbe, descritto nella Genesi come delicato, contemplativo e dalla pelle liscia. I gentili sono rappresentati invece da Esau, fratello gemello di Giacobbe, l’opposto di Giacobbe – irsuto, rozzo e brutale. Mentre Esau vive di caccia e guerra, Giacobbe vive di intelligenza e furbizia ed è il padrone effettivo di Esau, a cui Dio ha comandato di servire Giacobbe. Lindemann (1997, 5) dimostra che questi stereotipi continuano ad essere salienti per gli ebrei nell’epoca contemporanea.

Il giudaismo può arrivare ad essere considerato sovversivo quando gli ebrei cercano di inculcare percezioni negative della cultura gentile tra i non ebrei. L’associazione del giudaismo alle ideologie sovversive ha una lunga storia. Osservando il legame tra gli ebrei e le idee sovversive nei paesi musulmani, Lewis (1984, 104) afferma che il tema della sovversione ebraica è familiare anche in “altri tempi e luoghi.” Johnson (1988, 214-215) constata che a partire dal Medioevo gli ebrei convertiti, specialmente quelli costretti alla conversione, costituivano “un elemento critico, irrequieto e destabilizzante all’interno dell’intellighenzia… [Perciò] l’affermazione secondo cui erano intellettualmente sovversivi aveva un elemento di verità.”  Il titolo di un recente libro sull’arte ebraica nel Medioevo esprime bene questo tema: Dreams of Subversion in Medieval Jewish Art and Literature [Sogni di sovversione nell’arte e letteratura ebraica, N.d.T.] (M. M. Epstein 1997). Epstein commenta: “Si percepisce la rabbia che devono aver provato gli ebrei del tardo Medioevo quando invocavano la distruzione della Cristianità” (p. 115).

Nel mondo antico fino al Medioevo, i punti di vista negativi sulle istituzioni gentili erano relativamente circoscritte al consumo interno nell’ambito della comunità ebraica.

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Tuttavia, a partire dai tumulti legati ai conversi nella Spagna del XV secolo, queste opinioni si manifestavano spesso nei circoli intellettuali più prestigiosi e nei mezzi di comunicazione di massa. Generalmente queste idee sottoponevano le istituzioni della società gentile a una critica radicale o portavano alla creazione di strutture intellettuali che giustificavano l’identificazione ebraica in un ambiente intellettuale post-religioso.

Faur (1992, 31 segg.) dimostra che i conversi nella Spagna del XV e XVI secolo erano vastamente sovrarappresentati tra i pensatori umanisti che si opponevano al carattere corporativistico della società spagnola incentrata sul cristianesimo. Nel descrivere l’approccio generale di questi scrittori, Faur (1992, 31) fa notare che “Sebbene la strategia variasse – dalla creazione di opere letterarie molto sofisticate alla stesura di saggi accademici e filosofici – l’obiettivo era uno solo: presentare idee e metodologie che soppiantassero i valori e le istituzioni del ‘vecchio cristiano.’  … L’urgenza di rivisitare i valori e le istituzioni della Spagna cristiana diventò più evidente con il primo massacro dei conversos perpetrato dai vecchi cristiani a Toledo nel 1449.” In modo simile, Castro (1954, 557-558) fa notare che le opere di “violenta critica sociale” e “rancore antisociale”, in modo particolare la satira sociale, nacquero durante il XV secolo dalla penna di scrittori conversi.

Ne è un esempio emblematico La Celestina (1° edizione del 1499) di Fernando de Rojas, che scriveva “con tutta l’angustia, il pessimismo e il nichilismo di un converso che ha perso la religione dei suoi padri ma che non è riuscito a integrarsi nell’ambito della fede cristiana.” Rojas sottopose la società castigliana del suo tempo ad “un’analisi corrosiva, annientando con uno spirito che è stato definito ‘distruttivo’ tutti i valori tradizionali e gli schemi mentali del nuovo sistema intollerante. Cominciando con la letteratura e procedendo con la religione, passando attraverso tutti i ‘valori’ del castismo istituzionalizzato – l’onore, il valore, l’amore – tutto viene perversamente polverizzato” (Rodríguez-Puértolas 1976, 127).

Questa associazione tra ebrei a ideologie sovversive continuò durante e dopo l’Illuminismo, man mano che gli ebrei potevano partecipare al discorso intellettuale pubblico nell’Europa occidentale. Paul Johnson (1988, 291-292), scrivendo a proposito di Baruch Spinoza, lo descrive come “il primo esempio importante del puro potere distruttivo del razionalismo ebraico svincolatosi dalle restrizioni della comunità tradizionale.” Analogamente, Heinrich Heine costituisce “sia il prototipo che l’archetipo di una nuova figura nella letteratura europea: il letterato radicale ebreo che si avvaleva del suo genio, della sua reputazione, e della sua popolarità per erodere la fiducia  intellettuale dell’ordine stabilito” (Johnson 1988, 345).

Questo “puro potere distruttivo” dell’intelletto ebraico era un aspetto importante dell’epoca pre-nazionalsocialista in Germania. Come indicato in SAID (capp. 2, 5), un’importante caratteristica dell’antisemitismo tra i conservatori sociali e gli antisemiti razziali in Germania dal 1870 al 1933 era la convinzione che gli ebrei

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fossero determinanti nella creazione di idee che sovvertivano i tradizionali atteggiamenti e principi tedeschi. Gli ebrei erano vastamente sovrarappresentati tra i redattori e gli scrittori degli anni ’20 in Germania, e “una causa più generale dell’accresciuto antisemitismo era la propensione molto spiccata e sfortunata degli ebrei dissidenti ad attaccare le istituzioni e tradizioni nazionali sia nelle pubblicazioni socialiste che in quelle non socialiste” (Gordon 1984, 51).49 Questa “violenza mediatica” diretta alla cultura tedesca da scrittori ebrei come Kurt Tucholsky – che “manifestava apertamente i propri sentimenti sovversivi” (Pulzer 1979, 97) – era ampiamente segnalata dalla stampa antisemitica (Johnson 1988, 476-477).

Non solo gli ebrei erano sovrarappresentati tra i giornalisti, gli intellettuali e i “produttori di cultura” radicali nella Germania di Weimar, in pratica avevano creato questi movimenti. “Criticavano violentemente tutto della società tedesca. Disprezzavano le forze armate, la magistratura e la classe media in generale” (Rothman & Lichter 1982, 85). Massing (1949, 84) fa notare come l’antisemita Adolf Stoeker percepisce una “mancanza di riverenza per il mondo cristiano conservatore” da parte degli ebrei.

Durante l’epoca di Weimar, l’antisemitismo tra i professori universitari era alimentato in parte dalla percezione che “l’ebreo rappresentava gli aspetti critici o ‘negativi’ del pensiero moderno, gli acidi dell’analisi e dello scetticismo che contribuivano a dissolvere le certezze morali, l’impegno patriottico e la coesione sociale degli stati moderni” (Ringer 1983, 7). Rispecchiando questa percezione, la propaganda nazionalsocialista dell’epoca sosteneva che gli ebrei cercavano di minare la coesione sociale della società gentile, e nello stesso tempo erano fortemente impegnati a rimanere un gruppo coeso – un doppiopesismo intellettuale in cui la base della coesione sociale tra i gentili veniva sottoposta a un’intensa critica mentre gli ebrei “conservavano la loro coesione internazionale, i legami di sangue, e l’unione spirituale” (Aschheim 1985, 239). Da questa prospettiva, un importante obiettivo dello sforzo intellettuale ebraico può essere compreso come un tentativo di minare le strategie gentili per la coesione di gruppo, pur continuando a portare avanti la propria strategia di gruppo fortemente coeso. Tale questione riemergerà nella discussione sul coinvolgimento ebraico nei movimenti politici radicali e nell’Istituto per le ricerche sociali di Francoforte nei capitoli 3 e 5.

Questo fenomeno non era limitato alla Germania. Gilson (1962, 31-32), facendo riferimento ai suoi professori ebrei all’inizio del secolo in Francia, dichiara:

Le dottrine di questi professori universitari erano davvero molto diverse le une dalle altre. Perfino la filosofia personale di Levy-Bruhl non coincideva esattamente con quella di Durkheim, mentre Frédéric Rauh andava per la sua strada… L’unico elemento comune alle loro dottrine è uno negativo, ma cionondimeno reale

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e a suo modo molto attivo. Lo si potrebbe definire una sfida radicale contro tutto ciò che viene considerato un vincolo sociale da cui liberarsi. Spinoza e Brunschvieg raggiunsero questa liberazione tramite la metafisica, Durkheim e Levy-Bruhl tramite la scienza e la sociologia, e Bergson tramite l’intuizione.

Dalla metà degli anni ’60 negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Francia, gli ebrei si trovano all’avanguardia della cultura contestatrice, particolarmente come difensori della cultura contestatrice nei media e nel mondo accademico (Ginsberg 1993, 125 segg.; Rothman & Isenberg 1974a, 66-67).50 Stein (1979, 28; si veda anche Lichter et al. 1994; Powers et al. 1996) dimostra che il suo campione di scrittori e produttori televisivi degli anni ’70, prevalentemente composto da ebrei, rivelava atteggiamenti molto negativi nei confronti di ciò che considerava un establishment culturale dominato dai gentili, sebbene i commenti più negativi venissero raccolti durante le conversazioni informali anziché nelle interviste formali. Le rappresentazioni televisive dei personaggi dell’establishment gentile nel commercio e nelle forze armate tendevano a essere molto negative. Per esempio, “gli scrittori evidentemente concepivano i militari come ben rasati, biondi e di origini pienamente WASP. Agli occhi di alcune persone che ho intervistato, questi ufficiali biondi erano sempre sull’orlo di diventare nazionalsocialisti. Erano considerati parte di una classe dirigente ariana che, effettivamente o potenzialmente, reprimeva coloro che erano di origine etnica diversa” (pp. 55-56).

Infatti, Glazer e Moynihan (1963/1970) attribuiscono l’emergere della cultura contestatrice negli Stati Uniti al trionfo della prospettiva politico-culturale ebraica di New York. Scrittori e artisti visivi ebrei (compresi E. L. Doctorow, Norman Mailer, Joseph Heller,51 Frederick Wiseman e Norman Lear) erano spropositatamente coinvolti nei tentativi di rappresentare la società americana come “malata” (Rothman & Lichter 1982, 120). Una tecnica comune della sovversione culturale “comporta un attacco alle vere diseguaglianze o irrazionalità. Dal momento che queste abbondano in ogni società, i bersagli non mancano mai. Tuttavia, generalmente l’attacco non è diretto alla particolare diseguaglianza o irrazionalità in sé. Piuttosto, tali diseguaglianze o irrazionalità sono strumentalizzate per raggiungere uno scopo più ampio: il complessivo indebolimento dell’ordine sociale stesso” (Rothman & Lichter 1982, 120).

In questo volume concentrerò la mia attenzione sul coinvolgimento ebraico nei movimenti contrari alle scoperte evoluzionistiche, biologiche e genetiche nelle scienze sociali, nelle ideologie politiche radicali, nella psicoanalisi, nell’Istituto per le ricerche sociali di Francoforte e negli Intellettuali di New York. Questi movimenti non sono specificamente ebraici nel senso che non sono stati ideati per razionalizzare aspetti specifici del giudaismo come il separatismo culturale e genetico. Un punto importante sarà che gli ebrei erano massicciamente sovrarappresentati in questi movimenti, che un marcato senso di identità ebraica

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caratterizzava la stragrande maggioranza di questi individui, e che tutti questi movimenti comportavano l’alienazione dalla cultura gentile e il suo ripudio.

La discussione pertanto rispecchia la descrizione di Sorkin (1985, 102) degli intellettuali ebreo-tedeschi del XIX secolo come costituenti “una comunità invisibile di ebrei tedeschi acculturati che perpetuavano forme culturali distinte all’interno della cultura maggioritaria.” Il contributo ebraico alla più ampia cultura gentile era pertanto realizzato da una prospettiva molto particolaristica in cui l’identità di gruppo ebraica continuava a essere di primaria importanza malgrado la sua “invisibilità.” Perfino Berthold Auerbach (nato nel 1812), esempio tipico dell’intellettuale ebreo assimilato, “manipola[va] elementi della cultura maggioritaria in un modo che era peculiare della minoranza ebreo-tedesca” (Sorkin 1985, 107). Auberbach diventò un modello, per gli intellettuali ebrei laici, dell’ebreo assimilato che non rinnegava il suo ebraismo. Per lo più, questi intellettuali ebrei laici frequentavano esclusivamente altri ebrei laici e consideravano il proprio contributo alla cultura tedesca come una forma laica di giudaismo – da qui la “comunità invisibile” di intellettuali di forte identità ebraica. Questa manipolazione culturale al servizio degli interessi di gruppo era un tema comune degli scritti antisemitici. Pertanto, la critica della cultura tedesca di Heinrich Heine veniva vista come finalizzata al perseguimento del potere per il suo gruppo a scapito della coesione della società gentile (si veda Mosse 1970, 52).

In diversi dei movimenti discussi nei capitoli successivi, è molto significativo che i loro disseminatori cercassero di ammantare la propria retorica nella scienza – arbitro moderno della verità e della rispettabilità intellettuale. Come fa notare White (1966, 2) in merito alla scuola boasiana di antropologia, l’aura di scienza è ingannevole: “Facevano sembrare e volevano far credere a tutti che la loro scelta di premesse e di obiettivi fosse determinata da considerazioni scientifiche. Questo non è sicuramente il caso… Sono ovviamente sinceri. La loro sincerità e lealtà di gruppo tendono, tuttavia, a persuadere e di conseguenza a ingannare.”

Questo commento è un esempio eccellente della teoria evoluzionistica di autoinganno di Robert Trivers (1985): gli ingannatori più bravi sono gli auto-ingannati. Talvolta l’inganno diventa cosciente. Charles Liebman (1973, 213) descrive la propria accettazione inconsapevole delle ideologie universaliste (comportamentismo e progressivismo) nella sua attività di scienziato sociale e ipotizza di essersi auto-ingannato circa il ruolo svolto dall’identificazione ebraica nella formazione delle sue convinzioni: “Come comportamentista (e progressista) posso giurare di essere stato poco autocosciente della mia metodologia accademica,  ma immagino che dovesse essere per forza così. Altrimenti starei negando lo stesso universalismo in cui io credo.”

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LA CONCETTUALIZZAZIONE DELLA CRITICA RADICALE EBRAICA ALLA SOCIETÀ GENTILE

Come sopra documentato, in diverse epoche si assiste a una tendenza generale degli intellettuali ebrei a occuparsi di critica sociale, e ho accennato a un’analisi nei termini della teoria dell’identità sociale. Più formalmente, due ragioni distinte spiegano perché è prevedibile che gli ebrei promuovano ideologie e movimenti politici mirati a sovvertire l’esistente ordine sociale gentile.

Innanzitutto, tali ideologie e movimenti possono essere finalizzati a favorire economicamente o socialmente gli ebrei. Chiaramente uno dei temi del giudaismo post-illuminista è quello della rapida mobilità sociale degli ebrei e dei tentativi, da parte delle strutture del potere gentili, di limitare l’accesso degli ebrei al potere e allo status sociale. Data questa realtà piuttosto evidente, ragioni pratiche di interesse economico e politico portavano gli ebrei ad essere attratti da movimenti che criticavano la struttura del potere gentile o che addirittura ne promuovevano il completo rovesciamento.

Pertanto le restrizioni imposte agli ebrei dal governo zarista in Russia erano motivate dalla paura che questi prevalessero sui russi gentili nella libera concorrenza economica (Lindemann 1991; SAID, cap. 2). Queste restrizioni zariste imposte agli ebrei erano un elemento di coesione per gli ebrei di tutto il mondo, e non è affatto irragionevole supporre che la partecipazione ebraica ai movimenti radicali in Russia fosse motivata dalla percezione di un interesse ebraico a rovesciare il regime zarista. Infatti, Arthur Liebman (1979, 29 segg.) osserva che il radicalismo politico ebraico nella Russia zarista deve essere interpretato come risultato delle restrizioni economiche imposte agli ebrei dal governo nel contesto di una diffusa povertà e di un rapido aumento demografico degli ebrei. In modo analogo, fino agli anni ’30 inoltrati, il movimento operaio socialista ebraico negli Stati Uniti si dedicava principalmente a migliorare le condizioni lavorative dei suoi membri ebrei (Liebman 1979, 267).

Un altro obiettivo pratico dei movimenti politici e intellettuali ebraici è quello di combattere l’antisemitismo. Per esempio, l’attrazione esercitata dal socialismo sugli ebrei in molti paesi negli anni ’30 era in parte motivata dall’opposizione comunista al fascismo e all’antisemitismo (Lipset 1988, 383; Marcus 1983). La generale inclinazione ad associare l’antisemitismo con le opinioni politiche conservatrici è stata spesso avanzata come spiegazione del coinvolgimento ebraico nella sinistra, incluse le tendenze di sinistra di molti ebrei benestanti (p. es. Lipset 1988, 375 segg.). Combattere l’antisemitismo diventò inoltre un obiettivo importante dei radicali ebrei negli Stati Uniti dopo che la maggioranza degli ebrei era entrata a far parte della borghesia (Levin 1977, 211). Il crescente antisemitismo e le conseguenti restrizioni sulla mobilità ascendente ebraica

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durante gli anni ’30 contribuì ulteriormente ad attrarre gli ebrei verso la sinistra (Liebman 1979, 420 segg., 507).

Come diventerà chiaro nel capitolo 2, il determinismo culturale della scuola boasiana serviva a combattere l’antisemitismo attraverso l’opposizione al pensiero razziale e ai programmi eugenetici promossi prevalentemente dai gentili. La psicoanalisi (cap. 4) e la Scuola di Francoforte (cap. 5) sono state anch’esse determinanti nello sviluppo e nella propagazione delle teorie dell’antisemitismo che attribuivano lo stesso antisemitismo alle proiezioni irrazionali dei gentili. Nel caso della Scuola di Francoforte, la teoria serviva inoltre a patologizzare la lealtà di gruppo gentile quale sintomo di un disturbo psichiatrico, sorvolando invece sulla coesione di gruppo ebraica.

In secondo luogo, il coinvolgimento ebraico nella critica sociale potrebbe essere condizionato da processi di identità sociale indipendenti da qualsiasi obiettivo pratico quale lo sconfiggere l’antisemitismo. Le ricerche sui processi di identità indicano un tendenziale allontanamento dei pareri dell’ingroup dalle norme dall’outgroup (Hogg & Abrams 1988). Nel caso del contatto ebreo-gentile, queste norme dell’outgroup rappresenterebbero in modo paradigmatico le opinioni comuni della società gentile. Per di più, ci si aspetterebbe che gli individui che si identificano come ebrei formino attribuzioni negative nei confronti dell’outgroup, e nel caso degli ebrei il principale outgroup è la struttura del potere gentile e, difatti, la struttura sociale dominata dai gentili in generale.

Lo status di ingroup ebraico in relazione al mondo gentile come outgroup, porterebbe presumibilmente a una generalizzata concettualizzazione negativa dell’outgroup gentile e a una tendenza a enfatizzare eccessivamente gli aspetti negativi della società e della struttura sociale gentile. Dalla prospettiva dell’identità sociale, c’è dunque da aspettarsi che la tendenza ebraica a sovvertire l’ordine sociale si estenda oltre l’elaborazione di ideologie e di programmi sociali che soddisfino specifici interessi economici e sociali ebraici, fino ad arrivare a una svalutazione e critica generale della cultura gentile – “il puro potere distruttivo del razionalismo ebraico una volta liberatosi dai vincoli della comunità tradizionale” (Johnson 1988, 291-292).

La prospettiva dell’identità sociale prevede inoltre che siffatte attribuzioni negative saranno particolarmente probabili laddove la struttura del potere gentile sia antisemitica o percepita come tale. Uno dei risultati fondamentali delle ricerche sull’identità sociale è che i gruppi cercano di sovvertire le categorizzazioni sociali negative imposte loro da un altro gruppo (Hogg & Abrams 1988). I processi di identità sociale pertanto sarebbero intensificati dalle percezioni ebraiche dell’ostilità della cultura gentile verso gli ebrei e della frequente persecuzione degli ebrei da parte dei gentili. Perciò Feldman (1993, 43) rileva la presenza di forti tendenze verso l’accresciuta identificazione ebraica e il rifiuto della cultura gentile come conseguenza dell’antisemitismo, sin dagli inizi del giudaismo nel mondo antico e nell’arco dell’intera storia ebraica. In Lord George Bentnick: A Political Biography [Lord George Bentnick: una biografia politica, N.d.T.] (1852, 489), il teorico razziale ottocentesco Benjamin Disraeli,

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che manteneva una fortissima identità ebraica nonostante fosse un cristiano battezzato, affermò che “la persecuzione… benché ingiusta, può aver ridotto gli ebrei contemporanei a condizioni che quasi giustificano la maligna vendetta. È possibile che siano diventati talmente odiosi e ostili nei confronti dell’umanità da meritare, per la loro attuale condotta, a prescindere da come sia stata cagionata, l’infamia e il maltrattamento da parte delle comunità in cui vivono e con cui a mala pena gli è permesso di socializzare.” Il risultato, secondo Disraeli, è che gli ebrei percepirebbero la società gentile in termini molto negativi e potrebbero tentare di rovesciare l’ordine sociale esistente:

Ma la società esistente ha scelto di perseguitare questa razza che dovrebbe fornire i suoi migliori alleati, e con quali conseguenze? Le si può ritrovare nell’ultima manifestazione del principio distruttivo in Europa. Scoppia un’insurrezione contro la tradizione e l’aristocrazia, contro la religione e la proprietà…52 Il popolo di Dio collabora con gli atei; i più abili accumulatori di beni si alleano con i comunisti; la razza peculiare e prescelta tocca la mano a tutta la feccia e alle  caste inferiori d’Europa! E tutto ciò perché vogliono distruggere quella Cristianità ingrata che deve loro perfino il suo nome, e la cui tirannia non possono più sopportare (Disraeli 1852, 498-499)53

Infatti, Theodore Herzl abbracciò il socialismo nell’ultimo decennio dell’Ottocento come risposta ebraica al persistente antisemitismo, non per il suo obiettivo politico di livellamento economico, ma perché avrebbe distrutto la struttura antisemitica del potere gentile: “Da reietti della società [gli ebrei] diventeranno nemici della società. Ah, non vengono protetti nel loro onore civico, si permette che vengano insultati, disprezzati e a volte anche depredati e malmenati – che cosa impedisce loro di passare dalla parte dell’anarchia?” Gli ebrei “non hanno più alcun interesse nello Stato. Aderiranno ai partiti rivoluzionari, fornendo o affilando le proprie armi. Vogliono consegnare gli ebrei alla folla – bene, loro stessi passeranno dalla parte del popolo. Attenzione, sono al limite della sopportazione; non esagerate” (in Kornberg 1993, 122).

In modo analogo, Sammons (1979, 263) descrive la base dell’attrazione reciproca tra Heinrich Heine e Karl Marx, osservando che “non erano riformatori, ma portatori di odio, ed era questo probabilmente il legame principale tra loro.” L’idea, coerente con la teoria dell’identità sociale, è che un’importante motivazione degli intellettuali ebrei coinvolti nella critica sociale fosse semplicemente l’odio verso la struttura del potere dominata dai gentili e percepita come antisemitica. Questa profonda antipatia nei confronti del mondo non ebreo traspare anche nel commento del sociologo e Intellettuale di New York Michael Walzer (1994, 6-7) in merito alle

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“patologie della vita ebraica,” particolarmente “il senso che ‘tutto il mondo è contro di noi’, la conseguente paura, il risentimento, e l’odio del goy, i sogni segreti di rivalsa e trionfo.” Tali “sogni segreti di rivalsa e trionfo” sono un tema dell’analisi dei radicali ebrei nel capitolo 3, e di Freud e del movimento psicoanalitico nel capitolo 4.

Infatti l’odio intenso nei confronti di presunti nemici sembra un’importante caratteristica psicologica degli ebrei. È notevole che Schatz (1991, 113) concluda che mentre tutti i comunisti polacchi nel periodo tra le due guerre odiavano i loro nemici, i presunti nemici dei comunisti ebrei erano più numerosi e l’odio nei loro confronti più intenso. Come elaborato ulteriormente nel capitolo 3, questi gruppi comunisti erano ingroup altamente coesi assolutamente analoghi, in termini di struttura e orientamento psicologico, ai gruppi ebraici tradizionali. L’ipotesi che i comunisti ebrei nutrissero sentimenti negativi più intensi nei confronti dei loro nemici è molto compatibile con il materiale in PTSDA (cap. 8) e SAID (cap. 1), il che lascia supporre che i sistemi di identità sociale degli ebrei siano ipertrofizzati e che da parte loro esista un’esagerata tendenza verso strutture sociali collettiviste. La maggiore intensità dell’odio degli ebrei verso gli outgroup e i presunti nemici potrebbero essere semplicemente una manifestazione emotiva di queste tendenze. Infatti in PTSDA ho passato in rassegna prove da cui emerge che gli ebrei erano molto compartimentalizzati nella vita emotiva – inclini all’oscillazione tra interazioni sociali positive (dirette paradigmaticamente verso i membri del percepito ingroup) e un’intensa ostilità interpersonale (diretta paradigmaticamente verso i membri di un percepito outgroup).

La teoria dell’identità sociale prevede inoltre che l’attività intellettuale ebraica sarà diretta all’elaborazione di ideologie che affermino la loro identità sociale di fronte a categorie sociali elaborate dagli antisemiti. Storicamente questo è stato un tema ricorrente nell’apologia religiosa ebraica (si veda SAID, cap. 7), ma figura anche tra gli scrittori ebrei laici. Castro (1954, 558) descrive i tentativi di intellettuali tra i nuovi cristiani di “difendere il lignaggio ebraico” dalla denigrazione antisemitica durante l’epoca dell’Inquisizione. Il vescovo converso di Burgos dichiarò: “Non pensate di potermi insultare chiamando i miei antenati ebrei. Lo sono, di certo, e ne sono lieto; se grande longevità costituisce nobiltà, chi altri può risalire a un tempo così lontano? L’ebreo, disceso dai Maccabei e dai Leviti, è “nobile per nascita.” Castro (1954, 559) fa notare altresì che uno dei temi della letteratura dei nuovi cristiani dell’epoca era quello della “stima verso l’uomo socialmente inferiore collocato ai margini della società.” La categoria alla quale gli ebrei sentono di appartenere è presentata sotto una luce favorevole.

Curiosamente, l’ideologia umanista dei conversi enfatizzava il merito individuale in opposizione al carattere corporativistico della società gentile cristiana (Faur 1992, 35).54 Rispecchiando l’importanza del conflitto di gruppo ebreo-gentile durante il periodo, i vecchi cristiani consideravano il merito individuale come derivante dall’appartenenza religiosa (cioè, l’identità di gruppo)

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piuttosto che dallo sforzo individuale: “Nel XVI secolo la scala dei valori diventava sempre più squilibrata, sfociando nel concetto secondo il quale era più importante stabilire chi fosse la persona piuttosto che valutare la sua capacità lavorativa o di pensiero” (Castro 1971, 581; corsivo nel testo). L’ideologia del merito individuale come valore di base promossa dagli intellettuali conversi, pertanto, può essere intensa come un esempio della lotta contro le categorie di identità sociale nei termini delle quali si è soggetti a una categorizzazione negativa.55

L’altra faccia della medaglia è rappresentata dal fatto che gli ebrei hanno spesso reagito negativamente agli scrittori ebrei che attribuiscono tratti negativi o non graditi ai personaggi ebrei. Per esempio, Philip Roth è stato ampiamente criticato dagli ebrei e dalle organizzazioni ebraiche per siffatte raffigurazioni, perlomeno in America, dove le sue opere potevano essere lette dagli antisemiti (si veda Roth 1963). Sebbene la spiegazione addotta per questa apprensione fosse la possibilità che simili rappresentazioni portassero all’antisemitismo, Roth ipotizza anche che “ciò che viene veramente contestato, ciò che ferisce immediatamente… è l’effetto diretto su certi ebrei. ‘Hai ferito i sentimenti di tanti perché hai rivelato qualcosa di cui si vergognano.’” L’implicazione dei critici di Roth è che l’ingroup dovrebbe essere raffigurato in termini positivi; e infatti, il tipo di attività letteraria ebraica più comune rappresenta gli ebrei come caratterizzati da tratti positivi (Alter 1965, 72). La citazione riflette anche la discussione sull’autoinganno ebraico presente in SAID (cap. 8). La vergogna derivante dalla consapevolezza dell’effettivo comportamento ebraico è soltanto parzialmente cosciente, e mettere in dubbio questo autoinganno crea un alto grado di conflitto psicologico.

L’importanza dei processi di identità sociale nell’attività intellettuale ebraica fu riconosciuta tempo fa da Thorstein Veblen (1934). Veblen descrisse la preminenza degli studiosi e scienziati ebrei in Europa e notò la loro inclinazione all’iconoclastia. Osservò che l’Illuminismo aveva negato agli intellettuali ebrei la possibilità di rifugiarsi nel conforto dell’identità fornita dalla religione, ma non per questo accettavano acriticamente le strutture intellettuali della società gentile. Ricorrendo all’iconoclastia, suggerisce Veblen, gli ebrei in effetti sottoponevano a critica il sistema fondamentale di categorizzazione sociale del mondo gentile – sistema di categorizzazione che andava a genio al gentile, non all’ebreo. L’ebreo “non è… investito del singolare patrimonio di presupposti convenzionali del gentile, i quali – per inerzia di abitudine – sono rimasti dal passato gentile e che, da una parte, rendono conservatore e compiaciuto il gentile prudente e savio e che portano, dall’altra parte, ad offuscare la visione intellettuale del gentile prudente e savio, rendendolo intellettualmente sessile” (Veblen 1934, 229).56

In realtà, almeno in qualche occasione gli scienziati sociali ebrei hanno riconosciuto questi legami: Peter Gay (1987, 137) cita il seguente estratto di una lettera del 1926 scritta da Sigmund Freud, la cui antipatia nei confronti della cultura occidentale è esaminata nel capitolo 4:

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“Essendo ebreo, mi trovavo libero da molti pregiudizi che limitano gli altri uomini nell’uso del proprio intelletto e, in quanto ebreo, ero pronto a passare all’opposizione e a fare a meno dell’accordo della “maggioranza compatta’.” In una lettera successiva, Freud affermò che accettare la psicoanalisi “richiedeva un certo grado di disponibilità ad accettare una situazione di opposizione solitaria – situazione che nessuno conosce meglio di un ebreo” (in Gay 1987, 146). 57

C’è un senso di alienazione rispetto alla società circostante. L’intellettuale ebreo, a detta di Irving Howe, Intellettuale di New York nonché radicale politico, tende a “sentirsi in certa misura distaccato dalla società; ad assumere, quasi come diritto di nascita, un atteggiamento critico nei confronti dei dogmi ricevuti, a riconoscersi non completamente a proprio agio nel mondo” (1978, 106).

Da Solomon Maimon a Normon Podhoretz, da Rachel Varnhagen a Cynthia Ozick, da Marx e Lassalle a Erving Goffman e Harold Garfinkel, da Herzl e Freud a Harold Laski e Lionel Trilling, da Moses Mendelssohn a J. Robert Oppenheimer e Ayn Rand, Gertrude Stein, e Reich I e II (Wilhelm e Charles), una sola struttura dominante di un dilemma identico e un destino condiviso si impone sulla coscienza e sul comportamento dell’intellettuale ebreo in Galut [esilio]: con l’avvento dell’emancipazione ebraica, quando le mura del ghetto si sbriciolano e gli shtetlach [villaggi ebraici] cominciano a svanire, la comunità ebraica – come un antropologo dagli occhi sgranati – entra in uno strano mondo, a esplorare uno strano popolo che osserva uno strano halakah [codice]. Esamina questo mondo con sgomento, meraviglia, rabbia, e obiettività punitiva. Questa meraviglia, questa rabbia, e l’obiettività vendicativa dell’estraneo emarginato sono recidive; continuano ininterrottamente nel nostro tempo, perché l’emancipazione ebraica continua fino ai nostri tempi. (Cuddihy 1974, 68)

Sebbene la critica intellettuale derivante dai processi di identità sociale non deve necessariamente essere funzionale al raggiungimento di alcun obiettivo concreto del giudaismo, questo corpo di teoria è molto compatibile con la supposizione che l’attività intellettuale ebraica sia diretta a condizionare i processi di categorizzazione sociale a vantaggio degli ebrei. Nei capitoli seguenti si dimostrerà che i movimenti intellettuali ebraici hanno promosso ideologie universalistiche per l’intera società nell’ambito della quale la categoria sociale ebreo-gentile è di sminuita rilevanza e priva di importanza teorica. Perciò, per esempio, in un’ottica marxista si ipotizza che il conflitto sociale derivi unicamente dal conflitto economico tra le classi sociali,

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in cui concorrenza per le risorse tra gruppi etnici è irrilevante. La ricerca sull’identità sociale ipotizza che l’accettazione di una tale teoria ridurrebbe l’antisemitismo, dal momento che nell’ideologia universalista la categorizzazione sociale ebreo-gentile non sarebbe saliente.

Infine, ci sono buoni motivi per ipotizzare che i punti di vista minoritari possano esercitare una forte influenza sugli atteggiamenti della maggioranza (p. es. Pérez & Mugny 1990). La ricerca sull’identità sociale indica che una prospettiva minoritaria, specialmente se investita di un alto grado di coerenza interna, può avere un impatto

perché introduce la possibilità di un’alternativa alla prospettiva maggioritaria consensuale, data per scontata e incontestata. Di colpo la gente è in grado di discernere le crepe nella facciata del consenso maggioritario. Emergono nuovi problemi, questioni e domande che richiedono attenzione. Lo status quo non è più accettato passivamente come entità immutabile e stabile, unico arbitro legittimo della natura delle cose. La gente è libera di cambiare credenze, idee, usanze, e così via. E a chi si rivolge? Una delle direzioni sarebbe quella verso la minoranza attiva. Quest’ultima (per definizione e disegno) offre una risoluzione concettualmente coerente ed elegantemente semplice delle stesse questioni che, grazie alle sue attività, ora affliggono la coscienza pubblica. Nel linguaggio dell’‘ideologia’…, le minoranze attive cercano di sostituire l’ideologia dominante con una nuova.” (Hogg & Abrams 1988, 181)

Un elemento cruciale dell’influenza minoritaria è quello della coerenza intellettuale (Moscovici 1976), e un tema importante trattato qui di seguito sarà il fatto che i movimenti dominati dagli ebrei hanno avuto un alto grado di coesione interna e spesso sono stati caratterizzati da alti livelli di pensiero ingroup-outgroup – un aspetto tradizionale del giudaismo. Tuttavia, poiché questi movimenti furono ideati per attrarre i gentili, erano costretti a minimizzare qualsiasi indicazione ovvia che l’identità ebraica di gruppo o gli interessi ebraici di gruppo fossero importanti per i partecipanti.

Un tale risultato inoltre è estremamente compatibile con la teoria dell’identità sociale: la misura in cui gli individui sono disposti a lasciarsi influenzare dipende dalla loro disponibilità ad accettare la categoria sociale dalla quale deriva l’opinione divergente. Per gli ebrei determinati a influenzare la società più ampia, un’aperta identità ebraica di gruppo e gli interessi ebraici apertamente dichiarati non potevano che ridurre la capacità di questi movimenti di condizionare i soggetti bersaglio. Di conseguenza, il coinvolgimento ebraico in questi movimenti era spesso operosamente nascosto, e le stesse strutture intellettuali erano formulate in termini universalistici al fine di minimizzare l’importanza della categoria sociale ebreo-gentile.

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Per di più, dal momento che la disponibilità a farsi condizionare dipende dalla disponibilità a identificarsi con le qualità stereotipiche di un ingroup, i movimenti non solo erano concettualizzati in termini universalistici, anziché in termini particolaristici ebraici; erano inoltre rappresentati  come motivati esclusivamente dai più nobili principi morali ed etici. Come osserva Cuddihy (1974, 66n), gli intellettuali ebrei creavano la sensazione che il giudaismo avesse “una missione nell’Occidente” dove la civiltà occidentale corrotta sarebbe stata confrontata da un senso morale specificamente ebraico. In gran parte questi movimenti costituiscono esempi concreti dell’antica e ricorrente auto-concettualizzazione ebraica come “luce delle nazioni,” ampiamente analizzata in SAID (cap. 7). Questa retorica di condanna morale nei confronti dell’outgroup rappresenta pertanto una versione laica della posizione fondamentale degli intellettuali ebrei post-illuministici, ovvero che il giudaismo rappresenta un faro morale per il resto dell’umanità. Ma per poter esercitare la loro influenza, si vedevano costretti a negare l’importanza dell’identità specificamente ebraica e degli interessi al centro del movimento.

L’alto grado di coesione interna di gruppo che caratterizza i movimenti esaminati in questo volume era accompagnata dall’elaborazione di teorie che non solo vantavano una forte coerenza intellettuale interna ma, come nel caso della psicoanalisi e della teoria politica radicale, potevano assumere la forma di sistemi ermeneutici in grado di accomodare qualsiasi evento nei loro schemi interpretativi. E sebbene questi movimenti cercassero una parvenza di scientificità, contraddicevano inevitabilmente i principi fondamentali della scienza quale ricerca individualistica sulla natura della realtà (si veda cap. 6). Sebbene la misura in cui questi movimenti intellettuali e politici hanno influenzato la società gentile non possa essere valutata con certezza, il materiale presentato nei capitoli seguenti è altamente compatibile con la supposizione che i movimenti intellettuali dominati dagli ebrei costituissero un elemento determinante (una condizione necessaria) per il trionfo della sinistra intellettuale nelle società occidentali del tardo Novecento.

Nessun evoluzionista rimarrebbe sorpreso dalla teoria implicita in tutto questo, ossia che le attività intellettuali di qualsiasi tipo possono, in fondo, implicare il conflitto etnico; né c’è da stupirsi che le ideologie politiche e religiose rispecchino tipicamente gli interessi di chi le sostiene. Per l’evoluzionista la vera domanda da porsi è se la scienza sociale come tentativo disinteressato di capire il comportamento umano sia effettivamente possibile.

Ciò non implica che tutti gli scienziati sociali di forte identità ebraica partecipassero ai movimenti discussi nei capitoli seguenti. Implica solo che l’identificazione ebraica e i percepiti interessi ebraici costituissero una potente forza motivante tra coloro che guidavano questi movimenti e molti dei loro seguaci. Questi scienziati-attivisti avevano un’identità ebraica molto marcata. Nutrivano una forte preoccupazione per l’antisemitismo e, autocoscientemente, svilupparono delle teorie mirate a dimostrare che il comportamento ebraico non era pertinente all’antisemitismo e che, allo stesso tempo, l’etnocentrismo gentile e la partecipazione a movimenti antisemitici coesi erano indicazioni di una psicopatologia.

Nell’insieme, questi movimenti hanno messo in dubbio le sostanziali fondamenta morali, politiche, culturali ed economiche della società occidentale. Apparirà evidente che questi movimenti hanno inoltre servito piuttosto bene vari interessi ebraici. Diventerà altresì evidente, tuttavia, che questi movimenti entravano spesso in conflitto con gli interessi culturali e, in ultima analisi, con quelli genetici di importanti settori dei popoli non ebraici e di discendenza europea nella società europea e nordamericana del tardo Novecento.

 

Ethnocentric Critiques of the London Conference on Intelligence

In January 2018, the anti-science Left that dominates British academia descended into spasms of fury. For decades it has done all that was within its growing power to stop scientists who refuse to let emotion stand in the way of their calling to pursue the truth from researching group differences in intelligence, and especially race differences. Researchers who have dared extend the logic of Darwinian Theory to human sub-groups would lose funding and have papers rejected out of hand from journals by increasingly Politically Correct reviewers, and they might even find themselves fired from their jobs.

But in January 2018, it was revealed that precisely these heretical researchers had been polluting the holy of holies for years. They had been holding an effectively secret conference, by invitation only, at one of Britain’s top universities — University College London — annually since 2015.

Toby Young

The evil of presenting the most straightforward theory based on the evidence, regardless of what dogmas this might undermine, had been happening under the Left’s very noses! UCL’s student newspaper, The London Student, revealed that the conference, organised by UCL honorary lecturer Dr James Thompson, had attendees that included Richard Lynn. Prof. Lynn had established that there are consistent race differences in IQ. It was also attended by numerous other academics connected to the race realist academic journal Mankind Quarterly, edited by Dr. Lynn, including one who had made a presentation on eugenics. Indeed, another version of the exposé, in the satirical magazine Private Eye, revealed that one of the attendees was Toby Young, a prominent conservative media pundit in the UK. His attendance insured that the ‘secret racist conference’ or ‘eugenic conference’ was reported in all the national newspapers and was even mentioned on television. The London Conference on Intelligence had ultimately come to the student journalists’ attention because Young had rashly mentioned it in a recently published speech to a leading conference on intelligence held in Montreal the previous summer.

Leftist students protested in front of UCL (see above photo) and petitioned for Thompson to lose his honorary position. UCL responded by launching an investigation, which is on-going, into Thompson’s failure to tell them that the conference would include ‘controversial’ people and topics. UCL stressed, of course, that they defended free speech, but opposed ‘racism’ in all its forms.

The conference presentations are now available online. They are a daring and fascinating mixture of subjects: race differences in intelligence, dysgenic fertility in the West, the impact of national testosterone levels on per capita Nobel prizes and even race differences in prevalence to ethnocentrism. Read more

Apartheid as Seen by the Boers: The Population History of South Africa

Editorial note: This is Part 2 of an article that appeared in TOO in 2011 and, relevant to the current program of dispossessing White farmers, gives some of the background of the crisis faced by the Boers whose origins in South Africa date to 1652.

Part 1.

Apartheid: A Just War for Demographic Survival of Boer Afrikaners

South Africa was populated by White and Black settlers. The Whites arrived at the Cape in 1652, predominantly from the Netherlands, France, Germany and the United Kingdom, to find only the Bushman as indigenous natives. These were hunter gatherers whose mode of existence kept overall numbers small. In approximately 1770, the eastward migrating Boers came into contact with the southern migrating Xhosa Africans, originally from Central Africa, at the Fish River in the Eastern Cape. Population pressure disputes over the ownership of farming land and cattle resulted in what is known as the Cape Frontier Xhosa Wars. Many Boers then migrated north to found the Free State and Boer Republics.

One hundred years later, the first census in 1868 revealed a country of 1,134,000 of whom 50% were settlers originally of European origins, and 50% were Black and coloured settlers who arrived respectively from North Africa, or as slaves from the Far East.

In the next 80 years the European population decreased from 50% to less than 25%. By 1948 the census revealed South Africa’s population to be 11,957,000, of which Africans were 8,500,000 (79%) and Europeans 2,500,000 M (21%). Read more

Who Was Revilo Oliver?

Revilo Oliver

It is not often one encounters someone with a palindromic name, spelled the same forward and backward.   Revilo Oliver (1908–1994), a classics professor at the University of Illinois, had one.  But Oliver’s claim to fame went far beyond his intriguing name: if a thorough history of the white racial movement is ever written, he will indeed be prominent in it.

The way things have lined up since World War II, those who take the side of white people, as Dr. Oliver did, are certain to be vilified.  The most they can hope for are mixed reviews, call them that, on how they conduct their lives, and Oliver accomplished that: while a colleague at his university called him a “filthy fascist swine,” others thought the world of him and spoke of him with great respect and fondness.  This writing, drawn from my book The Fame of a Dead Man’s Deeds, paints a portrait of him. ‘

*   *   *

In the 1950s, Revilo Oliver was one of the founding members of the John Birch Society, a group that became prominent in those years and was known for its anti-communism and advocacy of limited government.   Oliver and the Birch Society parted company when his publicly stated racial views made its leadership uncomfortable.   He was alleged to have said in a speech to the Daughters of the American Revolution that the pre-Castro Cuban government under Fulgencio Batista was as good as could reasonably be expected in a country largely populated by mongrels.

Oliver wrote a number of pieces for William Buckley’s magazine National Review in its early years, the late 1950s.  National Review became a very influential component in a rising conservative movement that culminated in the election of Ronald Reagan as president in 1980.  Oliver’s animosity toward Jews eventually made him persona non grata at the magazine, as he reportedly referred to the thought of “vaporizing the Jews” as “a beatific vision.” Read more

Richard Lynn, Cultural Marxism, and the War on Objective Science

Richard Lynn is one of very few academics whose impact on their discipline is such that the field could scarcely be discussed without referring to him. In psychology, and particularly the study of intelligence, Lynn has carved out a dominant, innovative, and extraordinarily productive career spanning several decades. He remains prolific at age 87, and Washington Summit will soon publish what will surely be a future classic: Race Differences in Psychopathic Personality —- a volume that I have had the honor and great pleasure of editing. Lynn took his Ph.D. at the University of Cambridge and worked as lecturer in psychology at the University of Exeter, professor of psychology at the Economic and Social Research Institute, Dublin, and at the Ulster University. He has published in such journals as Nature, British Journal of Psychology, Journal of Biosocial Science, and Bulletin of the British Psychological Society, and has served on the editorial boards of Intelligence, Personality and Individual Differences, and Mankind Quarterly. On his retirement, and in recognition of his accomplishments and contributions, the title of professor emeritus was conferred on Lynn by Ulster University. During the last seven days, however, moves have been undertaken to strip Lynn of this title.

The reasons behind the move are symptomatic of the malaise hanging over much of the modern academic establishment, and are a reflection of the great unease with which this establishment has always greeted Lynn’s fearless research profile. There are few leftist sacred cows that Lynn hasn’t seen fit to hunt down. During the same decades that Cultural Marxism was extending its tentacles around the Academy, Lynn’s research argued the case for the existence of race and sex differences in intelligence, and in The Chosen People: A Study of Jewish Intelligence and Achievement (2011) Lynn crossed firmly into forbidden territory by offering an evidence-based study of the Jewish IQ. It remains the best available rebuttal to Sander Gilman’s work of Freudian apologetic pseudoscience Smart Jews: The Construction of the Image of Jewish Superior Intelligence (1996). It should be unsurprising that Lynn is also one of very few academics whose work caused a stir beyond the ivory tower. Coverage of Lynn’s work often featured in the BBC, a large number of high-circulation international newspapers and, perhaps inevitably, in the “extremist files” of the radical leftist Southern Poverty Law Center. Read more

“The New Jim Crow” As Seen from the Right.

Michelle Alexander’s The New Jim Crow: Mass Incarceration in the Age of Colorblindness is a text I’ve come across many times over the years. In fact, I don’t know if there is a single time I have walked into a major bookstore and have not seen the book displayed in prominence on an end cap or center aisle table. I’ve encountered all the arguments made within the text over the years in articles, during debates, and in university classrooms as an undergraduate. Perhaps the significance of Alexander’s work is best assessed in the foreword by Cornel West: “The New Jim Crow is the secular bible for a new social movement in the early twenty-first-century America.” Although the data and arguments found within have been seen both before and after Alexander’s work, this is perhaps the most definitive and comprehensive work on the topic of Black crime and mass incarceration in America, as seen from the left.

The overarching premise is that mass incarceration, Jim Crow laws, and slavery have been the three primary measures adopted as public policy in the U.S. as a means to control the Black population. Several of Alexander’s contentions jumped off the page at me from the very beginning of the introduction, where she states that an essential goal of the Founding Fathers was to ensure citizenship to Blacks would be denied. In a way, I was thoroughly impressed, aghast even. I hear noxious phrases like “we are a nation of immigrants,” “America is for everybody,” and “this is a homeland for all,” almost daily, be it on social media, from politicians, the press, or in the media. And to see an author who has declared her goal is an “egalitarian democracy,” to be so honest, so frank, and so correct, is in many ways to be welcomed. Alexander displays from page one that she has a grasp of historical racialism as it pertains to the foundation of the U.S. and the Founders’ intentions. She finds this to be an unacceptable position, of course, but her admission that the U.S. was founded as a White nation is exceedingly rare nonetheless. Read more

William Pierce and Cosmotheism

During the early 1970s, the late white activist Dr. William Pierce formulated a religious orientation he called Cosmotheism to provide the spiritual basis for the direction he was taking in his racial work.  Pierce had serious reservations about Christianity’s appropriateness for white people and wanted to offer an alternative to it.  The following material is drawn from my book on Pierce, The Fame of a Dead Man’s Deeds.

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“As I see it,” Pierce told me, “Christianity has a number of elements that are harmful to our people.   One of them is its egalitarianism.  You know: ‘the meek shall inherit the earth,’ ‘the last shall be first, and the first shall be last.’  It’s the whole Sermon-on-the-Mount idea of putting people down and pulling down those on the top of the heap regardless of how they got there.  It is a fundamental part of Christian doctrine, and I think it is detrimental to an ordered society.  When you look at Christianity you have to get beyond the requirements and rituals—you shall be baptized, you shall observe the marriage sacrament, and so forth—and see underlying things, like the egalitarian, Bolshevik message in this religion, which is really dangerous and has helped move us to this destructive democratic age.

“There is the universalistic message in Christianity, that we are all alike, that fundamentally there is no difference among people, that the only thing that counts is whether you are in or out of Jesus’ flock.  The ‘we are all one in Christ Jesus’ idea—man and woman, white and black, Greek and Jew.  We are all equal in the eyes of the Lord.  The truth of the matter is that we aren’t all one, and we are different from one another, and some individuals and cultures are better than others.  Anything that obscures that reality and its implications holds things back. Read more