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INDIVIDUALISMO E TRADIZIONE PROGRESSISTA OCCIDENTALE: Capitolo 7, L’IDEALISMO MORALE NEL MOVIMENTO ANTISCHIAVISTA BRITANNICO   E IL “SECONDO IMPERO BRITANNICO”

INDIVIDUALISMO E
TRADIZIONE PROGRESSISTA OCCIDENTALE.
Origini evolutive, storia e prospettive future.
traduzione italiana di Marco Marchetti

Capitolo 7: L’IDEALISMO MORALE NEL MOVIMENTO ANTISCHIAVISTA BRITANNICO  

E IL “SECONDO IMPERO BRITANNICO1.

 

 

Non esiste quesito più centrale per la biologia evoluzionista di quello sull’altruismo. Gli altruisti compiono azioni che beneficiano altri senza ricevere in cambio nulla di tangibile. In assenza di determinate condizioni, il comportamento altruistico è, sul piano evolutivo, un vicolo cieco. Ad esempio, la ricerca sulla cooperazione altruistica ha mostrato che essa può svilupparsi se gli altruisti si raggruppano tra loro2 ed escludono i non altruisti in base alla reputazione3, o se sono disposti a punire i non altruisti, come può accadere in un’organizzazione militare4.

Questo capitolo prende in esame la rivoluzione emotiva che ebbe luogo in Inghilterra nel XVIII secolo  concentrandosi sul movimento per l’abolizione della tratta degli schiavi (1807) e dello schiavismo (1833). Come si vedrà più avanti, questa rivoluzione si estese a molti altri ambiti della società britannica. Le sue conseguenze sono evidenti nel libro di David Hackett Fischer Fairness and Freedom [Equità e libertà, n. d.

t.], di cui si parlerà nel seguito, che mette a confronto l’impero britannico del XIX secolo con quello del XVIII secolo durante il periodo di formazione delle colonie americane5. Negli anni 1840, quando la Nuova Zelanda venne popolata da immigrati provenienti dalla Gran Bretagna, nell’impero britannico esistevano forti correnti animate da universalismo morale, preoccupazioni empatiche e senso di equità.

Questa rivoluzione emotiva, che Hannah Moore definì l’“Età della Benevolenza”6, ebbe inizio nel XVIII secolo. Io suggerisco che tale rivoluzione sia stata, in ultima analisi, una conseguenza a lungo termine delle tendenze egualitarie dei puritani e del loro programma di fondare comunità morali come base della coesione sociale, un fenomeno che finì per essere applicato alla società in senso lato, come abbiamo osservato nel capitolo 6. Negli anni 1780, «il carattere morale dell’autorità imperiale e l’etica della condotta britannica al di fuori delle isole britanniche cominciarono ad apparire nel dibattito pubblico dell’impero con frequenza crescente»7. Nel seguito mi concentrerò sul movimento per l’abolizione della tratta degli schiavi e dello schiavismo come esempio che illustra questo aumento di preoccupazione empatica e di senso dell’equità. Lo scopo non è quello di descrivere i processi politici che alla fine portarono all’abolizione [dello schiavismo, n.

  1. t.] e neppure di spiegare come mai il movimento si sia manifestato proprio in quel periodo, ma è quello di esplorare la psicologia di alcuni dei principali attivisti di quel movimento e i metodi che essi impiegarono per far sì che gli altri provassero il loro stesso disgusto nei confronti dello schiavismo. Questi attivisti e scrittori erano portatori di elevati principi e profondamente cristiani, con un forte senso dell’equità e dell’egualitarismo. E sebbene fosse presente, sullo sfondo, una forte influenza dell’ethos puritano descritto nei capitoli precedenti (un ethos che ebbe un ruolo centrale per il movimento abolizionista degli Stati Uniti) i principali attivisti furono quaccheri, cui si unirono in seguito altri gruppi religiosi dissenzienti e, alla fine, la Chiesa d’Inghilterra, i cui membri appartenevano in misura maggiore alle élite britanniche.

In apparenza, tali movimenti implicavano l’altruismo. Nelle parole di Adam Hochschild, i movimenti antischiavisti erano,

 

nei primi tempi, [costituiti da] un gran numero di persone che si sentivano offese, e lo rimasero per molti anni, per i diritti di qualcun altro […] Per cinquant’anni, in Inghilterra, gli attivisti lavorarono per porre fine allo schiavismo nell’impero britannico. Nessuno di loro guadagnò un centesimo facendo ciò, e il loro successo finale significò ingenti perdite per l’economia imperiale. Gli studiosi stimano che l’abolizione dello schiavismo sia costata al popolo britannico l’1.8% del reddito nazionale annuo per oltre mezzo secolo8.

 

Questo movimento si manifestò in un’epoca in cui lo schiavismo era la norma in Africa, nel mondo arabo, in India, nell’impero ottomano e, a tutti gli effetti, in Cina. Come osserva Seymour Drescher, «l’istituzione eccezionale era la libertà, non la schiavitù»9.

Andrebbe osservato come la spiegazione in termini di altruismo non sia pacificamente accettata. Di sicuro, come per ogni movimento di massa, esisteva indubbiamente un’ampia gamma di motivazioni, incluse quelle di carrieristi egoisti che intendevano usare un movimento come quello abolizionista per incrementare la loro fama e la loro fortuna10. Ciò nondimeno, le motivazioni egoistiche all’agire non implicano che l’empatia provata nei confronti degli africani resi schiavi non fosse reale e non costituisse uno stimolo all’azione per molti. Cosa più importante, il nucleo fondamentale del movimento era formato da quaccheri per i quali, come si dirà in seguito, le accuse di motivazioni egoistiche sono, nella migliore delle ipotesi, difficili da sostenere. E per finire, anche se le élite acquisirono un capitale morale abolendo lo schiavismo, occorre domandarsi come e perché il capitale morale avesse una risonanza psicologica, come mai le élite, a cominciare dal XVIII secolo, giustificarono se stesse attirando l’attenzione sul carattere morale delle loro politiche piuttosto che, ad esempio, basarsi semplicemente sulla forza bruta o sull’autorità religiosa.

La questione, qui, è sottile: il punto è che l’idealismo morale e le motivazioni altruiste abbiano caratterizzato un nucleo importante degli abolizionisti, e non che tutti gli abolizionisti potessero essere caratterizzati in tal modo. Certamente continua a sussistere un considerevole dibattito sulle motivazioni di coloro che furono coinvolti nel movimento11. Perfino nel XIX secolo fu proposto che la campagna per porre fine allo schiavismo aveva evitato di affrontare la questione dello sfruttamento del lavoro entro i confini inglesi e aveva prodotto un capitale morale che aveva razionalizzato un impero ben lungi dall’essere perfetto. «Negli anni 1970, pochi tra gli storici accademici si facevano problemi a scrivere di uomini “altruisti” impegnati in una “virtuosa crociata”»12.

 

Il contesto dell’Età della Benevolenza.

 

I due partiti politici dell’Inghilterra del XVIII secolo erano i Whigs e i Tories, «derivati dai due schieramenti della Guerra Civile»13, rispettivamente i Roundheads a base puritana e i Cavaliers [13a]. L’Inghilterra era prospera e relativamente ricca, e tanto la sua popolazione rurale quanto quella urbana stavano «visibilmente meglio» di quella dell’Europa continentale14. Il sistema era oligarchico e c’erano dei rotten borough14a controllati da facoltosi proprietari terrieri, ma era assi più democratico dell’Europa continentale: «la maggior parte delle circoscrizioni elettorali aveva un elettorato autentico»15.

L’Inghilterra del XVIII secolo era dunque assai più egualitaria del continente:

 

Questa fu un’età dell’oro per l’aristocrazia, tuttavia essa non aveva uno status legale privilegiato, a differenza della maggior parte delle aristocrazie continentali, dove la signoria feudale e la servitù erano la norma. Le relazioni di potere locali erano basate sulla “deferenza”, ma la deferenza doveva, in una certa misura, essere guadagnata, e poteva essere revocata […] Anche il più povero aveva diritti legali, inclusa l’assistenza economica in virtù della Legge sui Poveri del 1601. Ciò dava agli uomini e alle donne ordinari, che a turno assumevano nelle loro parrocchie la funzione di Supervisori dei Poveri, la responsabilità di assistere i vicini bisognosi che si rivolgevano a loro, i costi essendo coperti da una “quota per i poveri” versata dai membri più facoltosi. Alla fine del secolo XVIII questo istituto era unico al mondo16.

 

Nel 1780 un osservatore tedesco notò che i londinesi «dalla classe più elevata a quella più umile [erano] quasi tutti persone di bell’aspetto, puliti e vestiti con cura, senza la distinzione così grande tra le classi che c’è in Germania»17.

Un relativo egualitarismo era pertanto collegato ad una società relativamente pacifica ed economicamente prospera, una società nella quale anche i poveri erano considerati detentori di diritti nei confronti del sistema. Nel seguito esamineremo come questi fenomeni fossero anche collegati ad una rivoluzione emotiva, facendo dell’Inghilterra un luogo più gentile e più mite e spianando la strada al successo del movimento abolizionista e alla trasformazione dell’impero britannico.

Sebbene qui ci si concentri sull’abolizionismo, l’Età della Benevolenza non si limitava a disapprovare lo schiavismo.

 

Tra il 1720 e il 1750 furono fondati cinque grandi ospedali a Londra e nove nel resto del paese, e il mezzo secolo che seguì vide la fondazione di dispensari, cliniche e ospedali specializzati (cliniche ostetriche, ospedali per malattie infettive, manicomi). Una legge che forniva assistenza all’infanzia per i figli dei poveri in campagna e altre misure quali la pavimentazione e il drenaggio di molte strade di Londra e lo sgombero di alcuni dei suoi peggiori bassifondi ebbero come risultato una sensibile riduzione del tasso di mortalità, soprattutto tra i bambini18.

 

L’educazione dei poveri venne accolta come parte del nuovo Zeitgeist:

 

Il movimento per l’educazione dei poveri rifletteva dunque la stessa sensibilità e lo stesso ethos che ispiravano altri movimenti filantropici e di riforma come le campagne contro la crudeltà verso gli animali, per l’abolizione dello schiavismo, per la riforma delle prigioni e delle leggi e per la fondazione di una moltitudine di società che si impegnavano ad alleviare una molteplicità di mali sociali19.

 

Fu anche i periodo in cui, come si legge nell’opera di Lawrence Stone, le relazioni intime basate sull’affetto e sull’amore vennero universalmente considerate come la base appropriata del matrimonio in tutte le classi sociali, inclusi i proprietari terrieri aristocratici20. Stone descrive «un nuovo tipo ideale, e cioè l’uomo di sentimento, prototipo del romantico del tardo Settecento»21. La narrativa poneva l’accento sulla morale: era «il romanzo sentimentale», come Pamela di Samuel Richardson.

La nuova etica trascendeva le classi sociali, i partiti politici e le divisioni religiose22.

 

[I metodisti] rigenerarono la Chiesa d’Inghilterra […] Essi ebbero addirittura un’influenza sui liberi pensatori, che in seguito si trattennero dal criticare la dottrina cristiana per dedicarsi all’economia politica e alla filantropia. Utilitaristi ed evangelici accettarono di lavorare insieme per la libertà del commercio, per l’abolizione dello schiavismo, per la riforma della legge penale e dell’organizzazione delle prigioni23.

I liberi pensatori, in associazione con i filantropi del movimento evangelico, lavoravano per il miglioramento materiale e morale dei poveri. Nel frattempo, venivano “convertiti” alla filantropia attraverso l’influenza dei predicatori metodisti24.

 

Questo non significa che il risultato fosse una società ideale. «In base a criteri posteriori, certo, le riforme, le società e le istituzioni che riflettevano quest’etica appaiono tristemente inadeguate […] L’Età della Benevolenza aveva ovviamente il suo rovescio della medaglia. Se essa produsse una generazione di riformatori e di spiriti umanitari fu in parte perché c’erano così tante cose da riformare, ed ancor più ce n’erano che offendevano la sensibilità di una persona umana»25.

Per i criteri odierni la Gran Bretagna del XVIII secolo era in effetti piuttosto brutale, un luogo in cui la pena capitale si applicava anche a reati minori, sebbene l’effettivo numero delle esecuzioni si fosse ridotto della metà dagli anni 1590. Comunque, in generale, il tasso di criminalità era abbastanza basso, malgrado la scarsa organizzazione nell’applicazione delle leggi, e il tasso di omicidi era diminuito bruscamente, dalla fine del XVI secolo, fino a raggiungere valori prossimi a quelli moderni. Le associazioni per la promozione del  benessere sociale miravano ad ottenere un miglior trattamento per i criminali, sebbene proliferassero mali sociali come l’alcolismo, cosa questa che forse indica come i controlli sociali tradizionali delle comunità rurali si stessero dissolvendo man mano che le persone andavano a cercare lavoro nelle aree urbane.

L’accento posto sulle riforme sociali si accompagnava all’utopismo morale, ossia alle ideologie esplicite relative a come costruire la società ai fini del bene morale che sono state menzionate nel capitolo 6 come particolarmente caratteristiche degli intellettuali di origine puritana nell’America del XIX secolo. Gli abolizionisti inglesi elaborarono modelli ideali di comunità per gli schiavi liberati. Ad esempio, Granville Sharp concepì una società utopica nella quale schiavi liberati e bianchi si sarebbero stabiliti in Sierra Leone26; la comunità sarebbe stata governata dagli schiavi liberati, col consenso degli autoctoni africani. «Tutto ciò era assai più idealistico di molte altre comunità utopiste: Brook Farm nel Massachusetts, ad esempio, non invitò mai gli indiani d’America ad unirsi a lei». La comunità [di Sharp, n. d. t.] quale effettivamente si realizzò ebbe una bandiera raffigurante due mani, una bianca e una nera, che si stringevano; almeno la metà dei membri delle giurie doveva essere della stessa razza dell’imputato; si occupavano del lavoro sia i bianchi che i negri. La cosa non finì bene27 e la Sierra Leone finì col diventare una colonia britannica.

 

La psicologia dell’altruismo e dell’universalismo morale.

 

Esistono in effetti forti correnti culturali che si oppongono alla possibilità dell’altruismo e che comprendono non solo quello che si potrebbe chiamare il pensiero evoluzionista tradizionale avente al suo centro l’interesse egoistico (che abbiamo sintetizzato in precedenza) ma anche l’ideologia marxista, che negli ultimi decenni ha spesso influenzato il dibattito. Il marxismo implica l’interesse egoistico di ciascuna classe sociale e vede nell’ideologia nulla più che un riflesso degli interessi di classe. I marxisti sono per loro natura scettici circa il fatto che possa esistere un movimento guidato da persone che non abbiano nulla da guadagnarci e ritengono che se una tale impresa avesse successo, essa avrebbe un costo per la società nel suo insieme. Ad esempio il testo di Eric William, Capitalism and Slavery [Capitalismo e schiavismo, n. d. t.] del 1944 propone una spiegazione marxista che sostiene che la campagna per porre fine allo schiavismo sorse quando fu economicamente vantaggiosa, perché le colonie avevano perso valore28. Questa interpretazione è stata respinta in base a recenti ricerche secondo le quali le colonie conservarono di fatto il loro valore fino al XIX secolo inoltrato29.

Dato che il mondo accademico contemporaneo è decisamente orientato a sinistra ed è fortemente critico nei confronti dell’impero e della cultura tradizionale britannica, non sorprende che le basi umanitarie del movimento siano «sempre più trascurate e da tempo screditate»30. Ciò nondimeno, uno psicologo evoluzionista contemporaneo non deve necessariamente sposare l’idea che l’interesse egoistico sia inevitabile. Come osserva Christopher Lee Brown,

 

un atteggiamento prudente [riguardo all’imperscrutabilità delle motivazioni] ha il suo senso, ma nella pratica tale atteggiamento tende a chiudere le indagini proprio quando queste dovrebbero cominciare. Quando ci chiediamo il perché dell’abolizionismo, perché individui e gruppi si siano organizzati contro la tratta degli schiavi, non ci poniamo domande che riguardano solamente i processi macrostorici e il contesto. Ci poniamo anche domande sulle motivazioni, sulle decisioni ad agire. Questo problema non può essere eluso. Se la risposta alle domande sulle motivazioni deve rimanere incompleta, com’è destinata ad essere, eludere il problema incoraggia (com’è avvenuto nella maggior parte degli studi pubblicati sugli abolizionisti) spiegazioni implicite o sbrigative del comportamento individuale e collettivo che si limitano a presupporre o ad affermare le motivazioni nobili (o spregevoli) dei personaggi in questione […] Per affrontare il problema delle motivazioni, dobbiamo riesaminare le intenzioni degli evangelici31.

 

Questo non significa sostenere che coloro che furono coinvolti nel movimento antischiavista furono motivati soltanto dall’altruismo e dall’empatia. Quando il movimento antischiavista prese piede, divenne possibile costruirsi una carriera nel campo dell’attivismo contro la schiavitù, e una volta che si diffuse l’idea che lo schiavismo era un male, la gente potè esibire la propria virtù e migliorare la propria reputazione opponendosi ad esso a gran voce.

Inoltre, come si vedrà più vanti, mentre non possono esserci dubbi sul fatto che il reverendo Thomas Clarkson, il più efficace e famoso abolizionista, provasse un sincero sentimento di empatia nei confronti degli schiavi, egli possedeva anche un eroico senso di ambizione che era estraneo ai quaccheri in mezzo ai quali lavorava; scriveva infatti: «Grandiosa nell’ambizione, visionaria nello scopo, esigente nell’esecuzione e quasi impossibile da conseguire, e tuttavia di buoni principi nel fine, altruistica nello spirito e piacevole alla contemplazione: cos’altro potrebbe essere più eroico di una vita dedicata all’abolizione della tratta degli schiavi e alla fine dello schiavismo?»32.

Brown descrive diverse figure di antischiavisti che avevano un analogo senso eroico dell’ambizione messo al servizio della causa della rettitudine morale33. Tali motivazioni richiamano la descrizione fatta da Ricardo Duchesne dell’ethos dei guerrieri IE, con l’enfasi che esso poneva sull’azione eroica e sulla fama imperitura quali elementi fondamentali dello spirito occidentale: «E’ mia opinione che la cultura aristocratica degli IE fosse dominata da uomini le cui anime erano “troppo allegre, troppo intrepide e troppo indifferenti riguardo alla morte”»34. «L’aggressione espansionista dell’Occidente è un’espressione ineludibile delle sue radici, che affondano in uomini aristocratici liberi e perciò determinati e ambiziosi, sicuri di sé, facili all’offesa e non disposti ad accettare una quieta subordinazione»35.

Quanto segue descriverà i meccanismi psicologici che possono dare origine ad atteggiamenti e a comportamenti altruistici, soprattutto in persone a ciò già predisposte, meccanismi che saranno utili per spiegare l’idealismo e l’indignazione morale esibiti da un consistente sottoinsieme degli oppositori allo schiavismo. Due meccanismi saranno presi in considerazione: l’emozione dell’empatia e il processo esplicito che rende possibile l’idealismo morale e un comportamento altruistico intenzionale in conformità ad un’ideologia (in questo caso l’ideologia dell’universalismo morale incorporata nel cristianesimo di quel periodo). Si forniranno quindi delle prove del fatto che l’empatia e un’ideologia morale universalista ebbero effettivamente importanza ai fini dell’abolizionismo.

 

Il sistema empatico della personalità.

L’empatia è un’emozione sociale che spinge a prestare aiuto. Gli individui empatici sono fortemente motivati dalle sofferenze degli altri; in effetti, in casi estremi, questi individui sono inclini all’“altruismo patologico”, adottando un comportamento maladattivo, personalmente nocivo o autodistruttivo a beneficio di altri36. I soggetti patologicamente altruisti sono inclini al disturbo dipendente di personalità, caratterizzato da un comportamento autosacrificatorio a vantaggio di altri provocato sia dall’empatia che dal timore di interrompere una relazione intima. «Compiono straordinari sacrifici personali o sopportano abusi verbali, fisici o sessuali»37.

Nella maggior parte delle versioni del modello della personalità a cinque fattori38 le differenze individuali in fatto di empatia sono strettamente collegate a un tratto della personalità come la piacevolezza. Nell’ambito di una rotazione dei fattori prodotta dall’evoluzione, che evidenzia le differenze sessuali nell’adattamento psicologico evolutivamente prevedibili, l’empatia si allinea all’amore / cura, quel sistema della personalità che sta alla base delle relazioni intime e della fiducia evolutosi al fine di cementare gli stretti legami familiari39. Gli individui che si collocano all’estremità superiore della curva di distribuzione di questo tratto sono inclini all’amore e all’intimità, mente quelli all’estremità inferiore tendono alla sociopatia, un tratto che predispone alla freddezza verso gli altri, a relazioni finalizzate allo sfruttamento e alla mancanza di senso di colpa o di rimorso nel caso in cui si danneggino gli altri. Mentre i tratti sociopatici sono più frequenti tra gli uomini, l’empatia e il desiderio di essere amati sono più frequenti tra le donne: in media, le donne sono più altruiste ed empatiche degli uomini e attribuiscono maggior valore alle relazioni intime. Nel seguito si mostrerà come gli abolizionisti abbiano fatto appello alle tendenze empatiche del loro pubblico rappresentando graficamente le sofferenze degli schiavi, e che sebbene entrambi i sessi abbiano risposto a questo messaggio, le donne lo fecero in misura maggiore rispetto agli uomini.

Ciò nondimeno, vi sono prove che l’empatia, in sé, può anche non motivare il comportamento altruistico quando il destinatario di tale comportamento è visto come un membro di un altro gruppo. Esistono consistenti risultati di ricerche che collegano l’empatia ai livelli dell’ormone ossitocina. Comunque, l’ossitocina agisce in modo da rendere le persone più altruiste e difensive nei confronti del proprio gruppo, quello che Carsten De Dreu ha denominato “altruismo campanilistico”40. Poiché in questi studi i gruppi non si basano sull’omogeneità etnica, tali risultati possono essere interpretati come un sostegno all’ipotesi che gli individui inclini all’altruismo sarebbero probabilmente portati a sostenere e a difendere gruppi costituiti su una base culturale (p. es. le comunità morali) anche a costo di rimetterci personalmente.

Queste ricerche suggeriscono che una buona strateglia per gli abolizionisti sarebbe stata quella di presentare gli schiavi africani come membri di una comune umanità, dunque come membri del proprio gruppo, piuttosto che di un gruppo estraneo. Nel seguito si addurranno prove che indicano come gli abolizionisti abbiano effettivamente fatto appello alla comune umanità degli schiavi africani. Per il reverendo James Ramsey, il faro intellettuale degli anglicani evangelici, il senso dell’opposizione allo schiavismo era di «guadagnare alla società, alla ragione, alla religione mezzo milione di individui del nostro genere, adatti quanto noi a progredire in ogni arte e scienza che può distinguere uomo da uomo, capaci come noi di guardare al futuro e di goderne»41. Similmente, il summenzionato reverendo Thomas Clarkson si riferiva agli schiavi come a «fratelli oppressi»42.

 

Idealismo morale e ideologia dell’universalismo morale.

 

Altri meccanismi rilevanti per la psicologia umana dell’altruismo sono quelli che rendono possibile l’idealismo morale che, come si è visto nel capitolo 6, ha giocato un ruolo tanto importante nel puritanesimo. Questa analisi si basa sulle ricerche psicologiche esaminate nel capitolo 5, che indicano due tipi molto differenti di processo psicologico, quello implicito e quello esplicito. Il processo esplicito è coinvolto nella regolazione delle emozioni ed è fondamentale ai fini dell’intelligenza generale43.

L’idealismo morale è possibile per via della capacità che le rappresentazioni esplicite delle idee morali hanno di controllare la psicologia modulare del ragionamento e del comportamento morali (cioè gli stati emotivi e le tendenza all’azione mediati dal processo implicito frutto dell’evoluzione e avente sede nel cervello inferiore)44. Per esempio, gli individui sono in grado di sopprimere, attraverso uno sforzo, le tendenze etnocentriche che hanno origine nella parte inferiore e modulare del cervello45. Perciò, in condizioni sperimentali, alcuni soggetti bianchi cui venivano mostrate fotografie di negri avevano una risposta meno negativa quando le fotografie venivano presentate per un tempo abbastanza lungo affinchè potesse aver luogo un processo esplicito46. Altre ricerche indicano come le persone possano sopprimere emozioni morali come l’indignazione, empatia e il senso di colpa. Ad esempio Alan Sanfey et al. hanno mostrato come i meccanismi di scelta razionale prefrontali possano sopprimere il sentimento di indignazione nei confronti di soggetti che facciano offerte non eque nel gioco dell’ultimatum (si può presumere che si tratti di un meccanismo modulare che promuove l’interesse personale producendo irritazione nei confronti di coloro che si comportano slealmente)47. Inoltre, le emozioni morali come l’empatia possono essere scavalcate da preoccupazioni di carattere utilitaristico: i soggetti prenderanno decisioni che passeranno sopra la preoccupazione per una particolare vittima qualora a beneficiarne siano più persone48.

Date le scoperte di carattere generale in base alle quali le idee rappresentate in modo esplicito sono in grado di sopprimere emozioni di indignazione morale e di empatia, è facile arrivare a supporre che un ideale morale possa anche spingere le persone a controllare i sistemi modulari subcorticali (che inducono  all’egoismo) indipendentemente dall’interesse personale o da considerazioni utilitaristiche49.

La letteratura psicologica dunque offre sostegno alla possibilità dell’idealismo morale. Una struttura del genere può essere osservata nella letteratura abolizionista. Per esempio, l’influente scrittore abolizionista Anthony Benezet, un quacchero, sottolineava la necessità di sopprimere l’orgoglio umano e il desiderio di successo mondano impegnandosi in opere caritatevoli50. Come altri quaccheri, Benezet non vedeva l’opposizione allo schiavismo in termini di ambizione personale: «Come la maggior parte dei quaccheri, Anthony Benezet mostrava scarso interesse all’autopromozione. Anonimo e privo di carisma, era più interessato alla carità che a dare smalto alla propria reputazione»51.

Questo implica che il comportamento altruistico sia possibile grazie al potere del processo esplicito su quello implicito; le tentazioni mondane implicate dallo schiavismo (cupidigia, controllo sugli altri) potevano venire soppresse, proprio com’è possibile sopprimere il comportamento orientato alla ricompensa, l’aggressione e l’etnocentrismo52. Il processo esplicito è in grado di controllare le emozioni morali egoistiche in funzione di un ideale morale, anche altruistico. Nel seguito verranno esaminate prove fornite dalla documentazione storica, ad indicare come l’idealismo morale fosse parte del concetto di sé degli abolizionisti.

Le ideologie sono una forma particolarmente importante di processo esplicito che può avere come risultato un controllo del comportamento che agisce da un livello superiore a uno inferiore. Ciò vuol dire che le rappresentazioni esplicite del mondo (come ad esempio una teoria dei costi e dei benefici mediata dal linguaggio umano e dalla capacità umana di creare rappresentazioni esplicite degli eventi) possono motivare il comportamento. Ciò è suggerito, ad esempio, dallo studio di Sanfey et al. menzionato in precedenza: le persone possono decidere razionalmente di agire in modo opposto alle loro inclinazioni morali. Le ideologie sono credenze coerenti ed esplicitamente professate, associate alla corteccia prefrontale che è in grado di  controllare il comportamento e le predisposizioni derivanti dall’evoluzione, le quali, in assenza di controllo prefrontale, sono un prodotto involontario del cervello inferiore53. Esse non sono necessariamente adattive54. Le ideologie caratterizzano spesso i sottogruppi formatisi su base volontaria all’interno di una società (p. es. chiese, partiti politici o il movimento abolizionista negli Stati Uniti o in Gran Bretagna). E per finire, le ideologie spesso razionalizzano il controllo sociale (p. es. la razionalizzazione marxista a sostegno di una “dittatura del proletariato” che vorrebbe sradicare con la forza il dissenso rispetto all’ortodossia politica); a sua volta, l’accettazione sociale delle ideologie può venire rafforzata da tale controllo (p. es. l’imposizione dell’insegnamento del marxismo nel sistema educativo).

Nel seguito descriverò le ideologie degli abolizionisti e in particolare le ideologie religiose che concettualizzano tutti gli esseri umani come creature di Dio, dotate di uguali capacità naturali e candidate  alla salvezza eterna. E’ abbastanza chiaro come lo scopo del movimento abolizionista fosse quello di attuare controlli sociali che suscitassero opposizione alla tratta degli schiavi e allo schiavismo. Le ideologie del movimento abolizionista razionalizzavano tali controlli.

Mettendo insieme le osservazioni fatte nella presente sezione con quelle precedenti realtive alle basi dell’empatia nella personalità, ci aspetteremmo che i soggetti portati all’empatia (che presentano tratti pronunciati di amore / cura) siano altresì inclini a un idealismo morale che promuove un comportamento volto ad alleviare le altrui sofferenze. Comunque, un’ideologia moralmente idealistica può avere un ruolo indipendente e facilitare un comportamento positivo verso gli altri anche in assenza di forti tendenze all’empatia; ed è certamente vero anche il contrario: i soggetti inclini all’empatia possono cercare di alleviare le sofferenze altrui anche senza sottoscrivere un’ideologia esplicita che li esorti a farlo.

 

Precedenti filosofici.

 

Un vantaggio degli abolizionisti era che potevano far riferimento all’autorità di filosofi influenti e famosi che nell’insieme avevano modificato l’opinione delle élite nella direzione di un apprezzamento dell’empatia. Il libro di Gertrude Himmelfarb, The Roads to Modernity: The British, French and American Enlightenments [Strade per la modernità: l’illuminismo britannico, francese e americano, n. d. t.] descrive l’illuminismo britannico come una «sociologia della virtù», in contrasto con quello francese che l’autrice caratterizza come «ideologia della ragione»55. La caratteristica centrale dell’illuminismo britannico era l’accettazione di un’etica «derivante da un senso morale che ispirava simpatia, benevolenza e compassione per gli altri»56. «La filosofia morale britannica […] era riformista più che sovversiva, rispettosa del passato e del presente pur guardando ad un futuro più illuminato. Era anche ottimista e, almeno sotto questo aspetto, egualitaria, essendo il senso morale e il senso comune condivisi da tutti gli uomini e non soltanto da quelli istruiti e di nobili natali»57:

 

Il “senso morale” o “sentimento morale”, le “virtù sociali” o “affetti sociali”, le idee di “benevolenza”, “simpatia”, “compassione”, “affinità” erano termini che definivano la filosofia morale che stava al centro dell’illuminismo britannico […] Era questo ethos che trovava espressione pratica nei movimenti riformatori e nelle iniziative filantropiche che fiorirono nel corso del secolo culminando in quella che l’autrice evangelica Hannah Moore descrisse (in termini non del tutto elogiativi) come “l’Età della Benevolenza” e che una storica posteriore definì “il nuovo umanitarismo”58.

 

Hannah Moore (ca. 1746 – 1833) fu una commediografa che scrisse anche su argomenti morali e religiosi; fu anche un’abolizionista appartenente all’anglicanesimo evangelico, che verrà esaminato più avanti per il suo ruolo di primo piano nell’abolizionismo. La “storica posteriore” menzionata da Himmelfarb è Mary Gwladys Jones, il cui libro del 1983, The Charity Schoool Movement: A Study of Eighteenth-Century Puritanism in Action [Il movimento della Scuola di Carità: studio sull’azione del puritanesimo nel XVIII secolo. n. d. t.] descrive le radici puritane dell’Età della Benevolenza e verrà preso in esame nel seguito59.

In effetti era comune tra gli abolizionisti citare filosofi quali Montesquieu, David Hume e Adam Smith60. Hume riteneva che il senso morale fosse comune a tutti gli uomini. Alla radice del senso morale stava la simpatia, la «fonte principale dei giudizi morali» nonché «del bene pubblico»61 e del «bene dell’umanità»62. Nel suo Trattato sulla natura umana, Hume sostenne che tutti gli esseri umani sono sensibili alle emozioni positive e che tali emozioni hanno come effetto emozioni simili negli altri, ciò che gli psicologi moderni definiscono contagio emotivo:

 

Le menti di tutti gli uomini sono simili nei loro sentimenti e nelle loro operazioni; né una può essere mossa da un’affezione alla quale tutte le altre non siano, in una certa misura, sensibili. Come nel caso di corde accordate sulla stessa nota, il moto di una si comunica alle altre; così tutte le affezioni passano rapidamente da una persona all’altra e producono moti  corrispondenti in ogni creatura umana63.

 

Nella Ricerca sui principi della morale Hume pone l’accento sulla «generale benevolenza» o «benevolenza disinteressata», vale a dire senza preoccupazione per il tornaconto personale.

 

Sembra che una tendenza verso il bene comune e la promozione della pace, dell’armonia e dell’ordine nella società ci faccia sempre schierare, toccando i principi benevoli della nostra natura, dalla parte delle virtù sociali64.

Vi è una qualche benevolenza, per quanto piccola, infusa nel nostro petto; qualche scintilla di amicizia per il genere umano; qualche particella di colomba frammista a quelle del lupo e del serpente65.

 

L’opera famosa e assai stimata di Adam Smith, la Teoria dei sentimenti morali (1759) pone anch’essa in evidenza il contagio morale, ma menziona altresì i sentimenti di piacere per la felicità degli altri, l’empatia per le loro sofferenze, la capacità umana di controllare l’egoismo e il desiderio di conseguire una reputazione di persona moralmente virtuosa:

 

Per quanto egoista possa essere considerato l’uomo, esistono evidentemente nella sua natura alcuni principi che lo fanno interessare alla fortuna degli altri e fanno sì che la loro felicità gli sia necessaria, sebbene da ciò egli non ricavi nulla al di là del piacere di assistervi. A questi appartengono la pietà e la compassione, le emozioni che proviamo nei confronti della infelicità degli altri quando la vediamo o quando ci viene rappresentata in maniera molto vivace [p. es. attraverso le rappresentazioni grafiche delle sofferenze degli schiavi utilizzate dagli abolizionisti] […] Tramite l’immaginazione ci mettiamo nella loro situazione […] è come se entrassimo nel loro corpo e diventassimo in una certa misura la stessa persona66.

 

Da ciò deriva altresì che provare un forte sentimento per gli altri ed uno più debole per se stessi, limitare il proprio egoismo [attraverso un atto volontario, come descritto in precedenza67] e indulgere alle nostre affezioni benevole costituisce la perfezione della natura umana68.

 

L’uomo, per sua natura, desidera non soltanto di essere amato, ma di essere piacevole […] Egli teme, per sua natura, non soltanto di essere odiato, ma di essere odioso […] Egli desidera non solo la lode, ma anche di esserne degno69.

 

Smith dunque pone l’accento sulle emozioni morali piuttosto che su regole di giustizia astratte basate sulla ragione. Le teorie sulle emozioni morali, inoltre, erano separate dalla religione e pertanto esercitavano un’attrazione nei confronti delle élite di mentalità più laica, che guardavano con disprezzo all’entusiasmo degli anglicani evangelici e dei metodisti70, per non dire dei quaccheri. Smith era un ardente oppositore dello schiavismo che nel 1759 aveva definito i proprietari di schiavi delle colonie «gli avanzi di galera d’Europa». Chiamandoli «mascalzoni», aveva scritto: «la fortuna non ha mai esercitato la propria sovranità sugli uomini in maniera più crudele che quando ha sottomesso quelle nazioni di eroi [gli africani] alla frivolezza, alla brutalità e alla bassezza morale» dei coloni britannici d’America71.

Poiché questa impostazione culturale dominava la maggior parte dei circoli intellettuali della società britannica, fu facile agli abolizionisti trovare un argomento morale credibile.  L’opposizione allo schiavismo può essere facilmente vista come un esempio della benevolenza disinteressata di Hume e della compassione universale per le sofferenze degli altri di Smith. Inoltre era arduo difendere lo schiavismo quando «i testi guida dell’illuminismo [come Lo spirito delle leggi di Montesquieu e l’Encyclopédie] sottoponevano sempre più la schiavitù umana ad una forte critica. Sarebbe stato difficile […] verso la metà del XVIII secolo, trovare nelle Isole Britanniche molte persone disposte a descrivere lo schiavismo nelle colonie e la tratta atlantica come simboli del progresso sociale, culturale o morale»72. «Divenne più comune dubitare della moralità del sistema schiavistico perché così facevano certi intellettuali e perché eminenti teologi, filosofi e storici sollevavano domande imbarazzanti riguardo alla moralità e alle basi giuridiche su cui quel sistema si reggeva»73.

 

 

Empatia e abolizionismo.

 

Il movimento abolizionista richiamò chiaramente l’attenzione sulle sofferenze degli schiavi. «In Gran Bretagna la campagna per l’abolizione dello schiavismo, come gli altri movimenti riformatori, non era mossa da una “volontà razionale”, bensì dallo zelo umanitario, dalla compassione più che dalla ragione»74. Il movimento comprese che «il modo per stimolare uomini e donne all’azione non era l’impiego degli argomenti biblici, ma la vivida, indimenticabile descrizione di atti di grande ingiustizia compiuti nei confronti dei loro fratelli umani [«in maniera molto vivace», come scriveva Adam Smith (si veda sopra)]. Gli abolizionisti riposero le loro speranze non nei testi sacri, ma nell’empatia umana»75. Sebbene si impiegassero anche argomenti di carattere pratico (p. es. che i proprietari di schiavi avrebbero tratto beneficio dall’abolizione della tratta) l’empatia suscitata dalla raffigurazione delle sofferenze degli schiavi non fu soltanto lo strumento principale con cui gli abolizionisti fecero appello alle masse: essa fu evidente anche nelle figure chiave del movimento. Mentre svolgeva ricerche per il suo saggio, che vinse un premio all’università di Oxford75a nel 1785, il reverendo Thomas Clarkson «si sentì sopraffare dall’orrore»76; il suo saggio mostra una «sincera indignazione nei confronti dello schiavismo»77.

Questa empatia in attivisti come Clarkson era evidente agli occhi degli osservatori. Il poeta e filosofo Samuel Taylor Coleridge scrisse, a proposito di Clarkson: «Nulla può superare la bellezza morale del modo in cui egli […] riferisce circa la parte da lui avuta in quella guerra immortale […] [Clarkson è] una macchina a vapore morale»78.

Chiaramente, le emozioni di Clarkson non erano di natura religiosa, ma empatica. Egli trascorse molto tempo viaggiando attraverso l’Inghilterra impegnato a trovare esempi e testimoni delle crudeltà compiute non solo nei confronti degli schiavi, ma anche dei marinai delle navi negriere. Una famosa medaglia che raffigura uno schiavo inginocchiato reca la scritta: «Non sono anch’io un uomo e un fratello?». «Riprodotta ovunque, dai libri e volantini alle tabacchiere e ai gemelli per polsini, l’immagine ebbe un successo immediato»79. Un’altra immagine molto efficace nel produrre empatia fu il disegno di una nave negriera, la H. M. S.

Brookes, che mostrava gli spazi molto angusti occupati dagli schiavi durante il loro viaggio verso le Indie Occidentali. Questa immagine venne utilizzata nel corso dei dibattiti parlamentari sullo schiavismo e fu inclusa nell’opera di Clarkson intitolata Abstract of the Evidence delivered before a select committee of the House of Commons in the years 1790 and 1791, on the part of the petitioners for the Abolition of the slave trade [Sintesi delle prove presentate ad un comitato scelto della Camera dei Comuni negli anni 1790 e 1791 da parte dei latori della petizione per l’abolizione della tratta degli schiavi, n. d. t.] che vendette diverse centinaia di migliaia di copie. Più che ai sentimenti religiosi, il documento si dedica alla descrizione dettagliata delle sofferenze degli schiavi «con particolari raccapriccianti»80. L’appello era rivolto all’empatia dei lettori.

Tra gli attivisti era comune affermare che se la gente avesse saputo ciò che veramente accadeva nella tratta degli schiavi avrebbe simpatizzato per l’abolizionismo. Un altro importante attivista, Granville Sharp, osservò: «Siamo chiaramente dell’opinione che la natura della tratta degli schiavi debba solo essere conosciuta per essere detestata»81, un commento che presuppone le capacità empatiche del suo uditorio. Riguardo a questo «enorme male» Clarkson scrisse di essere «sicuro che agli abitanti di queste isole privilegiate sarebbe bastato soltanto conoscerlo per provare verso di esso una giusta indignazione»82. Come risultato di questi sforzi, l’abolizione della tratta degli schiavi era già popolare tra il pubblico assai prima di diventare una legge, nel 1807. In effetti, già negli anni 1787-1788 «se la questione avesse potuto essere decisa dalla pubblica opinione, la tratta degli schiavi sarebbe stata abolita immediatamente»83. Un contemporaneo stimò che 300.000 britannici avessero rinunciato allo zucchero per ragioni morali; un altro valutò il loro numero a 400.000. Oulaudah Equiano, un ex schiavo, compose un’autobiografia che descriveva la crudeltà dello schiavismo e della tratta degli schiavi, opera che divenne un best-seller. Nel 1788, Joseph Wool, mercante e abolizionista quacchero, scrisse che «il popolo britannico era come legna che ha preso immediatamente fuoco a partire dalla scintilla di informazione che l’ha raggiunta»84. Nell’aprile del 1788 un attore in tournée scrisse che «le principali città britanniche per le quali era passato avevano “preso fuoco” a proposito dello schiavismo»85. Quando la tratta fu infine abolita, la forza motrice non era stata il governo; un articolo dell’Edinburgh Review affermò che «il sentimento della nazione ha imposto l’abolizione ai nostri governanti»86.

 

Empatia e opposizione ideologica allo schiavismo: quaccheri, anglicani evangelici e metodisti.

 

Nel XVIII secolo i sentimenti antischiavisti venivano spesso espressi piuttosto chiaramente, e in effetti sembra siano stati alquanto diffusi, in attesa soltanto di un movimento organizzato e di una maggior democratizzazione delle istituzioni politiche per esercitare un effetto sulla politica pubblica.

 

In Gran Bretagna i mercanti di schiavi incontrarono la pubblica disapprovazione già all’inizio del XVIII secolo, decenni prima che emergessero quei movimenti culturali cui spesso si attribuisce il merito di aver prodotto un sentimento antischiavista, e decenni prima del culmine della rinascita evangelica o dell’illuminismo europeo, o dell’’emergere di un culto della sensibilità […]. Nel 1776 un propagandista della Royal Africa Company osservava che «molti hanno pregiudizi contrari alla tratta e pensano che quello del commercio dei negri sia un traffico barbaro, disumano e illegale per un paese cristiano»87.

 

Queste osservazioni sull’opposizione allo schiavismo sono fatte in modo sbrigativo, il che mostra che l’autore considerava diffusi i sentimenti antischiavisti. Inoltre «verso la metà del XVIII secolo una cultura della simpatia rese sempre più di moda rappresentare gli schiavi africani in maniera romantica, come esempi di innocenza violata»88. Durante la guerra rivoluzionaria americana i sostenitori della Gran Bretagna sottolineavano l’ipocrisia della retorica della libertà americana in un contesto schiavista. Gli americani controbattevano che i britannici non erano certo estranei alla pratica e che in definitiva erano i responsabili dello schiavismo in America. Gli elementi antischiavisti americani (specialmente i quaccheri e i discendenti dei puritani del New England) evidenziavano come lo schiavismo fosse in effetti incompatibile con gli ideali americani89.

Malgrado ciò, non si ebbe un movimento effettivo fino agli anni 1780. A quell’epoca divenne possibile concepire una carriera come attivista antischiavista:

 

Negli anni 1780 condannare lo schiavismo per principio e le istituzioni coloniali nella pratica era divenuto il segno distintivo di un cristiano illuminato e umano. A partire dalla metà del secolo romanzieri come Sarah Scott e Laurence Sterne avevano presentato l’uomo e la donna di sentimento, con la loro caratteristica simpatia per l’africano, come esempi di virtù morale. Mancava soltanto un piccolo passo per vedere come l’opposizione attiva allo schiavismo avrebbe potuto essere usata come un mezzo per dimostrare il valore morale dell’individuo [segnalazione morale] una volta che tale scopo avesse smesso di essere associato ad un idealismo senza speranze90.

 

Sebbene gli atteggiamenti antischiavisti fossero molto influenzati dall’empatia per le sofferenze degli altri e non fossero necessariamente collegati a una forte credenza religiosa, gli attivisti e le organizzazioni chiave, riflettendo in ciò senza dubbio la generale religiosità dell’epoca, avevano evidenti legami con gruppi religiosi: quaccheri, anglicani evangelici e metodisti. Un’eccezione è rappresentata forse da Granville Sharp, anglicano della High Church e uno dei primi attivisti contro lo schiavismo. Così come gli anglicani evangelici (p. es. James Ramsey) Sharp era motivato dal fervore morale cui si mescolava la preoccupazione per gli effetti dello schiavismo sulla vita nell’aldilà. «Quando credeva che qualcosa fosse male si metteva in marcia con fiducia per affrontare personalmente il malfattore»91. La tratta degli schiavi e lo schiavismo delle colonie avevano portato alla Gran Bretagna «un disonore indelebile», una «famigerata malvagità»92; «essere al potere e trascurare (la vita essendo molto incerta) anche per un solo giorno l’impresa  di porre fine ad una tale mostruosa ingiustizia e sfrenata malvagità deve necessariamente mettere in pericolo la vita eterna di un uomo»93. Per Sharp l’opposizione allo schiavismo era un dovere morale, profondamente radicato nella sua visione del mondo; «egli non potè mai considerare di vincolare un uomo in termini diversi da quelli morali»94. Brown colloca Sharp nel contesto del calvinismo del New England95. Come si è visto nel capitolo 6 e si vedrà più avanti, negli Stati Uniti l’eredità dei puritani del New England generò la più potente opposizione allo schiavismo nel periodo che precedette la Guerra Civile. Come i quaccheri e le donne anglicane evangeliche, Sharp sembra non aver avuto interesse all’autopromozione e, di norma, evitò la ribalta96.

 

I quaccheri.

I quaccheri di Philadelphia concepirono presto un’antipatia nei confronti dello schiavismo, manifestandola apertamente nel 175497 ed espellendo i proprietari di schiavi negli anni 1760 e 177098. I quaccheri degli Stati Uniti liberarono i loro schiavi e alcuni di loro pagarono dei risarcimenti. I quaccheri americani fecero pressioni sui loro confratelli / correligionari britannici affinchè assumessero un ruolo più attivo nell’abolizionismo99.

In Gran Bretagna le organizzazioni e il denaro dei quaccheri ebbero «un’importanza critica» nelle prime campagne del 1787-1788; essi furono «i principali campioni della libertà per gli africani resi schiavi»100. Nel 1783 i quaccheri, che contavano all’incirca 20.000 membri, diedero inizio ad un’energica campagna contro lo schiavismo che portò alla prima petizione presentata alla Camera dei Comuni quello stesso anno, al primo comitato antischiavista (che cominciò ad operare nel 1783 ma incluse anche la “Società per l’attuazione dell’abolizione della tratta degli schiavi”, assai influente e fondata nel 1787) e alla stampa e diffusione della letteratura antischiavista. I quaccheri svolsero la gran parte dell’opera pratica e quotidiana della Società e furono una delle sue principali fonti di finanziamento.

«I propagandisti quaccheri influenzarono l’informazione disponibile al pubblico dei lettori dopo il 1783»101.

Distribuirono anche in maniera aggressiva la loro letteratura sia tra i membri dell’élite (per esempio  tra i personaggi politici) che tra il popolo (ad esempio tramite articoli sui giornali della provincia privi di  riferimento ai quaccheri come autori, un metodo che «permise loro di dissimulare in quale misura l’improvvisa comparsa dei sentimenti antischiavisti sulla stampa rifletteva l’iniziativa dei quaccheri»102). «Dozzine di quaccheri in tutta l’Inghilterra dedicarono innumerevoli ore, nel 1784 e nel 1785, a far pervenire la letteratura antischiavista nelle giuste mani»103. A cominciare dagli anni 1780 tutta la letteratura antischiavista fu stampata dal quacchero James Phillips, di regola col supporto finanziario di altri quaccheri. Le opere del quacchero di Philadelphia Anthony Benezet ebbero un’importanza fondamentale e furono spesso citate da altri scrittori; Maurice Jackson dà alla sua biografia di Benezet il sottotiolo: «Il padre dell’abolizionismo atlantico»104. Benezet scrisse che lo schiavismo e la tratta erano «malvagità prodigiose» e «prodigiose iniquità»105.

I quaccheri erano un gruppo marginale nella società britannica: «Erano marginalizzati perché non potevano ricoprire cariche, dato che solo i membri [della Chiesa d’Inghilterra] potevano farlo. Erano spesso canzonati e “derisi come tipi strambi e senza alcun potere”»106. Brown sostiene che i quaccheri abbiano fatto uso del pubblico consenso contro lo schiavismo che era venuto manifestandosi negli anni 1780 come mezzo per ottenere un maggiore accettazione107. Essi furono, in effetti, molto lodati per aver presentato una petizione antischiavista alla Camera dei Comuni: «Questi riconoscimenti incoraggiarono gli “Amici” a presentarsi come attivisti morali e ad indossare il manto dei crociati della giustizia e della virtù»108. L’opposizione allo schiavismo divenne un aspetto centrale dell’identità quacchera: «L’impegno contro “l’avarizia dell’uomo ingiusto” rafforzò il legame di appartenenza religiosa e instillò il senso di uno scopo collettivo»109.

Elizabeth Hayrick, una convertita al quaccherismo, fu un’efficace sostenitrice dell’abolizionismo. In generale, l’abolizionismo era molto popolare tra le donne e molte di loro erano impegnate nella propaganda di strada distribuendo letteratura, ecc. Le società femminili erano «quasi sempre più audaci di quelle maschili»110. Furono le donne a mantenere vivo il movimento quando esso perse vigore negli anni 1820 e al principio degli anni 1830.

L’ideologia religiosa dei quaccheri è il non plus ultra dell’universalismo morale; essi «credevano che la

“luce interiore” della rivelazione divina brillasse egualmente sugli uomini di ogni razza o classe»111. Per Benezet l’eguaglianza tra gli uomini «era un fatto ontologico più che una dottrina o una massima filosofiche»112; oltre a preoccuparsi per gli schiavi africani, egli estese il proprio interessamento al bene degli indiani d’America e dei poveri di Philadelphia. Una dichiarazione sottoposta al parlamento da un sottocomitato quacchero recava il titolo: The Case of Our Fellow-Creatures, the Oppressed Africans [La questione dei nostri simili, gli africani oppressi, n. d. t.]113.

I quaccheri erano anche fortemente egualitari: erano «democratici e non gerarchici»114, non avevano vescovi né ministri del culto ordinati e chiunque (comprese le donne) aveva diritto di parola. Com’è tipico dei gruppi egualitari (cfr. il capitolo 3) le scelte politiche passavano attraverso il consenso dell’intera assemblea. In generale, i quaccheri erano persone di successo sul piano economico, una classe mercantile in grado di devolvere consistenti risorse alla causa dell’attivismo antischiavista115. Pur avendo avuto inizio come un gruppo marginale, ampiamente deriso per i loro costumi (i primi quaccheri della metà del XVII secolo si mostravano a volte nudi in pubblico116) essi crearono alla fine una religione (come gli unitariani, derivati dai puritani) i cui membri appartenevano all’élite urbana e degli affari con «alcuni dei nomi più famosi dell’ambiente imprenditoriale e finanziario britannico»117.

Già agli inizi del XVIII secolo le preoccupazioni dei quaccheri andavano al di là delle considerazioni di carattere utilitaristico (quali ad esempio i pericoli connessi al possesso dei schiavi):

 

I moralisti quaccheri, da William Edmundson a Johm Woolman, insistevano sulla contrapposizione tra lo schiavismo e i principi fondamentali della giustizia, della morale e della rettitudine. Questo atteggiamento riflette in parte la peculiare mentalità della fede quacchera. Più di ogni altra setta i quaccheri tentarono di tradurre in pratica i principi egualitari impliciti nell’ala radicale della Riforma protestante. Gli “Amici” sapevano che Cristo aveva prescritto la compassione per il debole. E sapevano che la violenza necessaria ad istituire e a mantenere lo schiavismo era in conflitto con il loro peculiare impegno pacifista […] Ponevano un particolare accento sulla rinuncia ai lussi mondani, sul dimostrare nella vita di ogni giorno il rifiuto dell’avidità e dell’interesse egoistico118.

 

Come osservato in precedenza, Woolman, noto come «la quintessenza del quacchero», si sentiva in colpa per la preferenza accordata ai propri bambini piuttosto che a quelli che vivevano all’altro capo del mondo119.

 

Gli anglicani evangelici.

Gli anglicani evangelici erano motivati da un’indignazione morale verso lo schiavismo cui si univano forti implicazioni ideologiche basate su una visione religiosa del mondo. A differenza dei quaccheri o dei metodisti, essi «godevano di una posizione di primo piano e di status sociale»120 e si trovavano pertanto in condizioni migliori per poter modificare la mentalità e il comportamento delle élite. I principali esponenti sono il reverendo Thomas Clarkson (il più importante attivista, scrittore efficace e figura ponte tra gli anglicani evangelici e i quaccheri) il reverendo James Ramsey (lo scrittore a pamphlettista più in vista) William Wilberforce (il capo dello schieramento abolizionista in parlamento) Hannah More (la scrittrice e filantropa che, come osservato in precedenza, fu la prima ad usare l’espressione “Età della Benevolenza”) Beilby Porteus (un influente vescovo anglicano) Elizabeth Bouverie (una facoltosa benefattrice) e l’ammiraglio Charles Middleton con sua moglie Margaret (quest’ultima una ricca e pia benefattrice che «insisteva affinchè Barham Court [la tenuta dei Middleton a Teston] fosse usata come luogo di conversazione sul tema dello schiavismo»121); Margaret è considerata un’influenza formatrice tra gli anglicani evangelici.

Mentre l’empatia nei confronti degli schiavi è piuttosto evidente nei loro scritti e nelle loro dichiarazioni, vi era anche una forte enfasi religiosa, un’ideologia universalista in base alla quale tutti gli esseri umani erano stati creati da Dio come candidati alla salvezza eterna122. «I revivalisti evangelici erano a volte più disposti a trascurare le differenze razziali ed etniche. Tra le sette evangeliche esistevano differenze importanti nella teologia e nella pratica, tuttavia esse possedevano una comune tendenza a presupporre un’eguaglianza spirituale con gli uomini e le donne di razza negra»123.

In effetti nel suo libro An Essay on the Treatment and Conversion of African Slaves in the British Sugar Colonies [Saggio sul trattamento e sulla conversione degli schiavi africani nelle colonie britanniche produttrici di zucchero, n. d. t.] del 1784, il reverendo James Ramsey sottolineava l’eguaglianza morale e intellettuale degli schiavi africani: «Posso confermare la richiesta di un’attenzione da parte nostra proveniente dai negri illustrando le loro capacità naturali e dimostrando come essi siano su un piano di eguaglianza, quanto alla possibilità di conseguire un miglioramento della loro mente, con gli abitanti di qualsiasi altro paese»124. Il libro di Ramsey fu influente e ben recensito nelle pubblicazioni d’élite, ma provocò un «parossismo di indignazione da parte degli interessi che avevano la loro base nelle Indie Occidentali»125. Nel 1788 anche i testi pro-schiavisti ammettevano le premesse morali dell’abolizione con osservazioni del tipo: «nessuno può negare il fatto che la schiavitù sia un male», oppure «nessuno condanna più di me, come proposizione astratta, il potere esercitato sulle vite e sulla proprietà dei propri simili»126. Ciò nondimeno, con l’autorità che gli veniva dalla sua esperienza, essendo vissuto per quasi vent’anni nelle Indie Occidentali ed essendo stato egli stesso un proprietario di schiavi, Ramsey pubblicò delle descrizioni che illustravano l’oppressione degli schiavi e che erano chiaramente concepite per evocare l’empatia. I proprietari di schiavi erano «abituati fin dall’infanzia a scherzare coi sentimenti e a sorridere delle sofferenze dei disgraziati nati per essere gli umili strumenti della loro avarizia e gli schiavi del loro capriccio»127. Egli descrive schiavi che ricevevano «venti colpi con una lunga frusta da carrettiere» per lievi mancanze compiute nello svolgimento del compito quotidiano di raccogliere il foraggio per gli animali domestici128. La frusta da carrettiere, «nelle mani di un conducente esperto, taglia via pezzi di pelle e carne ad ogni colpo; e il disgraziato, dopo questo trattamento, viene rimandato al lavoro, col sole o con la pioggia, e questo peso, talvolta, provoca una sofferenza tale da porre fine alla sua vita e alla sua schiavitù»129. Vi sono descrizioni dettagliate delle punizioni inflitte agli schiavi, spesso per mancanze irrisorie. Vengono anche descritti i pericoli del lavoro nelle piantagioni di canna da zucchero, come il rischio di perdere un braccio nell’utilizzo dei macchinari, rischio aggravato dalla stanchezza degli schiavi privati del sonno dall’eccessivo lavoro.

Ramsey, pur disprezzando l’avidità, sosteneva che migliorare le condizioni degli schiavi sarebbe stato un bene anche per i padroni: «Se l’uomo di sentimento vedrà soddisfatto ogni suo generoso slancio dalla prospettiva che ha aperto, il politico, l’egoista vedrà pienamente realizzati tutti i suoi piccoli desideri di opulenza e di accumulazione»130. Ramsey è anche attento a sottolineare come il suo sia un impegno altruistico e come egli non sia spinto da un qualsivoglia tipo di guadagno o di riconoscimento personale. In effetti, il suo comportamento avrà un costo perché dovrà subire la censura degli altri: «Egli rinuncia al profitto e volontariamente trasferisce ogni credito che può derivarne a colui che lo condannerà»131. Ramsey pertanto vedeva se stesso «come un martire, non come un eroe»132.

In base all’ideologia dell’universalismo morale, la possibilità di condurre gli schiavi nell’ovile cristiano rivestiva un’importanza primaria. Questa ideologia razionalizzava forti controlli sociali miranti a tenere a freno i proprietari delle piantagioni. Gli anglicani evangelici si proponevano di ottenere i loro scopi promuovendo, «nelle parole del vescovo Beilby Porteus, l’istituzione di “leggi fisse” e di una “polizia” per reprimere i proprietari di schiavi che commettevano abusi, nonchè iniziative che avrebbero fornito agli schiavi “protezione, sicurezza, incoraggiamento, miglioramento e conversione”»133. Porteus era stato fortemente colpito dalle descrizioni del trattamento riservato agli schiavi: «per lui il modo in cui venivano trattati gli schiavi britannici era diventato, nel 1784, una misura della virtù collettiva»134.

Riflettendo sul fatto che gli atteggiamenti antischiavisti erano divenuti, negli anni 1780, la tendenza dominante, Brown interpreta il sostegno ad essi fornito dagli evangelici come motivato dal desiderio di ricavare un capitale morale da utilizzare per conseguire i loro obiettivi a più ampio raggio, e cioè di accrescere la pietà e un comportamento moralmente cauto in ambiti diversi135. In altre parole, la causa dell’abolizione aveva raggiunto la dimensione di un imperativo morale, al punto che nel pubblico in generale essa «veniva associata alle buone maniere, alla sensibilità, al patriottismo e alla dedizione alla libertà britannica»136. Poteva pertanto essere utilizzata come un ariete contro l’immoralità in altri ambiti.

Malgrado ciò, il loro attaccamento alla causa abolizionista non era meramente strumentale; era presente una forte motivazione empatica: «il loro orrore per il traffico e la riduzione in schiavitù di esseri umani era autentico»137: un giudizio che certamente appare evidente a chiunque legga i saggi di Ramsey.

 

I metodisti.

L’esplosione del “Nuovo Dissenso” (specialmente il metodismo) dagli anni 1760 agli anni 1840 segnò uno dei mutamenti sociali e culturali più netti nella storia del paese […] Il metodismo fu l’unica denominazione che sicuramente prosperò sul mutamento socio-economico, includendo in ciò la crescita della popolazione, l’industrializzazione, l’emigrazione e la mobilità sociale. Così, nelle sue varie forme, esso divenne il più potente catalizzatore del dissenso culturale in Inghilterra. Le cappelle e le loro scuole domenicali, spesso animate da artigiani e minatori autodidatti, divennero un canale della rivolta contro i proprietari terrieri e i parroci138.

 

Durante questo periodo, i metodisti furono degli evangelici che si opponevano allo schiavismo ma operavano al di fuori della Chiesa d’Inghilterra. Fondato nel 1739, il metodismo era molto in sintonia con l’enfasi posta su un senso morale universale: «Mentre i filosofi chiamavano in causa il senso morale quale base dei sentimenti sociali, i predicatori metodisti mettevano in pratica tale idea diffondendo un messaggio religioso fatto di buone opere, impegnandosi in una serie di cause umanitarie e accogliendo i poveri nel loro ovile»139.

 

Sebbene ponessero l’accento sull’impegno personale nella carità e nelle opere buone, i metodisti contribuivano a fondare e a sostenere iniziative filantropiche e istituzioni di ogni tipo: ospedali, dispensari, orfanotrofi, società di mutuo soccorso, scuole e biblioteche. Essi giocarono anche un ruolo di primo piano nel movimento per l’abolizione della tratta degli schiavi. Lo stesso Wesley si appassionava al tema della «esecrabile infamia», lo schiavismo. «Un africano […] non era inferiore a un europeo sotto qualunque aspetto»; se tale sembrava, era perché gli europei lo avevano mantenuto in una condizione di inferiorità, privandolo di «ogni opportunità di miglioramento sia nella conoscenza che nella virtù»140.

 

In una lettera a William Wilberforce, il capo degli abolizionisti nel parlamento, Wesley scrisse: «Andate avanti, nel nome di Dio e nel potere della Sua potenza, fino a che anche lo schiavismo americano (il più abietto che mai si sia visto sotto il sole) non svanisca di fronte ad essa»141. Secondo Wesley, se l’impero necessitava dello schiavismo, allora si sarebbe dovuto ripudiarlo142: un eccellente esempio della mancanza di considerazione, da parte degli abolizionisti, per gli interessi individuali o nazionali.

Sebbene fossero coinvolti nell’invio di petizioni al parlamento143, i metodisti non furono al centro dei movimenti attivisti. Ciò nondimeno, la loro posizione era chiara. Nel 1774 Wesley pubblicò uno scritto antischiavista dal titolo Thoughts upon Slavery [Pensieri sullo schiavismo, n. d. t.] che conteneva crude descrizioni del reclutamento degli schiavi e del modo in cui venivano trattati durante il viaggio verso le Indie Occidentali e nelle piantagioni di canna da zucchero:

 

E cosa può esservi di più miserabile della condizione in cui vengono a trovarsi? Banditi per sempre dal loro paese, dai loro parenti ed amici, vengono ridotti ad uno stato difficilmente preferibile a quello delle bestie da soma […] Il loro sonno è breve, il loro lavoro continuo e spesso al disopra delle loro forze: così la morte ne libera molti prima che abbiano vissuto la metà dei loro giorni […] Sono frustati da sorveglianti che, se ritengono che perdano tempo o che non abbiano fatto qualcosa come avrebbero dovuto, li battono nel modo più spietato, così che si possono vedere i loro corpi, per molto tempo, segnati e sfregiati, di solito dalle spalle fino ai fianchi […] Quanto alle punizioni che vengono loro inflitte, dice sir Hans Sloan[e], «spesso li castrano, o gli tagliano la metà di un piede; poi vengono frustati finchè sono tutti scorticati. Alcuni gettano [sulle loro ferite, n. d. t.] pepe e sale. Altri colano cera fusa sulla loro pelle. Altri ancora tagliano loro le orecchie e li costringono a cucinarle sulla griglia e a mangiarle. Se si ribellano» (e cioè se affermano la propria naturale libertà alla quale hanno diritto come all’aria che respirano) «li legano al terreno ponendo della legna su tutte le loro membra, quindi applicando il fuoco un po’ alla volta, ai piedi e alle mani, li bruciano a poco a poco fino alla testa»144.

 

Che pratiche del genere venissero eseguite o meno, o che fossero più o meno consuete, brani come questo erano chiaramente concepiti per suscitare empatia e disgusto nei lettori.

Il metodismo aveva sviluppato una notevole retorica dell’altruismo. Tutte le ricchezze che andavano al di là di quanto era necessario per sostenere una famiglia dovevano essere date ai poveri e ciò doveva essere fatto, secondo Wesley, «in modo quanto più possibile segreto e senza ostentazione»145. Questo in effetti toglieva importanza alla reputazione personale come motivazione per gli atti di carità. I metodisti tendevano ad evitare un approccio organizzato alla carità in favore dell’iniziativa individuale.

 

Fu dunque stabilita una disposizione alla filantropia, piuttosto che un’organizzazione della stessa, il che spiega in larga misura il generoso sostegno dato dai membri del Collegamento Metodista al miglioramento della condizione dei sofferenti, fosse questa dovuta alla povertà o alla malattia, alla prigionia o alla schiavitù; e spiega inoltre la carenza di sforzi organizzati nell’affrontare ciascuno dei principali problemi sociali dell’epoca146.

 

La produzione artistica dei metodisti poneva l’accento sulla virtù morale: «I metodisti pubblicarono romanzi sentimentali e poemi […] così come sermoni e trattati. E la teologia aveva al suo centro sensazioni, sentimenti ed emozioni cui veniva data espressione attraverso la preghiera, gli inni, le omelie e, non ultimo, il servizio personale ai malati e ai bisognosi»147.

Come per i quaccheri e gli anglicani evangelici, esisteva nel metodismo una forte venatura di egualitarismo. Sebbene leale verso la gerarchia stabilita, all’interno della chiesa «il movimento era, nello spirito se non formalmente, democratico […] All’interno della chiesa c’erano poche distinzioni sociali […] E la struttura organizzativa, per quanto gerarchica, promuoveva uno spirito di comunità e di fraternità»148. Le donne costituivano spesso la maggioranza nelle congregazioni e rivestivano un importante ruolo di guide «nella preghiera, nel consigliare e nell’esortare»149. C’erano molte predicatrici, con il medesimo status degli uomini. Il metodismo incoraggiava un’etica analoga a quella puritana basata sulla parsimonia, sulla diligenza e sul duro lavoro, cui si accompagnava «l’obbligo sociale della carità e delle opere buone, facendo così dell’“aiutare se stessi” un corrispondente dell’aiuto dato agli altri»150. Il metodismo attirava «le classi medie; esso si mantenne alleato all’evangelicalismo che avrebbe ispirato la “Riforma Morale” e i movimenti filantropici che rappresentarono un aspetto così distintivo dell’illuminismo britannico»151.

 

Il puritanesimo come prototipo dell’“Età della Benevolenza”.

 

Il libro di Mary Gwladys Jones dal titolo Il movimento della Scuola di Carità: studio sull’azione del puritanesimo nel XVIII secolo descrive le radici puritane dell’“Età della Benevolenza” nel Settecento152. Ciò è importante ai fini della presente discussione perché sebbene i puritani in sé non siano stati alla testa del movimento per l’abolizione dello schiavismo, il lavoro della Jones mostra chiaramente che l’etica puritana che abbiamo illustrato nel capitolo 6 stava alla radice di ciò che ella descrive come «il duraturo umanitarismo e la generosa filantropia» del XVIII secolo153. Ciò comprendeva l’interessamento nei confronti degli schiavi africani:

 

Le richieste delle missioni estere, le sofferenze dei rifugiati religiosi, l’infelicità degli schiavi negri, dei trovatelli e dei bambini impiegati come spazzacamini, le brutalità della legislazione criminale, gli stenti dei più poveri, degli anziani e degli infermi, i sacrifici dei “secondi poveri” [i poveri che non ricevevano l’aiuto delle parrocchie] per rimanere a galla, le sofferenze dei malati e dei carcerati non mancavano di commuovere le coscienze e di sciogliere i cordoni delle borse dei cittadini religiosi e filantropi dell’Inghilterra del XVIII secolo154.

 

Nel collegare queste tendenze al puritanesimo, Jones non suggerisce un legame di fedeltà ad un particolare dogma religioso, bensì uno sforzo «di vivere le loro vite in puntigliosa conformità agli insegnamenti cristiani». Persone del genere si potevano trovare in tutte le organizzazioni religiose, compresa la Chiesa d’Inghilterra. «Esse non erano unite da una specifica forma di costituzione ecclesiastica, ma da un pietismo, da un purismo religioso che mirava a promuovere, tramite un’austera disciplina personale, la gloria di Dio e la santificazione interiore dell’individuo»155. La loro motivazione era «la ricompensa spirituale nel mondo a venire»156. La sensibilità degli evangelici del XVIII secolo rappresentava pertanto la caratteristica di ciò che Jones definisce «puritanesimo classico»157. «La pratica continua e incrollabile della pietà e della carità rimase la loro caratteristica dominante».

 

“Il secondo impero britannico” nel XIX secolo: un luogo più gentile e più mite.

 

La ribellione di Morant Bay in Giamaica e i suoi sostenitori in Inghilterra.

Il movimento per abolire lo schiavismo fu solo una parte del movimento generale verso una società in cui l’empatia, l’equità e i “sani principi” avessero un peso maggiore, una società caratterizzata da forti principi morali. Questo atteggiamento di un importante settore della società britannica si manifestò nella reazione alla ribellione dei negri giamaicani contro i bianchi che ebbe luogo a Morant Bay, in Giamaica, nel 1865, e che è stata studiata da Andrew Joyce158.

Considerando il contesto delle ribellione, l’abolizione dello schiavismo in Giamaica non pose certamente fine alle tensioni razziali. Lo schiavismo ebbe fine nel 1833 e dal 1838 la forza lavoro venne reclutata secondo un sistema di mercato, col risultato che molti lavoratori caddero in povertà e i proprietari delle piantagioni si lamentarono dell’indolenza degli operai; la produzione di zucchero ebbe un calo significativo. La situazione in Giamaica presentava differenze critiche rispetto a quella più o meno contemporanea della

Nuova Zelanda, dove i coloni inglesi avevano principi più elevati (si veda più avanti). A differenza della Nuova Zelanda, la Giamaica aveva una lunga storia di sfruttamento di schiavi africani per il lavoro nelle grandi piantagioni che risaliva alla fine del XVII secolo. Una prospettiva razziale realista evidenzia il basso quoziente intellettivo degli africani, come pure il loro scarso controllo sugli impulsi e la loro scarsa etica del lavoro. Joyce cita Lawrence James, un noto storico dell’impero britannico, che osservò come molti negri rifiutassero di lavorare nelle piantagioni dopo che sull’isola si stabilì un libero mercato del lavoro. Il risultato fu che i proprietari ricorsero all’importazione di manodopera dall’India e dalla Cina per il lavoro agricolo. Dal punto di vista del realismo razziale, non sorprende che i discendenti di questi lavoratori asiatici abbiano acquisito una posizione di spicco nella classe mercantile dell’isola, raggiungendo una posizione che è senza dubbio superiore a quella dei negri159. In tempi recenti ciò ha provocato tensioni etniche, nelle quali in particolare i cinesi sono divenuti il bersaglio dell’ostilità dei negri giamaicani poveri. Tumulti anticinesi negli anni 1970 hanno causato un’emigrazione su larga scala dall’isola. Una prova rivelatrice dell’etica del lavoro dei negri giamaicani è data dal fatto che quando gli imprenditori cinesi aprirono delle aziende tessili in Giamaica negli anni 1980-90 portarono con loro manodopera cinese.

Queste tensioni non sono scomparse: malgrado i cinesi continuino a dominare l’economia, alcuni di loro lasciano l’isola a causa degli atteggiamenti anticinesi e della diffusione del crimine160. Come osserva un articolo sulla stratificazione sociale nella Giamaica contemporanea, «buona parte della ricchezza nazionale è detenuta da un piccolo numero di famiglie dalla pelle chiara o bianca, e una porzione significativa è controllata da individui di origine cinese o mediorientale»161. Inoltre, l’origine africana è «ancora associata all’immagine di individui “incivili”, “ignoranti”, “pigri” e “inaffidabili”». Questi stereotipi sui negri giamaicani sono simili a quelli che riguardano i negri in altri paesi e sono coerenti con i risultati di una ricerca razziale realista162. Questi risultati collocano nel loro contesto le difficoltà che le autorità giamaicane dovettero affrontare nel 1865.

La reazione del governatore della Giamaica John Eyre alla ribellione non riflette quel secondo impero britannico “più gentile e più mite” di cui si parla nel seguito in relazione alla Nuova Zelanda. I ribelli uccisero degli ufficiali di polizia e dopo che ebbero dato l’assalto a un tribunale le vittime bianche della sommossa furono uccise «in circostanze di grande atrocità»163, ad esempio tagliando loro la lingua e le dita mentre erano ancora vive. Il governatore Eyre chiese rinforzi alla Marina Reale, che ristabilì l’ordine dopo aver ucciso diverse centinaia di ribelli, compresi il loro capo Paul Bogle e i suoi fratelli. George William Gordon, persona facoltosa di razza mista che era membro del parlamento giamaicano, fu giustiziato per complicità e in seguito divenne il protagonista di colorite agiografie prive di accuratezza storica, diffuse tra i critici della risposta governativa alla ribellione.

Comunque, la reazione di certi settori della società britannica riflettè certamente il tema di un impero britannico “più gentile e più mite”. L’articolo di Joyce mostra come i sentimenti che guidarono il movimento antischiavista in Inghilterra fossero evidenti e potenti nell’Inghilterra degli anni 1860:

 

Per una persona capace di un ragionamento lucido si trattò di una serie di azioni evidentemente criminali e inconcepibilmente brutali compiute per motivi crudeli contro una popolazione presa di mira perché bianca. E tuttavia, in Inghilterra vi fu una fazione progressista convinta non solo che la vera vittima fosse la popolazione negra, ma anche che i loro connazionali bianchi fossero mostri riprovevoli che avevano meritato il loro destino. Questa risposta patologica, carica di un’emotività eccessiva e malriposta, avrebbe scosso l’impero nelle sue fondamenta, fiaccando la sua fiducia e lasciando un’eredità percepibile ancor oggi164.

 

Le opinioni sull’impero negli anni 1860 erano nettamente divise, con i critici progressisti che facevano capo ad un gruppo informale chiamato Exeter Hall composto da individui facoltosi che avevano accesso ai fiorenti mezzi di informazione dell’epoca basati sui giornali. Nell’opinione pubblica essi venivano identificati «con ciò che Charles Dickens descriveva come «simpatia da palcoscenico per il negro e […] indifferenza da palcoscenico per i nostri stessi compatrioti»165. I commenti di Dickens, scritti nel 1865, sono interessanti perché riflettono il pensiero progressista dell’epoca: impegno nell’aiutare i poveri in luoghi remoti promuovendo l’immigrazione, senza alcuna considerazione per gli effetti negativi su ampi settori della popolazione autoctona, in particolare sulla classe lavoratrice. Così Dickens:

 

L’insurrezione in Giamaica è un altro bel tipo di affare che lascia ben sperare. Quella simpatia da palcoscenico per il negro (o per il nativo, o per il diavolo) che sta lontano e quella indifferenza da palcoscenico per i nostri stessi compatrioti che si trovano in mezzo ad enormi difficoltà tra spargimenti di sangue e brutalità, mi fanno veramente infuriare. Soltanto l’altro giorno c’è stato un raduno di mascelle d’asino165a a Manchester per criticare il governatore della Giamaica [Eyre] per il modo in cui aveva sedato l’insurrezione! Allo stesso modo veniamo assillati per i neozelandesi [maori] e gli ottentotti, come se costoro fossero identici agli uomini di Camberwell165b vestiti con linde camice, e come questi dovessero essere tenuti a bada da penna e inchiostro! Così Exeter Hall ci mantiene in un perfetto stato di mortale sottomissione a missionari che (fatta sempre eccezione per Livingston) sono delle perfette seccature e lasciano sempre qualunque posto in condizioni peggiori di come l’hanno trovato […] Se i negri giamaicani non fossero stati eccessivamente impazienti e precipitosi, i bianchi sarebbero stati sterminati166.

 

Rispecchiando i sentimenti di molti sostenitori del movimento antischiavista degli anni precedenti, la cricca di Exeter Hall era composta da «filantropi cristiani che credevano che le [altre, n. d. t.] razze potessero essere portate a livelli di educazione e di condotta tali da porle alla pari con gli europei. I membri di questo gruppo tendevano ad essere dei protestanti dissidenti, membri della classe media, progressisti o radicali nelle loro idee politiche»167. Come osserva Joyce, «Exeter Hall fu ampiamente responsabile della produzione e della diffusione di una serie di documenti propagandistici antischiavisti e pro-negri [ricolmi di esagerazioni, omissioni e deliberate rielaborazioni dei fatti storici] che con la loro caratteristica esaltazione emotiva ebbero successo tra coloro che erano influenzati dal movimento romantico»168.

Come per numerosi trascendentalisti e capi religiosi del XIX secolo di cui si è detto nel capitolo 6, le loro idee erano influenzate dalla credenza che le caratteristiche razziali fossero modificabili, e in particolare che convertendo gli africani questi sarebbero diventati parte dell’ethnos cristiano. Com’è stato osservato, queste idee rappresentano una versione cristiana delle idee ottimiste ed utopiche fondate sulle teorie di Lamarck dell’ereditabilità dei caratteri acquisiti. Nell’ideologia lamarckiana le razze possono essere modificate assorbendo la cultura britannica o quella americana, di modo che alla fine esse diventino “proprio come noi”: è la fusione tra razza e cultura.

Stante il grande peso degli accademici ebrei nella cultura occidentale contemporanea, è altresì interessante notare gli aspetti ebraici della rivolta e come questi vennero percepiti all’epoca dei fatti. Joyce cita un resoconto di prima mano di un membro della Royal Geographical Society del 1871169. Oltre ad osservare le inesattezze di molte relazioni sulla ribellione e la scarsa disponibilità dei negri a lavorare, questa persona

 

fece luce sulla minuscola ma ogni giorno più potente comunità ebraica giamaicana. Sempre più danneggiati dal calo del prezzo dello zucchero, i piantatori bianchi «misero sul mercato le loro proprietà». Le risorse dell’isola cominciarono così a cadere «nelle mani degli ebrei, che divennero ricchi e prosperi, e grazie alla complicità di avvocatucoli che si erano ingrassati con le parcelle per la stesura dei documenti legali e agli interessi esorbitanti dei prestiti contratti da numerosi piantatori che tentavano di salvarsi dalla completa rovina, si aprirono la strada verso la Camera dell’Assemblea, dove ebbero presto il sopravvento ed usarono il loro potere per procurare lavoro a se stessi e ai loro amici170.

Il contesto ebraico della ribellione di Morant Bay è stato del tutto trascurato da Gad Heuman [il cui lavoro, come osserva Joyce, cerca di inculcare «un complesso di colpa postimperiale»171] e dalla sua cricca di zelanti ricercatori “post-colonialisti”. In effetti, non si troverà alcun riferimento agli ebrei giamaicani in qualunque opera storica esistente sulla ribellione di Morant Bay. La cosa è più che curiosa quando si considerino due fatti piuttosto sorprendenti. Il primo è che la stampa giamaicana era, se si eccettuano alcuni minuscoli bollettini ecclesiastici, completamente nelle mani della piccola comunità ebraica dell’isola. Una guida della Giamaica del 1895 di fonte governativa, destinata a possibili coloni, elencava i giornali locali: The Colonial Standard, gestito da George Levy, The Gleaner, The Jamaica Princes Current e The Tri-Weekly Gleaner, tutti gestiti dai fratelli ebrei De Cordova172.

Il secondo aspetto decisamente cruciale è che George William Gordon non fu l’unica personalità influente che venne arrestata per sedizione e tradimento: le altre furono il proprietario del The County Union, un certo signor Sidney Levien, e un “procuratore legale” di nome D. P. Nathan173. Il fatto che tali informazioni possano essere scoperte soltanto attingendo alle fonti originali, assenti od oscurate dai nostri testi storici dopo quasi 150 anni e molto inchiostro versato, è piuttosto significativo.

Lo stesso governatore Eyre era convinto che gran parte dei disordini avesse la propria origine negli «articoli soggettivi, scurrili, vendicativi e sleali di una stampa licenziosa e priva di scrupoli»174. Il 20 novembre 1865 Eyre scrisse all’Ufficio Coloniale di Londra esprimendo l’opinione che «molte persone colte e in ottima posizione si sono impegnate a sviare la popolazione negra mediante discorsi e scritti incendiari, dicendo loro che erano maltrattati e oppressi ed incitandoli a cercare un risarcimento»175.

Vi erano dunque le prove che questi istigatori avessero pianificato e anticipato l’esplosione di violenza già da un certo tempo. Un mese prima della ribellione, Levien aveva scritto a diverse persone promettendo di pubblicare editoriali che, nelle sue parole, avrebbero dovuto «mettere al riparo voi e loro [i negri] dall’accusa di anarchia e di insurrezione che in breve tempo farà seguito a queste possenti dimostrazioni»176. Eyre si mise anche in contatto col segretario per le colonie Edward Cardwell, adducendo prove che Levien, Nathan ed altri erano «strettamente collegati a George William Gordon in tutti questi fatti» e dimostrando che essi erano entrambi ben consapevoli dell’impatto che la loro propaganda stava avendo «sulla mente dei negri» e che avevano «deliberatamente perseguito i loro intenti per conseguire l’esito previsto»177, 178.

 

L’opera di Joyce illustra dunque diversi aspetti importanti. Il fenomeno di Exeter Hall è un eccellente esempio di idealismo morale e di empatia per le altrui sofferenze del XIX secolo espressi a livello cosciente in termini di idee religiose cristiane. Inoltre, se si deve credere a Charles Dickens, Exeter Hall era alquanto simile alla sinistra contemporanea, che tipicamente ignora gli effetti di abbassamento dei salari e di distruzione delle comunità prodotti dall’immigrazione di massa non-bianca sulla classe lavoratrice autoctona, in particolare quella bianca. Il lavoro di Joyce illustra altresì come gli storici accademici contemporanei, alcuni probabilmente spinti da animosità etnica nei confronti delle maggioranze bianche tradizionali e agenti in maniera analoga a quella degli intellettuali ebrei esaminati nel libro La Cultra della Critica, siano impegnati a indurre nella popolazione bianca dei sensi di colpa circa il passato dell’Occidente179. Nella misura in cui tali campagne hanno successo, esse dipendono dalle preesistenti tendenze al senso di colpa e all’empatia che caratterizzano una porzione importante degli europei occidentali, tendenze che derivano dalla peculiare storia evolutiva e culturale dell’Occidente presa in esame in altre parti di questo volume.

 

David Hackett Fischer: il “secondo impero britannico”.

Il libro di David Hackett Fischer Albion’s Seed: Four British Folkways in America [Il seme d’Albione: quattro tradizioni britanniche in America, n. d. t.] ha modellato la mia visione della storia americana e di molte altre cose180. Esso fornisce una spiegazione convincente di come i quattro principali gruppi di derivazione britannica (puritani, “cavalieri decaduti”, quaccheri e abitanti della zona di confine tra Scozia e Irlanda [scozzesi d’Irlanda, n. d. t.]) differivano tra loro e della loro lotta per ottenere il dominio sull’America. Per me, come evoluzionista, gran parte dell’attrattiva per il lavoro di Fischer sta nel fatto che egli pone le radici di queste differenze culturali nel lontano passato. Perciò le tendenze dei due gruppi principali, i puritani originari dell’East Anglia e i cavalieri originari dell’Inghilterra sudorientale, risalgono al nebuloso periodo della preistoria inglese. Questi gruppi (i puritani inclini all’individualismo egualitario e i cavalieri inclini all’individualismo aristocratico) mostravano differenze culturali molto forti che probabilmente furono influenzate da differenze etnico-genetiche, come si è visto nei capitoli precedenti.

Fairness and Freedom, [Equità e libertà, n.d. t.], un’altra opera di Fischer, prosegue nell’approccio comparativo questa volta confrontando due diverse società di derivazione britannica, quella della Nuova Zelanda e quella degli Stati Uniti181. La tesi di fondo è che la cultura politica della neozelandese sia molto più pervasa da «una profonda preoccupazione per l’equità»182, mentre quella statunitense si concentra maggiormente su un’ideologia della libertà individuale. Come si vedrà, questo paragrafo richiama quanto si è visto a proposito dei puritani e del movimento antischiavista riguardo al rilievo dato al senso dell’equità e dell’empatia per le sofferenze degli altri che venne caratterizzando la gestione delle colonie britanniche nel XIX secolo. Per quanto ponga un’enfasi minore sull’egualitarismo, anche Fischer descrive la Nuova Zelanda come fortemente egualitaria. La “sindrome dell’alto papavero”, che è piuttosto simile alle “leggi di Jante”182a della cultura scandinava che saranno esaminate nel capitolo 8, è definita come l’invidia e il risentimento nutriti nei confronti  delle persone «palesemente di successo, eccezionalmente dotate o insolitamente creative»183. «Essa è divenuta talvolta un atteggiamento più generale di aperta ostilità verso ogni sorta di eccellenza, di distinzione o del raggiungimento di risultati importati, in particolare di quelli che richiedono sforzo mentale, prolungato impegno o intelligenza applicata […] Il possesso di doti straordinarie è percepito come iniquo da parte di coloro che ne sono privi»184.

L’espressione “sindrome dell’alto papavero” ha avuto origine in Australia, ma sembra più caratteristica della Nuova Zelanda. Le persone di successo vengono chiamate “papaveri”. Questa tendenza non è così forte come un tempo, ma per quanto alcuni neozelandesi di successo vengano accettati, «altri neozelandesi brillanti e creativi sono stati trattati in maniera crudele dai compatrioti, che sembrano ritenere che vi sia qualcosa di fondamentalmente ingiusto nei cervelli migliori o nelle qualità creative, e ancor più nella determinazione a farne uso»185.

Senza dubbio a causa delle medesime tendenze egualitarie, il sistema neozelandese incoraggia l’indolenza e lo scarso profitto; i lavoratori insistono affinchè i colleghi rallentino il ritmo e non lavorino sodo. “Per l’ora di pranzo stacchiamo” è il motto di un gran numero di lavoratori neozelandesi.

Forse come riflesso dell’egualitarismo, Fischer sostiene che fino alla metà del XX secolo (e da allora, senza dubbio, soltanto grazie all’influenza occidentale) non esistessero equivalenti della parola fairness185a se non nelle lingue inglese, danese, norvegese e frisone (e con la notevole esclusione del tedesco)186. Inoltre, le parole fair e fairness non hanno radici latine o greche, ma sono nondimeno riconducibili a un’origine IE. L’originale termine IE ha il significato di “essere contento”, da cui è derivato più tardi il gotico fagrs, che significa “piacevole alla vista” e che spesso indica un individuo dai capelli biondi e dalla pelle chiara. Alla fine il termine è passato ad indicare qualcosa su cui la maggior parte delle persone può trovarsi d’accordo, per esempio a fair price [un prezzo equo, corretto, onesto, n. d. t.].

A differenza di Albion’s Seed, incentrato sulle differenze profonde, durature (già presenti nella documentazione più antica) e assai probabilmente di origine etnico-genetica che spiegano le variazioni culturali, Fairness and Freedom fornisce una spiegazione dello sviluppo in Occidente di un’etica universalista dell’equità [fairness] in termini esclusivamente culturali:

 

Nell’antica pratica etica, le parole significanti equità [fairness] tendevano ad essere usate all’interno delle tribù britanne e scandinave, dove si riferivano a uomini che godevano di buona reputazione. Donne, schiavi e stranieri appartenenti ad altre tribù erano spesso esclusi da un trattamento basato sull’equità e se ne risentivano profondamente. Gli usi tribali di fair […] rivelano l’ironia della storia. Queste idee fiorirono nelle remote regioni periferiche dell’Europa nordoccidentale tra gruppi appartenenti a popolazioni fiere, forti, violente e predatrici, che vivevano in ambienti ostili, combattevano all’ultimo sangue per i mezzi di sostentamento e a volte depredavano la loro stessa gente. Le idee di equità [fairness] e di correttezza [fair play] si svilupparono come un modo per trattenere questi piantagrane abituali dall’ammazzarsi l’un l’altro fino all’estinzione della tribù […]

Qualcosa di fondamentale cambiò in una seconda fase, quando cioè le culture popolari della Britannia e della Scandinavia cominciarono a evolversi in un’etica che abbracciava anche i soggetti estranei alla tribù, come pure le persone di ogni rango e condizione. Tale tendenza espansiva aveva le sue radici in valori universali, come l’idea cristiana della “regola aurea”186a. Questo più ampio concetto di equità si allargò ulteriormente quando incontrò le idee umanistiche del Rinascimento, lo spirito universale dell’illuminismo, quello ecumenico del movimento evangelico e le rivoluzioni democratiche in America e in Europa187.

 

Fischer dunque propone che a partire unicamente da un sottoinsieme nordico delle popolazioni europee nordoccidentali si sia verificata una serie di mutamenti esclusivamente culturali che, cominciando col cristianesimo, culminarono (come Fischer sostiene in seguito) in ciò che io considero come il senso alquanto esagerato dell’equità che ora sta alla base della cultura occidentale. Dire che “qualcosa cambiò” non offre spiegazioni, ma indica semplicemente un insieme di ipotetici mutamenti storici. Fischer non fornisce ulteriori indicazioni sul perché tali cambiamenti ebbero luogo.

Egli sostiene che nella storia americana l’equità rivesta un’importanza assai minore rispetto alla libertà. Attualmente, fairness appare essere un termine di moda tra i sostenitori del Partito Democratico, mentre gli intellettuali conservatori a volte rifiutano del tutto il concetto. Tuttavia, Fischer afferma che «la frequenza [dell’impiego, n. d. t.] della parola fairness è andata crescendo nell’uso americano nel corso del XX secolo, sebbene in misura assai inferiore rispetto a freedom [libertà, n. d. t.] e free [libero, n. d. t.]. Anche così, però, sono pochi gli americani che considerano l’equità [fairness] il principio organizzativo della loro società aperta»188. In Inghilterra, l’uso del termine fairness è andato crescendo fin dal 1800, mentre quello di liberty [libertà, n. d. t.] è andato costantemente declinando a partire da un picco massimo intorno al 1780.

Dopo aver brevemente trattato i quattro principali gruppi americani già dettagliatamente esaminati in Albion’s Seed, Fischer descrive il modello assai differente della Nuova Zelanda. Gli immigrati che giunsero in Nuova Zelanda provenivano da varie parti dell’Inghilterra, senza però presentare forti differenze culturali. Tendevano ad appartenere almeno al ceto medio e alcuni di loro avevano legami con l’aristocrazia; la maggior parte arrivò grazie all’assistenza di organizzazioni che effettuavano una scrupolosa selezione in base al carattere morale e ad altre caratteristiche. Per esempio, un tipico programma richiedeva una lettera scritta dal vicario del candidato all’emigrazione attestante che costui fosse «tra i membri più rispettabili della sua classe»189. Gli scozzesi che emigrarono a Otago, nell’Isola Meridionale, sono descritti come «[gli elementi, n. d. t.] più istruiti e religiosi della classe media e inferiore»190. Forse come riflesso di questi processi [selettivi, n. d. t.] il quoziente di intelligenza dei neozelandesi bianchi è leggermente superiore  rispetto alla media dei bianchi. Due ampi studi condotti nel 1989 e nel 1997 hanno rilevato che il quoziente intellettivo dei neozelandesi bianchi è rispettivamente 101 e 102191.

Secondo Fischer, la differenza fondamentale tra gli Stati Uniti e la Nuova Zelanda risiede nel fatto che i coloni americani vennero trattati in modo orribile dai britannici («sei generazioni di coloni americani vennero sfidate dai britannici a combattere per i loro diritti»192). Fischer osserva come il Bill of Rights [Carta dei Diritti, n. d. t.] sia un elenco di lagnanze specifiche relative a ciò che gli inglesi avevano fatto ai coloni amenicani dal 1760 al 1775. Inoltre il modello economico delle colonie americane era concepito per beneficiare l’Inghilterra piuttosto che le colonie. Tutto ciò ebbe come conseguenza una potente ideologia della libertà.

Sull’altro versante, la Nuova Zelanda sperimentò l’impero britannico “più gentile e più mite” della metà del XIX secolo e oltre. Questo “secondo impero”, così come si sviluppò in Nuova Zelanda, fu «basato su elevati principi e fu profondamente cristiano, con un senso di equità e di giustizia complesso ed evoluto […] Le loro azioni [dei britannici, n. d. t.] spesso non furono all’altezza dei loro ideali. Ma nelle loro vite fu presente un’impegno costante ed essi piantarono i semi di un sistema etico che continuò a svilupparsi a lungo dopo che se ne furono andati»193.

A differenza di quanto avvenne nelle colonie americane, in Nuova Zelanda i britannici incoraggiarono l’autogoverno e cercarono di proteggere gli indigeni maori. La Nuova Zelanda non aveva schiavi, servitù debitoria o un’economia basata sulle piantagioni; non esisteva un significativo numero di cavalieri impoveriti come quello che diede forma alla cultura del Sud degli Stati Uniti. Nel XIX secolo l’impero britannico abbandonò il mercantilismo, che mirava a beneficiare l’Inghilterra, in favore del libero commercio. Ma la caratteristica più importante dell’impero britannico all’epoca della colonizzazione della Nuova Zelanda, a partire dal 1840 (nell’epoca in cui gli americani stavano conquistando il continente a spese degli indigeni) fu una maggiore enfasi posta sulla giustizia sociale. Amministratori coloniali come il capitano William Hobson («una guida di grande probità […] [che] reclutò persone capaci ed onorevoli per il servizio nelle colonie»194) erano interessati alla giustizia e all’equità, nel tentativo consapevole di affermare una morale universalista. Vediamo dunque affermarsi, in Nuova Zelanda, un forte senso dei “buoni principi”195 e un universalismo morale impegnato. George Augustus Selwyn, che divenne vescovo anglicano della Nuova Zelanda nel 1841, era «un idealista di elevati principi», fautore di un’«aperta versione ecumenica del cristianesimo che, in Nuova Zelanda, si collegò a un’idea di eguaglianza razziale tra i pakeha [i bianchi] e i maori»; Selwyn fu «un accanito difensore dei diritti dei maori»196.

La contemporanea cultura di colpevolizzazione dei bianchi e di idealizzazione dei non-bianchi che si osserva in tutto l’Occidente ha avuto come conseguenza un moralismo a base laica che ignora il cannibalismo dei maori e la loro cultura fondata sullo stato di guerra intraetnico. I campus universitari sono diventati ricettacoli di atteggiamenti positivi nei confronti dei maori. Un ufficiale militare si riferisce con accenti di sdegno alla contemporanea «maorilatria» accademica197.

D’altro canto, gli stessi maori si sono resi conto del fatto che la loro cultura lasciava alquanto a desiderare. Un capo [maori, n. d. t.] del XIX secolo si domandava: «Cosa facevamo prima che arrivassero i pakeha? Combattevamo, combattevamo in continuazione». In definitiva, un gran numero di maori vide senz’altro l’arrivo dei coloni bianchi in termini positivi.

Questa mentalità etica e questo impegno per l’equità si possono osservare in una tradizione di tendenza socialista che è assai più forte in Nuova Zelanda che in America. Ad esempio, «dopo il 1891 la Nuova Zelanda diede inizio a un duraturo programma di ridistribuzione delle sue terre»198, non mediante la confisca delle grandi proprietà terriere, ma tramite acquisti da parte del governo quando quelle terre venivano messe sul mercato. Fischer documenta, in Nuova Zelanda, una più forte  preoccupazione di estendere l’equità a tutti i cittadini, non senza sforzi beninteso, ma con un successo maggiore rispetto agli Stati Uniti. «In generale, la Nuova Zelanda conobbe una presenza decisamente scarsa di quel conservatorismo rigido e di estrema destra e che era invece più forte in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e nel Canada […] [Anche gli elementi più conservatori] diedero il loro appoggio al voto femminile e ad altre misure progressiste»199.

La propensione al socialismo della Nuova Zelanda può essere osservata nella sua risposta alla Grande

Depressione. Mentre la filosofia del New Deal di Franklin Roosevelt viene descritta come «aiutare le persone ad aiutare se stesse»200, la Nuova Zelanda istituì versamenti di denaro diretti per le persone che avevano sofferto il collasso economico. Queste politiche erano dirette a «far lavorare la gente e intendevano altresì stabilire un principio di imparzialità, equità e giustizia sociale»201. Nel corso degli anni 1930 si ebbe un grande incremento della proprietà pubblica delle banche, delle acciaierie, delle miniere di carbone e delle linee aeree, così che nel 1939 il 25% dei lavoratori della Nuova Zelanda lavorava per il governo; negli Stati Uniti quella quota era dell’8%. Comunque, non vennero fatti tentativi di ottenere un’eguaglianza delle classi (Fischer descrive la Svezia come molto più radicale della Nuova Zelanda, cfr. il capitolo 8). Piuttosto, l’obiettivo fu quello di «sostenere un ideale di autonomia e di crescita individuali»202.

Negli Stati Uniti, d’altro canto, Roosevelt si oppose all’elemosina ai poveri: «Il governo federale deve abbandonare questa faccenda del soccorso, e lo farà […] Non ho intenzione di far sì che la vitalità del nostro popolo sia ulteriormente fiaccata dall’elargizione di denaro […] Non dobbiamo salvare dall’indigenza soltanto i corpi dei disoccupati, ma anche il rispetto che essi anno di sé e la loro autonomia»203. Il sistema previdenziale americano è l’unico programma di assistenza agli anziani i cui fondi provengano dagli stipendi effettivi dei lavoratori. La Nuova Zelanda creò nel 1938 un sistema sanitario nazionale che è un misto di sussidi pubblici e versamenti privati. Come negli Stati Uniti, vi fu un’opposizione da parte di gruppi di medici, ma fu possibile raggiungere un compromesso. Non è stato così negli Stati Uniti (a parte il programma Medicare per gli anziani) fino alla recente approvazione, estremamente controversa, dell’Affordable Care Act del presidente Obama.

Un’altra indicazione delle tendenze di sinistra della politica neozelandese è rappresentata dall’attivismo antinucleare. Negli anni 1980 e 1990 la Nuova Zelanda adottò unilateralmente politiche di opposizione agli armamenti nucleari, con grande umiliazione dei governi Reagan e Tatcher. Negli anni 1990 si unirono  anche i conservatori, e una nave militare fu inviata sul sito dei test nucleari francesi. Ma la Nuova Zelanda finì per cedere e per orientarsi verso la sicurezza collettiva, rendendosi conto che un piccolo paese non può fare da solo. L’amministrazione Clinton imparò a convivere con la politica antinucleare neozelandese. Fischer interpreta ciò come un esempio del suo «persistente attaccamento alle idee di giustizia, equità e correttezza nel mondo»204.

D’altro canto, la nozione di libertà individuale è relativamente debole in Nuova Zelanda. Nel 1990 fu finalmente adottata una Carta dei Diritti, ma a differenza di quella degli Stati Uniti essa incorporava i “diritti umani” (inclusa la “giustizia naturale” e affermazioni esplicite di equità procedurale e istituzionale) piuttosto che, come in America, diritti contro il potere dello stato che tanto stavano a cuore ai Padri Fondatori degli Stati Uniti. La maggior parte dei neozelandesi ha una scarsa consapevolezza della propria Carta dei Diritti, mentre negli Stati Uniti tale documento ha una grande rilevanza psicologica per la maggioranza degli americani.

 

La libertà di parola negli Stati Uniti e in Nuova Zelanda.

Nell’Occidente contemporaneo gli Stati Uniti sono l’unico paese che, grazie al Primo Emendamento, protegge la libertà di parola. Comunque, soltanto una risicata maggioranza parlamentare è impegnata a respingere le leggi sull’incitamento verbale all’odio [hate speech] che porrebbero dei limiti a quanto è possibile dire pubblicamente in materia di razza, etnicità e orientamento sessuale, e vi sono forti voci, provenienti dalla comunità giuridica e dagli attivisti, che reclamano restrizioni alla libertà di parola.

La legge neozelandese protegge la libertà di parola, ma negli ultimi anni la legislazione ha cercato di porre dei limiti alla discussione relativa all’immigrazione, alla razza, all’etnicità. Una legge del 1993 stabilisce che è «illegale per chiunque pubblicare o distribuire parole minacciose, violente o offensive che possano eccitare l’ostilità o indurre il disprezzo verso qualsiasi gruppo di persone che possa giungere in Nuova Zelanda a motivo del colore della pelle, della razza o delle origini etniche di quel gruppo di persone»205. Un’opera di convincimento potrebbe comportare un processo civile, ma diviene un fatto penale con la possibilità di condanna al carcere qualora si dimostri che essa ha scopo deliberato di provocare «rancore e ostilità verso le persone prese di mira».

Stante questa differenza circa i concetti di equità e libertà tra Stati Uniti e Nuova Zelanda, forse non è un caso che Jeremy Waldron, un noto sostenitore delle limitazioni alla libertà di parola, sia nato in Nuova Zelanda e sia ora docente di diritto alla New York University e professore associato presso la Victoria University della Nuova Zelanda. Waldron afferma che la libertà di parola, nelle società contemporanee, è  sostanzialmente in conflitto con l’equità e pertanto propugna la soppressione delle garanzie previste dal Primo Emendamento negli Stati Uniti206. Waldron si concentra unicamente sui sentimenti feriti di coloro che sono l’obiettivo di certi discorsi, sostenendo che certi tipi di discorso venati di razzismo incidono negativamente sulla possibilità delle minoranze razziali e sessuali di vivere una vita dignitosa. Waldron metterebbe al bando affermazioni relative a certe caratteristiche dei gruppi umani che io considero solidamente fondate sui dati empirici. Waldron sostiene che ogni deviazione dall’ortodossia progressista (come ad esempio l’idea che tutte le razze possiedano gli stessi talenti e le stesse capacità naturali e che il multiculturalismo apporti benefici a tutti) siano false in maniera così ovvia da poter essere facilmente messe al bando senza alcun danno per il legittimo dibattito. Waldron afferma che «in effetti il dibattito fondamentale sulla razza è terminato, vinto, concluso». Quello della razza «non è più un tema attuale». Queste frasi suonano più come il pronunciamento di un Grande Inquisitore che come le parole di qualcuno che sia interessato alla verità riguardo alle differenze umane.

In effetti il dibattito sulla razza non è concluso, sebbene il mondo accademico possa essere adeguatamente definito come una comunità morale di sinistra nel senso dato all’espressione da  Jonathan Haidt207: una comunità morale che esercita un rigoroso controllo sulla ricerca che entra in conflitto con i dogmi dell’egualitarismo razziale.  Ricercatori come Arthur Jensen, Richard Lynn e Philippe Rushton, che hanno cercato di pubblicare i loro risultati sulle differenze razziali, si sono ritrovati socialmente isolati e hanno presto dovuto accorgersi che per loro esistono ostacoli alla pubblicazione sulle riviste accademiche più diffuse e che non c’è alcuna sovvenzione ufficiale per le loro ricerche.

Le ricerche sulle differenze razziali sono rilevanti ai fini dell’equità perché, secondo il mio parere e quello di molti altri, la politica delle azioni positive [affirmative actions], che introduce discriminazioni contro i bianchi, è intrinsecamente iniqua verso questi ultimi, limitando le opportunità di carriera di individui che non possono essere incolpati degli insuccessi degli altri gruppi. Prova ne sia che i sostenitori di tale politica non prendono in considerazione le reali differenze di capacità tra le razze e, senza alcuna prova, attribuiscono il successo dei bianchi al nebuloso concetto di “privilegio bianco”, malgrado il fatto che alcuni gruppi nonbianchi (p. es. i cinesi) forniscano in media prestazioni in ambito accademico migliori di quelle dei bianchi e abbiano occupazioni e redditi che li pongono al disopra della media dei bianchi. Da questo punto di vista, bandire la libertà di parola sul tema della razza in nome dell’equità verso questi gruppi significa non considerare l’iniquità nei confronti dei membri della maggioranza bianca.

L’appello di Waldron affinchè venga limitata la libertà di parole in nome dell’equità rafforza la tesi di Fischer, dato che Waldron è neozelandese e attribuisce a ciò che egli considera come equità un valore assai maggiore di quello della libertà individuale. Ma ciò evidenzia anche il problema dell’esistenza, almeno in certi casi, di un conflitto molto concreto tra equità e libertà che persiste nel mondo contemporaneo. Negli Stati Uniti esiste in effetti una forte tradizione circa la libertà di parola, ma non vi sono ragioni di supporre che essa continuerà in futuro. Ciò appare particolarmente ovvio considerato l’ambiente polarizzato in termini razziali prodottosi a causa della massiccia immigrazione non-bianca e del fatto che i non-bianchi sono clienti della sinistra, che attualmente sta promuovendo attivamente la censura sulle questioni riguardanti la razza e l’immigrazione. E in ogni caso, come è stato osservato in precedenza, bandire i discorsi sulla razza in nome dell’equità è un atteggiamento privo di coerenza interna, considerato come simili discorsi possano generare politiche inique verso i bianchi.

 

La rivoluzione emotiva in Inghilterra: un’ipotesi etnica.

 

Un’ipotesi etnica propone che il secolo XVIII abbia visto l’emergere di un ethos egualitario che rifletteva il passato evolutivo di importanti segmenti della popolazione britannica: l’eredità genetica dei CR primordiali e assai probabilmente una selezione successiva alle incursioni delle antiche popolazioni di derivazione Yamnaya provenienti dalle Steppe Pontiche (prese in esame nei capitoli 1-3). Come si è osservato nel capitolo 3, l’egualitarismo è un tratto notevole dei gruppi di CR di tutto il mondo. Tali gruppi possiedono dei  meccanismi atti ad impedire il dispotismo e a garantire la reciprocità, con forme di punizione che vanno dal danneggiamento fisico all’isolamento sociale e all’ostracismo208. Nel presente capitolo sono state evidenziate le forti tendenze egualitarie che caratterizzarono la rivoluzione emotiva del XVIII secolo, come pure la descrizione fatta da David Fischer delle forti tendenze verso un’etica egualitaria in Nuova Zelanda all’epoca del “secondo impero” del secolo XIX. Come si è detto nel capitolo 3, le società di CR sono comunità morali nelle quali gli individui vengono tenuti sotto attenta osservazione allo scopo di rilevare le loro deviazioni dalle norme sociali; i devianti vengono isolati, ridicolizzati e ostracizzati (un’importante caratteristica, questa, della cultura puritana descritta nel capitolo 6); le decisioni, comprese quelle di sanzionare un individuo, sono prese mediante consenso; i maschi adulti si trattano tra loro come pari.

Queste caratteristiche sono tipiche dei quaccheri e degli altri gruppi di cui si è parlato qui. L’etica dei CR implica che la reputazione morale di una persona divenga l’aspetto più importante del suo status all’interno del gruppo. Gli individui mantengono la loro posizione nella società aderendo alle sue norme morali e non manifestando disaccordo rispetto al consenso del gruppo. Fondamentalmente, il movimento per l’abolizione dello schiavismo agì definendo se stesso come in gruppo morale, psicologicamente analogo alle comunità morali dei gruppi di CR esaminati nel capitolo 3. Coloro che continuarono a sostenere la tratta e lo schiavismo vennero isolati come dei paria morali. Il fondamento morale del gruppo antischiavista era saldamente ancorato ad una sincera risposta empatica alle sofferenze degli schiavi. Queste reazioni naturali alle sofferenze altrui da parte di una significativa percentuale della popolazione stava a indicare che il gruppo morale era molto più di una creazione artificiale o arbitraria; un gruppo arbitrario non sarebbe stato convincente sul piano emotivo. Sotto questo aspetto è interessante il fatto che, come osservato in precedenza, i sostenitori dello schiavismo rendessero regolarmente omaggio all’imperativo morale dell’abolizionismo. Incapaci di creare un gruppo morale plausibile, essi optarono per argomenti basati sulla necessità o sul bene dell’impero.

La logica che collega queste tendenze al modello egualitario-individualista dei CR è quella per cui, come tutti gli esseri umani in un mondo pericoloso e difficile, i CR (o i gruppi risultanti dalla selezione evolutiva nell’Europa nordoccidentale) hanno bisogno di sviluppare gruppi coesi e collaborativi. Ma invece di fondare la coesione del gruppo sulle relazioni di parentela note, i gruppi egualitari-individualisti originari dell’Europa nordoccidentale si sono basati sulla reputazione morale, sulla fiducia e sul consenso interno. Gli egualitariindividualisti hanno creato comunità morali o ideologiche nelle quali coloro che violavano la pubblica fiducia, il consenso interno e altre manifestazioni dell’ordine morale venivano isolati, ostracizzati ed esposti alla pubblica umiliazione: un destino che, nel duro periodo ecologico dell’Età Glaciale, avrebbe significato la morte evolutiva.

Come i puritani, i quaccheri derivano da una particolare subcultura britannica a base etnica che ebbe origine in Scandinavia209. La regione inglese dove i quaccheri erano più diffusi era quella delle North Midlands, colonizzata dagli invasori vichinghi a partire all’incirca dalla fine dell’VIII secolo. Costoro attribuivano valore alla proprietà individuale di case e campi ed erano visti dagli altri come individui indipendenti ed egualitari, che vestivano in maniera simile e che mangiavano insieme. «Le loro case erano scarsamente ammobiliate e la loro cultura considerava la semplicità e il parlare schietto una virtù»210. Erano in generale contadini relativamente poveri, che lavoravano terreni scadenti e pietrosi. Storicamente, furono dominati da un’élite oppressiva e forestiera; consideravano una virtù la semplicità e il duro lavoro in un ambiente ostile211.

 

Le origini etniche e il declino dell’ethos aristocratico in Gran Bretagna.

Infine, se nel XVIII secolo si affermò saldamente un’etica egualitaria, in precedenza la società britannica era stata dominata da minoranze aristocratiche portatrici di valori elitari e gerarchici; tale sistema godeva ancora di un ampio radicamento politico e di conseguenza gli atteggiamenti popolari riguardo allo schiavismo non ebbero come risultato l’adozione di leggi contrarie alla tratta fino al 1807, e allo schiavismo in quanto tale fino al 1833. Il declino di questa struttura sociale cominciò nel XVII secolo con l’ascesa dei puritani; lo scopo di questo capitolo è stato di descrivere l’emergere della coscienza egualitaria e dei gruppi definiti su base morale nel XVIII secolo.

Fischer sostiene che la cultura aristocratica che stava per essere sostituita sembra avere avuto le proprie origini nella subcultura etnica dei sassoni germanici occidentali, che rispecchiava il filone individualista aristocratico dell’influenza culturale europea212. Questo gruppo emigrò nel VI secolo nell’Inghilterra sudoccidentale, dove divenne un’élite che praticava il matrimonio endogamico. A partire dal IX secolo circa, i membri di questa élite possedettero grandi proprietà terriere con servi e villani appartenenti alle classi medio-basse, che erano sostanzialmente degli schiavi. L’élite sassone riprodurrà questa cultura nel Sud degli Stati Uniti: una cultura caratterizzata da «ineguaglianze profonde e pervasive, da modelli di insediamento rurali e dalla coltivazione di prodotti di base, da potenti oligarchie di grandi proprietari terrieri monarchici in politica e di fede anglicana»213. Le relazioni erano relativamente egualitarie all’interno dell’élite (individualismo aristocratico) ma la società nel suo insieme era fortemente gerarchica.

Le differenze tra l’Inghilterra meridionale e le Midland industrializzate continuarono a sussistere fino al XIX secolo inoltrato, con l’«Inghilterra tory» del sud dedita all’agricoltura e quella del sudovest e delle Midland «non conformista [in materia religiosa, n. d. t.] e di solito progressista», caratterizzata da «una situazione economica più diversificata e competitiva, da un’occupazione in settori diversi da quello agricolo, dall’immigrazione (proveniente specialmente dalla “periferia celtica”) da una rapida crescita della popolazione e dall’urbanizzazione»214.

Se l’analisi di Fischer ritrae in maniera convincente la cultura aristocratica avente il suo centro nell’Inghilterra sudoccidentale, questa cultura può altresì essere stata influenzata dagli invasori normanni dell’XI secolo, dato che «la conquista annientò la classe dirigente inglese, fisicamente e geneticamente. Circa 4000-5000 thegn214a furono eliminati nelle battaglie, con l’esilio o mediante l’espropriazione, nel corso del più grande trasferimento di proprietà della storia inglese […] L’ultimo conte inglese, Watheof, fu decapitato nel 1076 […]. La classe dirigente preesistente venne di fatto digerita»215.

Ciò nondimeno i normanni, sebbene originari della Scandinavia, istituirono chiaramente nei loro nuovi domini una analoga cultura aristocratica, oppressiva, gerarchica e molto più centralizzata di quella sassone.

«La conquista significò la completa degradazione nazionale»216.

 

Conclusione.

 

Vi è un’evidente continuità tra le comunità morali che emersero nel XVIII e nel XIX secolo e il mondo contemporaneo. La logica dell’universalismo morale basato sull’interessamento empatico è oggi diffusa ovunque e utilizzata per razionalizzare qualunque cosa, dalle guerre di liberazione contro dittatori tirannici in terre lontane ai tentativi di lenire le sofferenze degli immigrati impoveriti del Terzo Mondo o degli animali. La preoccupazione empatica è il fulcro della politica per l’immigrazione e i rifugiati politici, per le relazioni etniche, la povertà e quant’altro.

Per quanto queste tendenze all’egualitarismo e all’universalismo morale fossero presumibilmente adattive all’interno delle piccole società evolutesi tra gli europei nordoccidentali (quello che gli evoluzionisti chiamano “ambiente di adattività evolutiva”) esse si stanno dimostrando maladattive nel mondo moderno, dove empatia e altruismo possono essere manipolati da potenti élite per servire ai loro interessi materiali.

A questo riguardo merita di essere menzionata una caratteristica particolare del mondo moderno: se il movimento antischiavista che ebbe inizio nel XIX secolo trasse certamente vantaggio dai giornali per la diffusione del suo messaggio, il raggio d’azione e il potere dei mezzi di comunicazione di massa odierni sono di gran lunga superiori. Grazie al potere del processo esplicito, i messaggi dei media porrono essere usati per presentare gli eventi in maniera tale da evocare empatia e perciò razionalizzare azioni che possono essere cinicamente messe al servizio degli interessi di coloro che controllano i grandi gruppi dell’informazione.

Ad esempio, nel periodo precedente la guerra in Iraq cominciata nel 2003, vi furono numerosi servizi e articoli che presentavano Saddam Hussein come un malvagio criminale, che opprimeva il suo popolo, uccideva i curdi con i gas, compiva sanguinose rappresaglie contro gli sciiti e si preparava ad usare armi di distruzione di massa contro gli Stati Uniti. L’empatia suscitata da questa propaganda mediatica che presentava un Iraq sofferente e un’America minacciata può essere stata reale, ma è altamente dubbio che l’empatia fosse l’emozione che guidava i neoconservatori e gli altri lobbisti pro-Israele, che sono stati i maggiori responsabili della propaganda in favore della guerra nei mezzi di informazione, nelle aule del Congresso e nei centri chiave delle istituzioni di sicurezza nazionale217.

La manipolazione della cultura dell’empatia per conseguire obiettivi di potere e denaro è sempre una possibilità concreta. Ma le prove presentate qui riguardano il fatto che il movimento antischiavista, così come si sviluppò nel tardo Settecento, non aveva in generale quei secondi fini, e che i suoi protagonisti diedero mostra di un sincero altruismo motivato dall’empatia (che è influenzata dalle differenze individuali nei tratti della personalità dell’amore / cura) diffondendo pubblicamente immagini raffiguranti le sofferenze degli schiavi, come pure ideologie di universalismo morale.


Note.

 

  • Il materiale sul movimento antischiavista britannico di questo capitolo si basa su Kevin MACDONALD,

The Anti-slavey Movement as an Expression of the Eighteenth-Century Affective Revolution in England: An

Ethnic Hypothesis, in Michael AUSTIN, Kathryn STASIO (eds.), Reasoning Beasts: Evolution, Cognition and Culture in the Long Eighteenth Century, New York, AMS Press, 2013: 2-39; https://www.researchgate.net/publication/312717632.

  • Per esempio, David Sloan WILSON, Lee Alan DUGATKIN, Group Selection and Assortative Interactions, “American Naturalist”, 149, 1997:336-351.
  • Kevin MACDONALD, Effortful Control, Explicit Processing and the Regulation of Human Evolved Predispositions, “Psychological Review”, 115, n. 4, 2008: 1012-1031.
  • Robert BOYD, Peter J. RICHERSON, Punishment Allows the Evolution of Cooperation (od Anything Else) in Sizable Groups, “Ethology and Sociobiology”, 13, 1995: 171-195; Joseph HENRICH, Robert BOYD, Why People Punish Defectors: Weak Conformist Transmission Can Stabilize Costly Enforcement of Norms in Cooperative Dilemmas, “Journal of Theoretical Biology, 208, 2001: 79-89.
  • David Hackett FISCHER, Fairness and Freedom: A History of Two Open Societies, New Zeland and the United States, New York, Oxford University Press, 2012.
  • In Gertrude HIMMELFARB, The Roads to Modernity: The British, French and American Enlightenments, New York, Vintage reprint (ed. orig. 2004): 131; si veda più avanti.
  • Christopher Leslie BROWN, Moral Capital, Chapel Hill, NC, North Carolina Press, 2006:161.
  • Adam HOCHSCHILD, Bury the Chains: Prophets and Rebels in the Fight to Free an Empire’s Slaves, Boston, Mariner Books, 2006: 5; corsivo nell’originale.
  • Seymour DRESCHER, Capitalism and Antislavery: British Mobilization in Comparative Perspective, New York, Oxford University Press, 1987: 2.
  • BROWN, Moral Capital, 450.
  • Ibid., 3-22.
  • Ibid., 16.
  • Robert TOMBS, The English and Their History, London, Penguin Books, 2015 (ed. orig. London, Allen Lane, 2014): 318.

[13a]  N. d. t.: Roundheads e Cavaliers (teste rotonde e cavalieri) furono le due fazioni che si fronteggiarono durante la Guerra Civile Inglese, e cioè rispettivamente i puritani che appoggiavano il parlamento e i sostenitori del re Carlo I.

  • Ibid., 329.

[14a]  N. d. t.: Rotten boroughs erano dette quelle circoscrizioni parlamentari il cui elettorato, a motivo delle sue esigue dimensioni, poteva essere facilmente controllato in vari modi.

  • Ibid., 324.
  • Ibid., 327-328.
  • In Ibid., 329.
  • Gertrude HIMMELFARB, The Roads to Modernity, 134.
  • Ibid., 142.
  • Lawrence STONE, The Family, Sex and Marriage in England: 1500-1800, London, Weidenfeld & Nicholson, 1977.
  • Ibid., 238.
  • HIMMELFARB, The Roads to Modernity, 144.
  • Elie HALÉVY, The Birth od Methodism in England, trad. Bernard Semmel, Chicago, 1971: 37.
  • Ibid., 66.
  • HIMMELFARB, The Roads to Modernity, 146.
  • HOCHSCHILD, Bury the Chains, 146 ss.
  • Ibid., 310.
  • Eric WILLIAMS, Capitalism and Slavery, Chapel Hill, NC, University of North Carolina Press, 1944. [29] BROWN, Moral Capital, 15.
  • Ibid., 24.
  • Ibid., 315.
  • Ibid., 441.
  • Ibid., 438-439.
  • Ricardo DUCHESNE, The Uniqueness of Western Civilization, Leiden, Brill, 2011: 486; virgolette nell’originale; la citazione è tratta dal filosofo David Hume.
  • Ibid., 481.
  • Barbara OAKLEY, Ariel KNAFO, Guruprasad MADHAVAN, David Sloan WILSON (eds.), Pathological Altruism, New York, Oxford University Press, 2012; cfr. cap. 8.
  • Diagnostic and Statistical Manual of the American Psychiatric Association, Washington, DC, American Psychological Association, 2000, 722.
  • Thomas A. WIDIGER, Jennifer Ruth PRESNALL, Pathological Altruism and Personality Disorder, in

Barbara OAKLEY, Ariel KNAFO, Guruprasad MADHAVAN, David Sloan WILSON (eds.), Pathological Altruism, New York, Oxford University Press, 2012: 85-93.

  • Kevin MACDONALD, Evolution, the Five Factor Model, and Levels of Personality, “Journal of Personality”, 63, 1995: 525-567.

[39a] N. d. t.: Traduciamo con amore / cura l’espressione originale love / nurturance. Il termine inglese nurturance rimanda all’affetto protettivo della madre per il figlio, o dei genitori verso i figli. Per la discussione di tale sistema della personalità si veda il cap. 8.

  • Carsten K. W. DE DREU et al., The Neuropeptide Oxytocin Regulates Parochial Altruism in Intergroup Conflict among Humans, Science, 328, n. 5984, 11 giugno 2010: 1408-1411.
  • James RAMSEY, An Essay on the Treatment and Conversion of African Slaves in the British Sugar Colonies, London, James Phillips, 1784: 2-3; https://books.google.it/books?id=Zf9AAAAAcAAJ&pg=PR1&source=gbs_selected_pages&cad=3#v=onep age&q&f=false
  • Thomas CLARKSON, Abolition of the African Slave-Trade by the British Parliament, Vol. 1, Augusta, GA, P. A. Brinsmade, 1830: 24; https://books.google.it/books?id=YHwNAAAAYAAJ&printsec=frontcover#v=onepage&q&f=false [43] MACDONALD, Effortful Control, Explicit Processing and the Regulation of Human Evolved Predispositions.
  • Ibid.
  • Si veda la recensione in Ibid.
  • William A. CUNNINGHAM et al., Separable Neural Components in the Processing of Black and White Faces, “Psychological Science”, 15, 2004: 806-813.
  • Alan G. SANFEY, Reid HASTIE, Mark K. COLVIN, Jordan GRAFMAN, Phineas Gauged: Decisionmaking and the Human Prefrontal Cortex, “Neuropsychologia”, 41, 2004: 1218-1229.
  • Joshua D. GREENE et al., Pushing Moral Buttons: The Interaction between Personal Force and Intention in Moral Judgment, “Cognition”, 111, n. 3. 2009: 364-371.
  • Kevin MACDONALD, Evolution and a Dual Processing Theory of Culture: Applications to Moral Idealism and Political Philosophy, “Politics and Culture”, Issue # 1, aprile 2010, seza numeri di pagina.
  • BROWN, Moral Capital, 398.
  • Ibid., 441.
  • MACDONALD, Effortful Control, Explicit Processing and the Regulation of Human Evolved Predispositions.
  • John GERRING, Ideology: A Definitional Analysis, “Political Research Quarterly”, 50, 1997: 957-994;

Kathleen KNIGHT, Transformations of the Concept of Ideology in the Twentieth Century, “American Political Science Review, 100, 2006: 619-625.

  • Kevin MACDONALD, Evolution, Psychology and a Conflict Theory of Culture, “Evolutionary Psychology”, 7, n. 2, 2009: 208-233.
  • HIMMELFARB, The Roads to Modernity, 19.
  • Ibid., 31.
  • Ibid., 51.
  • Ibid., 131.
  • Mary Gwladys JONES, The Charity School Movement: A Study of Eighteenth Century Puritanism in Action, Cambridge, Cambridge University Press, 1938.
  • BROWN, Moral Capital, 430.
  • David HUME, An Enquiry Concerning the Principles of Morals, 1739-1740, libro III, p.te 3, sez. 6.
  • Ibid., sez. I, p.te. 3.
  • David HUME, A Treatise of Human Nature, 1739, lib. III, p.te 3, sez. 1.
  • David HUME, An Enquiry Concerning the Principles of Morals, sez. IX, p.te. 1.
  • Ibid., sez. V, p.te. 2.
  • Adam SMITH, A Theory of Moral Sentiments, 1759, p.te I, sez. 1, cap. 1.
  • MACDONALD, Effortful Control, Explicit Processing and the Regulation of Human Evolved Predispositions.
  • SMITH, A Theory of Moral Sentiments, p.te I, sez. 1, cap. 5.
  • Ibid., p.te I, cap. 2.
  • BROWN, Moral Capital, 380.
  • In Ibid., 115.
  • Ibid., 48.
  • Ibid., 98.
  • HIMMELFARB, The Roads to Modernity, 234 [75] HOCHSCHILD, Bury the Chains, 366.

[75a] N. d. t.: in realtà a Cambridge.

  • In Ibid., 88.
  • In Ibid., 91.
  • In Ibid., 313.
  • Ibid., 128.
  • Ibid., 190.
  • In Ibid., 366.
  • In Ibid., 366.
  • BROWN, Moral Capital, 23.
  • In HOCHSCHILD, Bury the Chains, 128-229.
  • In Ibid., 133.
  • Ibid., 307.
  • BROWN, Moral Capital, 37-38; corsivo nell’originale.
  • Ibid., 49.
  • Ibid., 106-153.
  • Ibid., 437.
  • HOCHSCHILD, Bury the Chains, 45.
  • In BROWN, Moral Capital, 170. 181.
  • In Ibid., 175; corsivo nell’originale.
  • In Ibid., 199.
  • Ibid., 179-180.
  • Ibid., 441.
  • HOCHSCHILD, Bury the Chains, 91.
  • BROWN, Moral Capital, 78.
  • Ibid., 405.
  • Ibid., 391.
  • Ibid., 426.
  • Ibid., 430. [103] Ibid., 428.
  • Maurice JACKSON, Let This Voice Be Heard: Amthony Benezet, Father of Atlantic Abolitionism, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2010.
  • BROWN, Moral Capital, 401.
  • HOCHSCHILD, Bury the Chains, 78.
  • BROWN, Moral Capital, 424.
  • Ibid., 424.
  • Ibid., 429.
  • HOCHSCHILD, Bury the Chains, 327.
  • Ibid., 77.
  • BROWN, Moral Capital, 397.
  • Ibid., 425.
  • HOCHSCHILD, Bury the Chains, 108.
  • Ibid., 127.
  • Brooke PALMIERI, The Wild, the Innocent and the Quaker’s Struggles, “The Appendix”, 21 agosto 2014; http://theappendix.net/issues/2014/7/the-wild-the-innocnet-and-the-quakers-struggles.
  • TOMBS, The English and Their History, 460.
  • BROWN, Moral Capital, 88-89.
  • Thomas P. SLAUGHTER, The Beautiful Soul of John Woolman, Apostle of Abolition, New York, Hill and Wang, 2008.
  • Ibid., 341.
  • Ibid., 349.
  • Ibid., 349.
  • Ibid., 66.
  • James RAMSEY, An Essay on the Treatment and Conversion of African Slaves in the British Sugar Colonies, xvii.
  • BROWN, Moral Capital, 366.
  • In Ibid., 369.
  • RAMSEY, An Essay on the Treatment and Conversion of African Slaves in the British Sugar Colonies,

67.

  • Ibid., 70.
  • Ibid., 74-75.
  • Ibid., 3.
  • Ibid., 4.
  • BROWN, Moral Capital, 442.
  • Ibid., 352.
  • Ibid., 357.
  • Ibid., 387.
  • Ibid.
  • Ibid., 388.
  • TOMBS, The English and Their History, 459-460.
  • HIMMELFARB, The Roads to Modernity, 120.
  • Ibid., 123.
  • In Ibid., 129.
  • BROWN, Moral Capital, 210.
  • Ibid., 339.
  • John WESLEY, Thoughts upon Slavery, Dublin, W. Whitestone, 1775 (ed. orig. 1774): 13-14; https://books.google.it/books?id=iTdcAAAAQAAJ&printsec=frontcover&source=gbs_ge_summary_r&cad =0#v=onepage&q&f=false.
  • John Wesley, citato in JONES, The Charity School Movement, 141.
  • JONES, The Charity School Movement, 141.
  • HIMMELFARB, The Roads to Modernity, 139.
  • Ibid., 127-128.
  • Ibid., 128.
  • Ibid., 129.
  • Ibid., 130.
  • JONES, The Charity School Movement.
  • Ibid., 3.
  • Ibid.
  • Ibid., 7.
  • Ibid., 8.
  • Ibid., 10.
  • Andrew JOYCE, The 1865 Morant Bay Rebellion: Race and White Pathology at the Height of the British Empire, “The Occidental Quarterly”, 13. n. 2, estate 2013: 15-38.
  • Voce Jamaica in http://www.everyculture.com/Ja-Ma/Jamaica.html; Wikipedia, voce Indo Jamaicans, https://en.wikipedia.org/wiki/Indo-Jamaicans#Impact_on_Jamaican_culture_and_economy.
  • Chinese Shun Jamaica: Asian People Say Crime, Racism Make Them Feel Left Out in Society,

“Jamaica Observer”, 5 novembre 2016,  http://www.jamaicaobserver.com/news/Chinese-shun-Jamaica_78653. [161] Voce Jamaica in http://www.everyculture.com/Ja-Ma/Jamaica.html.

  • Si veda, ad esempio, J. Philippe RUSHTON, Race, Evolution and Behavior, London, Ontario, Charles Darwin Research Institute, 2000 (ed. orig. New Brunswick, NJ, Transaction, 1994).
  • JOYCE, The 1865 Morant Bay Rebellion, 16.
  • Ibid., 17-18.
  • Life, Letters and Speeches of Charles Dickens, Vol. 2: Letters of Charles Dickens, New York, Houghton Mifflin, 1894: 220.

[165a] N. d. t.: jawbones of asses: mascelle d’asino; riferimento biblico alla vicenda di Sansone, usato probabilmente per indicare dei militanti religiosi fanatici.

[165b] N. d. t.: Camberwell: quartiere di Londra dove sono vissuti diversi artisti e scrittori e che rappresenta uno dei centri della cultura londinese.

  • Ibid., 220, 220-221.
  • Lawrence JAMES, The Rise and Fall of The British Empire, London, Abacus, 2014: 185; citato in JOYCE, The 1865 Morant Bay Rebellion, 18.
  • JOYCE, The 1865 Morant Bay Rebellion, 19.
  • A FELLOW OF THE ROYAL GEOGRAPHICAL SOCIETY, Jamaica and Its Governor During the Last Six Years, London, Stanford, 1871.
  • Ibid., 4.
  • JOYCE, The 1865 Morant Bay Rebellion, 23-24.
  • Jamaica in 1895: A Handbook of Information for Intending Settlers and Others, London, Institute of Jamaica, London School of Economics Selected Pamphlets, 1895.
  • Louis CHAMEROVZOW, The Reign of Terror in Jamaica, London, William Nichols, 1866: 3.
  • Louis CHAMEROVZOW, The Continued Massacres in Jamaica, London, editore ignoto,1865: 11.
  • Blue Books on Jamaica, Bristol, University of Bristol, Bristol Selected Pamphlets, 1866: 36.
  • Ibid., 37.
  • Ibid.
  • Il passo evidenziato è tratto da JOYCE, The 1865 Morant Bay Rebellion, 30-31.
  • Kevin MACDONALD, The Culture of Critique: An Evolutionary Analysis of Jewish Involvement in

Twentieth-Century Intellectual and Political Movements, Bloomington, IN, AuthorHouse, 2002 (ed. origin.: Westport, CT, Praeger, 1998).

  • David Hackett FISCHER, Albion’s Seed: Four British Folkways in America, New York, Oxford University Press, 1989.
  • FISCHER, Fairness and Freedom.
  • Ibid., 14.

[182a] N. d. t.: Con l’espressione “leggi di Jante” (dal nome di un personaggio di un romanzo di Aksel Sandemose) si designa un modello comportamentale diffuso nella cultura scandinava che tende a criticare o ridimensionare il successo individuale in favore del ruolo della collettività. Si veda anche il capitolo 8 alla sezione intitolata L’estremismo della cultura scandinava, ecc..

  • Ibid., 386.
  • Ibid., 486-487.
  • Ibid., 487.

[185a] N. d. t.: fairness, che qui traduciamo con equità, rende anche il senso di correttezza, onestà, imparzialità, ecc. Si veda anche il capitolo 1 al paragrafo intitolato Selezione dell’abilità cognitiva generale e dei tratti fisici e alla nota 27a.

  • In base a contatti con persone di madrelingua svedese, è evidente che anche lo svedese possiede parole che rendono il senso di fair e fairness, rispettivamente: rättvis e rättvisa. Ciò non sorprende, vista la vicinanza delle lingue e delle culture scandinave.

[186a] N. d. t.: Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te.

  • Ibid., 16-17.
  • Ibid., 27.
  • Ibid., 57.
  • Ibid., 60.
  • Richard LYNN, Tatu VANHANEN, IQ and Global Inequality, Augusta, GA, Washington Summit Press, 2006.
  • FISCHER, Fairness and Freedom, 76.
  • Ibid., 93.
  • Ibid., 84.
  • Ibid., 87.
  • Ibid.
  • Ibid., 96.
  • Ibid., 106.
  • Ibid., 324.
  • Ibid., 507.
  • Ibid., 398.
  • Ibid., 400.
  • Ibid., 401. [204] Ibid., 367.
  • Tracy CORMACK, Freedom of Speech vs Hate Speech, New Zelan Law Society, 4 aprile 2019; https://www.lawsociety.org.nz/practice-resources/practice-areas/human-rights/freedom-of-speech-vs-hatespeech.
  • Jeremy WALDRON, The Harm in Hate Speech, Cambridge, Harvard University Press, 2012.
  • Jonathan HAIDT, Post-partisan Social Psychology; presentazione agli incontri della Society for Personality and Social Psychology, San Antonio, TX, 27 gennaio 2011; http://people.virginia.edu/~jdh6n/postpartisan.html.
  • Christopher H. BOEHM, Hierarchy in the Forest: The Evolution of Egalitarian Behavior, Cambridge, Harvard University Press, 1999.
  • Hugh BARBOUR, The Quakers in Puritan England, New Haven, Yale University Press, 1964; FISCHER, Albion’s Seed.
  • FISCHER, Albion’s Seed, 448.
  • Ibid.
  • Ibid.
  • Ibid., 246.
  • TOMBS, The English and Their History, 462.

[214a] N. d. t.: thegn: l’antica classe dei funzionari di corte anglosassoni.

  • Ibid., 44-45.
  • Ibid., 44.
  • Kevin MACDONALD, Neoconservatism as a Jewish Movement, “The Occidental Quarterly”, 4, n. 2, 2004: 7-74; John MEARSHEIMER, Stephen WALT, The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy, New York, Farrar, Straus and Giroux, 2008.

INDIVIDUALISMO E TRADIZIONE PROGRESSISTA OCCIDENTALE: Capitolo 8, LA PSICOLOGIA DELLE COMUNITÀ MORALI

INDIVIDUALISMO E
TRADIZIONE PROGRESSISTA OCCIDENTALE.
Origini evolutive, storia e prospettive future.
traduzione italiana di Marco Marchett

LA PSICOLOGIA DELLE COMUNITÀ MORALI.

 

 

La razionalità umana consiste in gran parte nel separare l’argomentazione intellettuale dalle attribuzioni personali di carattere morale. La difficoltà che abbiamo nel fare questa separazione suggerisce che le ideologie politiche, religiose e pseudoscientifiche sono state parte dell’ostentazione moralista per un periodo di tempo molto lungo.

Geoffrey Miller, The Mating Mind 1.

 

Questo libro ha posto l’accento sul fatto che la vena progressista della cultura occidentale deriva in ultima analisi dall’individualismo europeo, che a sua volta può essere fatto risalire alle più antiche origini delle popolazioni europee. Come si è osservato in più luoghi, un aspetto fondamentale dell’individualismo è che la coesione del gruppo non si basa sulla parentela, bensì sulla reputazione; e soprattutto negli ultimi secoli, su una reputazione morale di persona capace, onesta, affidabile ed equa. La reputazione di condottiero militare rivestiva un’importanza centrale per le società guerriere IE, dove la fama dei capi era un fattore critico per  poter raccogliere seguaci (capitolo 2). I gruppi di CR settentrionali esaminati nel capitolo 3 svilupparono costumi egualitari ed esogamici e un elevato livello di complessità sociale in cui l’interazione tra individui non imparentati tra loro e con gli stranieri era la norma; anche qui, la reputazione era un fattore critico per poter rimanere nel gruppo.

Le comunità morali occidentali basate sulla reputazione hanno pertanto profonde radici storiche sia nella cultura IE che in quella dei CR. Nel capitolo 5 ho osservato come l’Europa cristiana sia divenuta una comunità morale fondata sulle credenze religiose cristiane piuttosto che sulle identità nazionali o etniche. Inoltre, gli abati e i prelati della Chiesa medievale, i capi religiosi puritani e quaccheri del XVII e del XVIII secolo e gli intellettuali progressisti del XIX secolo presi in esame nei capitoli successivi furono portatori dell’antichissima tendenza a creare comunità morali come fonti di identità. Per finire, come si vedrà più avanti e nel capitolo 9, queste comunità morali sono arrivate a definire la cultura occidentale contemporanea. Esse sono prodotti autoctoni della cultura dell’Occidente, allo stesso modo in cui i clan basati sulla parentela, il matrimonio tra cugini, la segregazione delle donne e gli harem delle élite maschili sono il prodotto dei popoli del Medio Oriente.

La mia idea è che le comunità morali che si osservano alle origini della storia occidentale e che riaffiorano in maniera ricorrente nei secoli successivi si colleghino ad una tendenza preesistente tra gli individualisti a creare simili comunità come forza di coesione che non dipende dalle relazioni di parentela. Particolarmente importanti, fin dal XVII secolo, sono state le comunità morali egualitarie basate sull’etica dei CR le cui origini evolutive sono state discusse nel capitolo 3. A cominciare dal secondo dopoguerra e con una grande accelerazione dagli anni 1960 i poi, queste comunità morali sono state definite dalla sinistra intellettuale, incline ad espropriare i popoli di origine europea dei territori che essi hanno dominato per centinaia o, come nel caso dell’Europa, migliaia di anni.

Le comunità morali pervadono tutte le strutture istituzionali dell’Occidente; tuttavia, a causa della loro vasta influenza, esse rivestono un ruolo particolarmente notevole nel mondo dell’informazione e in quello accademico. Per esempio, se nel periodo precedente la Seconda Guerra Mondiale le scienze sociali maggioritarie erano state relativamente libere da un pensiero basato sulla dialettica morale tra il gruppo e il mondo esterno,  negli ultimi decenni questo tipo di pensiero ha avuto effetti drammatici sulle scienze sociali e umane, al punto che i dipartimenti universitari e le associazioni accademiche di questi settori possono essere adeguatamente definite come «comunità morali tribali» nel senso dato a questa espressione da Jonathan Haidt2. Questo fatto è quanto mai evidente in settori quali la psicologia sociale, la sociologia, l’etnologia e i gender studies.

Il risultato è che le comunità dei ricercatori accademici e i media esercitano un rigoroso controllo sulle ricerche e sulla manifestazione di opinioni che siano in contrasto con l’egualitarismo razziale o promuovano gli interessi delle popolazioni di derivazione europea; tali comportamenti sono stati interiorizzati da un gran numero di bianchi. Ricercatori quali Arthur Jensen, Richard Lynn, J. Philippe Rushton e Ralph Scott, che hanno cercato di pubblicare le loro scoperte sulle differenze tra le razze o sulle politiche pubbliche in materia razziale, si sono ritrovati socialmente ostracizzati e hanno presto dovuto accorgersi che per loro esistono ostacoli alla pubblicazione sulle riviste accademiche più diffuse e che non c’è alcuna sovvenzione ufficiale per le loro ricerche.

Ad esempio, quando degli articoli specialistici che contravvengono ai sacri valori della tribù vengono presentati alle riviste accademiche, i recensori e gli editori diventano all’improvviso estremamente “rigorosi”, esigendo maggiori verifiche sperimentali e altre modifiche metodologiche. Tale “scetticismo scientifico” che riguarda la ricerca sgradita per ragioni più recondite ha costituito il tema del libro La cultura della critica nell’esame delle opere di Franz Boas, Richard F. Lewontin, Stephen Jay Gould e della Scuola di Francoforte, per nominarne soltanto alcuni3.

Un risultato di questo regno del terrore accademico è stato che le persone di idee conservatrici spesso scelgono di occuparsi di altri settori che non sono così compromessi, come ad esempio le scienze fisicomatematiche e l’informatica; esiste inoltre una discriminazione attiva nei confronti di chi cerca lavoro o dei candidati al titolo di Ph. D. [dottorato di ricerca, n. d. t.] quando costoro abbiano un orientamento conservatore4. Il sistema dunque si autoriproduce.

 

I processi dell’identità sociale come adattamento alle comunità morali.

 

In alcuni lavori precedenti ho sostenuto la tesi di una base evolutiva dei processi dell’identità sociale5. Le persone sono inclini a creare gruppi valutati positivamente, rispetto ai quali il mondo esterno è valutato negativamente; è questa una caratteristica umana universale. Il gruppo esterno valutato negativamente non dev’essere necessariamente definito mediante legami di parentela: categorie culturali come “quelli a cui piace l’arte moderna” e “quelli che detestano l’arte moderna”, oppure le uniformi di diverso colore (ad esempio negli eventi sportivi) sono in grado di produrre atteggiamenti positivi verso i membri del gruppo di appartenenza e negativi verso gli estranei. Dato che i processi dell’identità sociale non sono necessariamente determinati dalla parentela, le popolazioni occidentali sono particolarmente inclini a processi del genere.

Willam Graham Sumner era un antropologo darwinista il cui lavoro è stato menzionato nel capitolo 6 come tipico dell’élite intellettuale che tra il tardo XIX e il primo XX secolo alimentò il movimento di difesa etnica che portò alla legge del 1924 sulle restrizioni all’immigrazione. Egli espresse il nucleo essenziale dei processi dell’identità sociale, così come si manifestano nelle società tribali, nel modo seguente:

 

Lealtà verso il gruppo, sacrificio per esso, odio e disprezzo per gli estranei, fratellanza interna, bellicosità verso l’esterno: tutte queste cose crescono insieme, come prodotti comuni della medesima situazione. Essa viene santificata dal legame con la religione. I membri degli altri gruppi sono estranei, con i cui antenati gli antenati del gruppo fecero guerra […] Ciascun gruppo alimenta il proprio orgoglio e la propria vanità, vanta la propria superiorità, esalta le proprie divinità e guarda con disprezzo gli estranei. Ciascun gruppo pensa che le proprie tradizioni siano le uniche giuste, e se ne osserva altre in altri gruppi, queste suscitano il suo sdegno6.

 

L’unica differenza rispetto alla ricerca contemporanea sta nel fatto che i riferimenti agli antenati del gruppo di appartenenza non sono necessariamente applicabili. La citazione da Sumner, pertanto, non andrebbe applicata all’Occidente, dove gli importanti gruppi storici che sono stati qui esaminati non si basano sulla discendenza, ma sull’appartenenza ad una comunità morale.

Le ricerche sull’identità sociale condotte nelle società occidentali mostrano come l’ascendenza del gruppo di appartenenza e dei gruppi estranei non rivestano importanza affinchè le persone nutrano atteggiamenti positivi verso il proprio gruppo e negativi verso i gruppi estranei7. All’interno del gruppo esistono elevati livelli di coesione, una considerazione emotiva positiva e un senso di cameratismo, mentre le relazioni con l’esterno possono essere ostili e sospettose. La tendenza degli esseri umani a collocarsi all’interno di categorie sociali ha spesso forti conseguenze emotive, come il senso di colpa per aver violato le norme del gruppo, l’empatia verso i suoi membri, l’odio e la discriminazione nei confronti degli estranei ed un’accresciuta autostima dovuta al fatto che gli appartenenti ad un gruppo si considerano superiori. Per le comunità morali ciò implica che i membri del gruppo si considerino superiori sul piano morale e agenti in base a motivazioni puramente etiche, e che al contempo considerino gli estranei come soggetti malvagi, moralmente depravati, privi di ogni umana decenza, ecc.

A dimostrare la scarsa importanza della parentela nella creazione dei conflitti tra gruppi, i favoritismi interni al gruppo e le discriminazioni verso gli estranei si verificano anche nei cosiddetti “esperimenti di gruppo minimali”, vale a dire esperimenti nei quali vengono creati dei gruppi utilizzando etichette casuali per definire i membri e gli estranei. I favoritismi interni e le discriminazioni verso gli estranei si verificano pertanto anche quando non ci sono conflitti di interesse tra gruppi o addirittura in assenza di qualunque interazione sociale. Anche quando i soggetti dell’esperimento sono consapevoli del fatto che i gruppi sono composti a caso, essi cercano di massimizzare le differenze tra il loro gruppo e quello estraneo e ciò anche se una strategia del genere comporta che la ricompensa per il proprio gruppo non sia la maggiore possibile. Lo scopo più importante sembra essere quello di superare l’altro gruppo. Questi studi attestano il potere del “senso del gruppo” sulla mente umana, la tendenza dei gruppi, sia pure costituiti nella maniera più casuale, a suscitare discriminazione verso i gruppi estranei.

Il mio esame della letteratura porta alla conclusione che i processi dell’identità sociale sono un adattamento psicologico (ossia sono un risultato evolutivo della selezione naturale) concepito per situazioni di competizione tra due gruppi8. Ad esempio, i processi dell’identità sociale sono stati osservati in un’ampia varietà di società, siano esse basate sulla parentela oppure no. E possono essere osservati molto presto nella vita individuale, anche prima che vi sia una conoscenza specifica dei gruppi esterni. Inoltre, il processo cognitivo relativo alla distinzione tra gruppo di appartenenza e mondo esterno è automatico, non è cioè il risultato di una riflessione cosciente, ma è più simile ad un riflesso psicologico innato, analogo allo sbattere delle palpebre in risposta ad un improvviso e intenso lampo di luce.

Un’altra indicazione dell’origine evolutiva dei processi dell’identità sociale è che queste tendenze ad una valutazione positiva del gruppo d’appartenenza e alla svalutazione dei gruppi estranei viene esacerbata dai conflitti di interesse concreti tra i gruppi9. In altri termini, se nei gruppi minimali si verificano versioni relativamente moderate di questi fenomeni, essi sono molto più accentuati laddove vi siano reali conflitti di interesse. Questo è importante perché gli adattamenti psicologici mostrano tipicamente una risposta graduale al contesto ambientale. Per esempio, molte persone tendono ad avere una paura naturale, riflessa di cose che hanno rappresentato un pericolo nel corso della nostra storia evolutiva, come i serpenti, i ragni e l’altezza, mentre ciò tende a non verificarsi di fronte a moderne invenzioni letali come le armi da fuoco o le radiazioni nucleari. Comunque, la paura riflessa è probabilmente meno intensa se il suo oggetto è rinchiuso in una gabbia di uno zoo o se ci si trovi ad una distanza di sicurezza dalla minaccia. Le risposte sono pertanto graduali, proporzionate all’intensità dell’evento che le provoca.

Nel capitolo 6 è stato ricordato come certi comportamenti millenari, per quanto assai caratteristici della politica americana, tendano a rimanere quiescenti per poi risvegliarsi in periodi di presunto pericolo o di crisi come «l’epoca dell’espansione, la Guerra Civile, la Prima Guerra Mondiale»10.

 

Come un gene recessivo, nella situazione opportuna [crociate morali messianiche basate sulla costruzione di un gruppo definito in termini morali] essi possono diventare dominanti. Negli anni precedenti l’entrata degli Stati Uniti nelle due guerre mondiali, vi fu inizialmente un periodo di appassionato rifiuto del coinvolgimento. Questa reazione era senza dubbio perfettamente naturale, ma nelle esternazioni dei capi politici era presente un particolare tono morale; le guerre, così sembrava, erano destinate a catturare la virtuosa nazione nella vecchia rete. Alla fine, comunque, le trombe di Sion cominciarono a farsi sentire, generando un entusiasmo di stampo millenarista. Le grandi guerre della nostra storia sono state viste tutte, e in misura notevole, come un Armageddon che si stava inesorabilmente avvicinando. Una volta vinta la guerra e sconfitto il male, sarenne iniziata un’era di pace e di prosperità permanenti11.

 

Nell’epoca attuale si possono considerare le guerre in Iraq e in Libia, propagandate come crociate morali destinate a rimuovere malvagi dittatori come Saddam Hussein e Muhammar Gheddafi e ad instaurare un regime democratico che avrebbe garantito un brillante futuro per quei paesi (in entrambi i casi però la guerra non ha sedato i preesistenti conflitti etnici e religiosi). Nel brano citato da Tuveson si osservi come la retorica politica di entrambi i periodi di isolazionismo precedenti le guerre, e degli stessi periodi bellici, si presentasse in termini morali e si basasse sulla definizione un gruppo interno e di uno esterno, come ad esempio nel periodo precedente la Seconda Guerra Mondiale, quando gli isolazionisti dominavano il dibattito pubblico (ma non la politica dell’amministrazione Roosevelt) prima dell’attacco di Pearl Harbor.   Inoltre, la nostra retorica politica contemporanea è satura di affermazioni di superiorità morale, e in misura crescente assistiamo al collegamento tra questa retorica e le molestie fisiche, e perfino alla violenza. Poiché la sinistra ha conquistato una posizione di dominio morale nei media e nel sistema educativo (dalle scuole elementari all’università) le comunità morali della sinistra risultano particolarmente potenti. Non è affatto infrequente udire accuse di depravazione morale lanciate nei confronti dei conservatori e in particolare dei membri della destra razziale.

Malgrado l’attuale situazione, in cui le molestie fisiche a la violenza si mantengono a un livello relativamente basso, se la storia deve farci da guida ci troviamo ancora essenzialmente nella fase non violenta del conflitto. La riprovazione degli atti di molestia e di violenza è ancora diffusa tra le figure del sistema politico, sia di sinistra che di destra; comunque, questa fase sarà probabilmente seguita da dichiarazioni in base alle quali ogni mezzo disponibile dovrà essere utilizzato per distruggere il nemico moralmente corrotto, violenza compresa, con l’obiettivo dichiarato di stabilire un regno duraturo di pace, amore ed armonia etnica. In effetti, si sono già avuti numerosi esempi di violenza da parte di gruppi sedicenti antifascisti12. Questo futuro utopico verrà propagandato sfidando tutto quanto sappiamo sulla natura umana e sui costi del multiculturalismo, in particolare per quanto riguarda i suoi effetti sui crescenti conflitti tra gruppi13.

 

Il ruolo dell’empatia nelle comunità morali: altruismo e altruismo patologico.

 

In una sezione successiva di questo capitolo sulle differenze razziali per quanto attiene alla personalità, descriverò il sistema della personalità basato sull’amore e sulla cura13a e osserverò come questo sia più forte nella cultura europea che in qualsiasi altra cultura (si veda anche il capitolo 3). In breve, il sistema amore / cura è un sistema evolutivo collegato a specifiche regioni del cervello che sono programmate per generare sensazioni positive in risposta all’essere amati e prendersi cura degli altri; l’empatia (che ha come conseguenza una condizione di sofferenza personale alla vista delle sofferenze altrui, e in particolare di quelle dei propri cari) è un’emozione centrale del sistema amore / cura. Gli estremi dello spettro delle differenze individuali risperro a tale sistema si collegano, all’estremo inferiore, alla sociopatia (spietata insensibilità per i sentimenti degli altri, assenza di rimorsi o sensi di colpa, crudeltà) e, all’estremo opposto, al disturbo dipendente di personalità (eccessivo bisogno di approvazione sociale e di amore) e all’altruismo patologico (eccessiva inclinazione al senso di colpa e all’empatia spinta fino all’autosacrificio e ad un comportamento autolesionista)14. A motivo del loro ruolo nel consolidamento delle relazioni familiari e nell’allevamento dei bambini, le donne sono più intensamente coinvolte nel sistema amore / cura e pertanto più inclini all’empatia degli uomini.

Mentre gli individui sociopatici non si preoccupano di ricevere affetto o di piacere agli altri, coloro che sono almeno moderatamente interessati dal sistema amore / cura attribuiscono valore all’essere graditi agli altri. Questa tendenza a desiderare di piacere può interferire col giudizio razionale. La modalità ordinaria del ragionamento umano è integrata socialmente nelle interazioni sociali15 e le predilezioni sociali, come il desiderio di piacere agli altri, possono ostacolare le valutazioni razionali relative ai costi e ai benefici delle azioni. Così, le persone possono formulare giudizi razionali basati su dati e sull’esperienza pregressa in base ai quali il permettere l’ingresso nella loro città a un maggior numero di rifugiati porterebbe a una riduzione dell’omogeneità sociale e ad uno stress per i servizi sociali e per il sistema scolastico. Ma in pubblico  le stesse persone possono continuare ad approvare un programma per l’accoglienza dei rifugiati perché ciò aumenta le probabilità di ottenere approvazione sociale da parte di amici e vicini nell’ambito delle loro relazioni sociali quotidiane. In effetti, molti esagerano decisamente nel rendere pubblico il loro atteggiamento, fenomeno che viene definito “segnalazione morale”15a.

Per gli individualisti (cioè per le persone che sono meno inclini ad atteggiamenti negativi verso i membri di altri gruppi e verso gli stranieri) avere elevati livelli di empatia può facilmente portare a forme patologiche di altruismo nelle quali elevati costi possono non essere compensati da corrispondenti benefici. L’altruismo patologico viene generalmente definito come il comportamento di chi si concentra sui bisogni altrui a detrimento dei propri16. Un tale altruismo, motivato da quella che si potrebbe chiamare un’“iperempatia”, è più comune tra le femmine, coerentemente col fatto che queste sono in generale più coinvolte dal sistema amore / cura17. Tale comportamento può portare a conseguenze patologiche sia per l’altruista che per il suo beneficiario, come nel caso della codipendenza, in cui l’altruismo di una persona facilita i comportamenti maladattivi di un’altra (ad esempio come quando, in una dipendenza da droghe, una persona sia eccessivamente premurosa e tollerante nei confronti del comportamento autodistruttivo dell’altra).

Un livello ordinario di desiderio di approvazione sociale, come pure il caso dell’altruismo patologico, comportano spesso una consapevolezza della propria rettitudine che può tradursi in un senso di superiorità morale in virtù del quale un individuo segnala la propria buona reputazione all’interno di una comunità definita (come i tipici gruppi europei) non dai legami di parentela, ma dalla conformità o meno alle norme morali comunitarie. Come osservato in precedenza, tali espressioni di presunzione moralistica hanno una lunga storia nelle società occidentali e sono molto evidenti nella retorica politica contemporanea.

Un esempio di come la segnalazione di superiorità morale funzioni ai livelli più alti di governo (mostrando così il divario tra le élite e il resto della società su questioni critiche quali l’immigrazione) si può osservare nel commento di David Goodhart, un giornalista progressista residente in Gran Bretagna, circa l’immigrazione in quel paese:

 

C’e stato un enorme divario tra le idee della nostra élite di governo e quelle delle persone ordinarie che circolano per le strade. Ciò mi è apparso chiaro quando, durante una cena al college di Oxford, un eminente personaggio che sedeva accanto a me, un funzionario statale molto anziano, mi disse: «Quando ero al Ministero del Tesoro sostenevo la massima apertura possibile all’immigrazione [perché] consideravo che il mio compito fosse quello di massimizzare il benessere globale, non quello nazionale». Fui ancor più sorpreso quando quel concetto ricevette l’appoggio di un altro ospite, uno dei più potenti dirigenti televisivi del paese. Anche lui riteneva che la cosa di gran lunga più importante fosse il benessere globale, e di avere più doveri nei confronti di un abitante del Burundi che verso di uno di Birmingham […] [La classe politica] non è riuscita a controllare l’immigrazione […] nell’interesse dei cittadini già presenti18.

 

Un evoluzionista non può che restare stupefatto di fronte all’altruismo del tutto squilibrato (patologico) che si manifesta in esempi come questo, dato che le persone che perseguono politiche del genere sono presumibilmente anch’esse bianche e autoctone della Gran Bretagna. I paesi le cui politiche ignorino il bene della loro stesa popolazione sono destinati al disastro. Un simile altruismo non è che la ricetta dell’estinzione sul piano evolutivo.

Come osservato nel capitolo 7, questa smodata preoccupazione per persone di razza diversa che vivono in terre remote, coltivata a spese della propria gente, fu caratteristica di molti intellettuali del XIX secolo, e in particolare di quelli collegati ad Exeter Hall, che mostravano ciò che Charles Dickens definiva «simpatia da palcoscenico per il negro e […] indifferenza da palcoscenico per i nostri stessi compatrioti»19. Nel suo romanzo Casa Desolata [Bleak House], pubblicato a puntate tra il 1852 e il 1853, Dickens ritrasse tali sentimenti nella figura della signora Jellyby, i cui «begli occhi davano la curiosa impressione di essere rivolti verso qualcosa di molto lontano. Come se […] non potessero scorgere nulla di più vicino dell’Africa»20. La signora Jellyby trascurava coloro che le stavano vicino, compresa sua figlia, per concentrarsi interamente  sui possedimenti africani (fittizi) di Borrioboola-Gha e sui propri progetti idealistici per favorirne lo sviluppo.  E’ ben noto come la massiccia immigrazione non-bianca abbia avuto effetti negativi soprattutto sulla tradizionale classe lavoratrice bianca delle società occidentali, mentre i bianchi più ricchi sono riusciti a sottrarsi ai problemi portati dall’immigrazione trasferendosi in altre zone (il fenomeno della fuga dei bianchi). Questi ultimi, inoltre, tendono ad avere occupazioni (ad esempio nel campo del giornalismo) che non hanno subito l’impatto dell’immigrazione, sebbene i permessi di soggiorno per lavoratori dei settori tecnici diventino sempre più frequenti. In ogni caso, le élite progressiste contemporanee di tutto l’Occidente sono indifferenti agli effetti negativi dell’immigrazione, in termini di abbassamento dei salari21, sulla classe lavoratrice bianca, alla diminuzione della coesione e dell’impegno sociali22 e al deterioramento della scuola pubblica, oppure guardano a  queste cose con sufficienza. Come nel caso della signora Jellyby che trascurava i propri figli, questo atteggiamento caratterizza anche i progressisti contemporanei, che tipicamente non sono in grado di pensare seriamente agli effetti dell’immigrazione di massa non-bianca sulle prospettive a lungo termine dei loro stessi figli, ridotti ad una minoranza in una società a maggioranza non-bianca.

Tali espressioni di superiorità morale sono tentativi di adeguarsi ad una comunità morale definita dai media e accettata dai propri pari. Poiché la sinistra esercita l’egemonia in campo morale, esprimere empatia nei confronti dei bianchi autoctoni, specialmente quelli appartenenti alla classe lavoratrice, fa di chi manifesta simili idee una paria morale, uno che sostiene interessi egoistici, con probabili effetti negativi sulle sue prospettive di carriera. In effetti, l’espressione dell’identità bianca e soprattutto il possedere un senso degli interressi bianchi sono cose che hanno subito la condanna dei media e delle personalità accademiche come esempi dalla più bassa forma di depravazione morale.

Certamente, le motivazioni che stanno dietro a questi casi possono coinvolgere qualcosa di più dell’empatia per le sofferenze degli altri. Se anche queste élite bianche possono provare una sincera empatia per coloro che soffrono in paesi stranieri fino al punto di voler sommergere l’Occidente di tali persone, esse comunque rafforzano di fatto il loro status all’interno del loro gruppo definito in termini morali. E’ addirittura probabile che stiano tentando di essere “più morali degli altri” (segnalazione morale competitiva) mettendosi in vista rispetto ad altri membri del gruppo. E sia che ciò avvenga coscientemente o in maniera inconscia, è probabile che siano consapevoli dei pesanti costi cui andrebbero incontro qualora non fossero capaci di conformarsi alle norme della loro comunità morale, così come dei benefici che ricaverebbero conformandosi.

Come ci si può aspettare, viste le differenze tra i sessi per quanto attiene all’empatia, le donne sono più inclini degli uomini all’altruismo; il prototipo è rappresentato dalla moglie che sopporta lunghe sofferenze continuando a prendersi cura di un marito violento e alcolizzato. I soggetti patologicamente altruisti rispondono in maniera molto forte alle immagini dei rifugiati, degli immigrati e di altri non-bianchi sofferenti. E come si è osservato a proposito dell’empatia, esistono specifiche regioni del cervello che vengono attivate quando un soggetto prova compassione verso gli altri. In effetti la sindrome di Williams, un disturbo di origine genetica, è caratterizzata dall’eccesso di fiducia e di compassione.

La convinzione della propria superiorità morale caratteristica delle persone patologicamente altruiste non è necessariamente razionale:

 

Ciò che si percepisce come una consapevole scelta morale che dà un senso la vita (la mia vita avrà un significato se aiuto gli altri) sarà notevolmente influenzato dalla forza di una sensazione mentale inconscia e involontaria che mi dice che questa decisione è “corretta”. Sarà questa stessa sensazione che comunicherà la “correttezza” del dare cibo ai bambini della Somalia che muoiono di fame o del fare ogni test medico possibile e immaginabile su un paziente chiaramente terminale […] Aiuta il fatto di considerare questa sensazione di sapere come qualcosa di analogo ad altre sensazioni corporee sulle quali non abbiamo un controllo diretto23.

 

In altre parole, le sensazioni di correttezza e di nobiltà agiscono come riflessi psicologici e sono così piacevoli che le persone tendono a cercarle di per sè e senza alcun riguardo per i fatti o per le conseguenze a lungo termine per loro stessi.

 

Parlate con un insistente “so tutto io” che rifiuta di prendere in considerazione le opinioni contrarie e toccherete con mano come la sensazione di sapere possa creare uno stato mentale analogo alla dipendenza da droghe […] Immaginate il profondo effetto derivante dal sentirvi certi di possedere le risposte definitive […] Rinunciare a queste credenze personali fortemente sentite richiederebbe di annullare o ridurre i principali collegamenti con il circuito potentemente seducente del piacere-ricompensa. Provate a immaginare un mutamento di opinione capace di produrre il medesimo tipo di cambiamenti psicologici che avvengono quando si smette di far uso di droghe, alcol o sigarette24.

 

I sentimenti di superiorità morale possono dunque essere piacevoli e condurre alla dipendenza. «L’ostentazione di superiorità morale o un senso di legittima indignazione possono produrre sensazioni così intense e deliziose che molte persone cercano di provarle ripetutamente»25.

 

Il piacere di sapere, con soggettiva certezza, che avete ragione e che i vostri oppositori sono profondamente, spregevolmente nel torto. O che il vostro metodo per aiutare gli altri ha motivazioni così limpide e corrette che ogni critica può essere rigettata con un’alzata di spalle, insieme ad ogni evidenza contraria26.

 

Questa forma di ostentazione di superiorità morale è, naturalmente, particolarmente comune tra le persone che vengono definite “militanti della giustizia sociale”. Sono coloro che gridano “razzista”, “misogino”, “suprematista bianco”, ecc. in occasione di ogni apparente violazione delle norme delle comunità morali di sinistra. E a causa dell’egemonia culturale della sinistra, questi individui possono spesso comparire sui social media (come pure negli articoli e servizi dei mezzi di informazione più diffusi) esprimendo la loro superiorità morale, che coincide con quanto definito dalla sinistra culturale oppure ne estende i confini.

Un altro aspetto di tutto ciò è l’altruismo competitivo o segnalazione morale competitiva. Dato che le espressioni di superiorità morale vengono tipicamente manifestate in un contesto sociale e mirano a consolidare o ad accrescere la reputazione della persona all’interno del gruppo, può aver luogo una competizione in cui tali espressioni assumono forme sempre più estreme, anche tra persone che non sono biologicamente inclini ad un intenso coinvolgimento nel sistema amore / cura. Le espressioni estreme di superiorità morale non producono soltanto dipendenza, ma possono anche elevare lo status di una persona all’interno di un gruppo sociale, come nel caso comune tra le persone religiose che esprimono sentimenti del tipo “sono più santo di te”. Le persone fortemente religiose competono per essere le più virtuose nella loro chiesa locale. Nell’ambito della sinistra, vediamo dei vegani fanatici evitare altri vegani che semplicemente rivolgono la parola a gente che mangia carne o che frequenta ristoranti dove si serve la carne, anche quando si tratti di membri della famiglia. Immagino esista una dinamica all’interno dei gruppi “antifascisti” (le truppe d’assalto delle dottrine ufficiali in materia di razza e immigrazione) in base alla quale coloro che non accettano la violenza o non sono disposti a rompere teste in prima persona vengono ostracizzati, o almeno possiedono uno status alquanto inferiore.

Il risultato è un processo “ad intensità crescente”, nel quale i poli del discorso politico si allontanano sempre più l’uno dall’altro. Ad esempio, gli attacchi ben pubblicizzati alle statue di personaggi storici confederati si sono velocemente trasformati in attacchi contro Thomas Jefferson, George Washington e Cristoforo Colombo. La simpatia diffusa tra i progressisti verso l’idea di concedere l’amnistia agli immigrati illegali si è trasformata in richieste, da parte di esponenti democratici di spicco, di abolire l’ICE (Immigration and Customs Enforcement Agency, Agenzia per il controllo dell’immigrazione e delle dogane, n. d. t.), di rendere legale l’attraversamento dei confini e di dare agli immigrati assistenza sanitaria, patente di guida, diritto di voto e, per finire, la cittadinanza. Invitare qualcuno che sia anche lontanamente associato a idee conservatrici (e meno che mai alla destra razziale) a tenere un discorso in un campus universitario è passato dall’essere una rarità tollerata ad essere il contesto di rabbiose proteste, tumulti, danni fisici alle persone dei conservatori e danneggiamento delle proprietà.

In effetti, suggerirei che questa segnalazione morale competitiva sia la causa principale della crescente polarizzazione cui assistiamo negli Stati Uniti e in tutto l’Occidente nell’era dei social media. Un sondaggio del Pew Research Center sui mutamenti della cultura politica statunitense tra il 1994 e il 2017 ha rilevato come il crescente divario tra democratici e repubblicani, specialmente in tema di immigrazione e di razze, sia  dovuto in larga misura alle idee dei democratici medi che si sono spostate a sinistra27.

Un fenomeno teoricamente simile esiste anche a destra, nel caso ad esempio in cui certi individui ne condannino altri a motivo della loro scarsa militanza o perché non sono sufficientemente puri sul piano ideologico. Tuttavia, poiché è la sinistra a dominare il panorama culturale, il fenomeno della segnalazione morale competitiva mostra su di essa i suoi effetti maggiori. Questo fenomeno è fortemente caratteristico, a destra come a sinistra, delle dinamiche sociali dei social media e dell’ambiente giornalistico.

Le persone che hanno idee di destra devono affrontare il pericolo del doxxing, ossia di veder resa pubblica la loro identità insieme ad informazioni sulla loro vita privata. Gli ospiti dei programmi televisivi trasmessi dai canali più diffusi possono correre il rischio di perdere i loro sponsor e con essi il loro reddito, come ad esempio è avvenuto nel marzo 2019, quando l’ospite di Fox News Tucker Carlson ha perduto circa 30 sponsor, principalmente a causa delle sue opinioni riguardo all’immigrazione28. Oppure può accadere che le persone temano di perdere il proprio impiego per effetto di una telefonata fatta al loro datore di lavoro da parte di qualche sedicente organizzazione per i “diritti civili”, come il Southern Poverty Law Center o l’AntiDefamation League. Ciò può avvenire perché, negli ultimi decenni, la sinistra è diventata più estremista, mentre troppi elementi di destra cercano di ammorbidire i loro critici di sinistra inchinandosi alla loro superiorità morale.

Il predominio culturale della sinistra ha fatto sì che certe idee siano proibite per tutti, tranne che per i più coraggiosi. Perciò siti di informazione come Breitbart e The Daily Caller, per quanto si collochino decisamente a destra tra i media maggioritari, evitano di sostenere esplicitamente l’identità e gli interessi dei bianchi. Vincoli di questo genere sono assai meno evidenti a sinistra, con il risultato che le sue idee si fanno ogni giorno più estremiste. Nel momento in cui scrivo, certe idee sull’immigrazione menzionate in precedenza, come pure sull’aborto (rendere l’aborto legale fino al momento della nascita o addirittura poco dopo), idee che un tempo praticamente non esistevano tra i democratici, vengono espresse in misura crescente da noti esponenti politici e opinionisti di tale partito.

Una conseguenza critica di tutto ciò è la polarizzazione razziale. Gli americani bianchi sono andati orientandosi verso il Partito Repubblicano (l’ultimo presidente democratico che ha ottenuto la maggioranza dei voti bianchi è stato Lyndon Johnson, nel 1964) cosa che rappresenta, in termini generali, un’espressione di consapevolezza bianca implicita (come si vedrà più avanti), mentre i gruppi non-bianchi vanno radunandosi attorno al Partito Democratico. Il fatto è che tali tendenze andranno probabilmente aumentando, e la polarizzazione si farà più intensa.

 

Il controllo dell’etnocentrismo: processo implicito e processo esplicito.

 

Come osservato nel capitolo 5, la ricerca psicologica indica due tipi differenti di processo psicologico, quello implicito e quello esplicito. Queste due modalità evidenziano differenze sotto diversi aspetti29. Il processo implicito è automatico, non richiede sforzo, è relativamente veloce e implica l’elaborazione parallela (che si svolge cioè in parti diverse del cervello) di grandi quantità di informazioni; esso caratterizza i moduli descritti dagli psicologi evoluzionisti. Il processo esplicito è l’opposto di quello implicito: è cosciente, controllabile, richiede sforzo, è relativamente lento e implica l’elaborazione seriale di quantità relativamente piccole di informazioni in maniera sequenziale (come quando ad esempio si svolgono i passaggi necessari alla risoluzione di un problema matematico). Il processo esplicito è coinvolto nelle operazioni dei meccanismi dell’intelligenza generale30, come pure nel controllo degli stati emotivi e delle tendenze comportamentali (come la rabbia e la frustrazione che tendono a portare all’aggressione)31.

Come osservato nel capitolo 5, le credenze religiose sono in grado di motivare il comportamento in virtù della capacità delle rappresentazioni esplicite dei pensieri religiosi (p. es. il tradizionale insegnamento cattolico della punizione eterna all’inferno come risultato del peccato mortale) di controllare i meccanismi modulari subcorticali (come ad esempio il desiderio sessuale). In altri termini, gli stati affettivi e le tendenze all’azione mediati dal processo implicito sono controllabili dai centri cerebrali superiori collocati nella corteccia32. La stessa cosa avviene per l’etnocentrismo.

Essere in grado di controllare impulsi di qualunque tipo si inserisce nel sistema della personalità detto della coscienziosità, spesso indicato anche come “controllo attivo” [effortful control], perché comporta uno sforzo esplicito e cosciente per controllare gli impulsi (si veda più avanti). In parole semplici, le persone coscienziose sono relativamente più capaci di regolare le parti del nostro cervello più antiche in termini evolutivi, che sono responsabili di molte delle nostre passioni e dei nostri desideri.

Qual è l’importanza di tutto ciò nel rapporto tra psicologia ed etnocentrismo dei bianchi? Così come le persone coscienziose sono in grado di inibire le loro tendenze naturali all’aggressione e all’eccitazione sessuale, esse sono anche in grado di inibire il loro naturale etnocentrismo. L’aspetto critico di quando diremo nel seguito è che l’informazione culturale è di vitale importanza per mettere le persone in grado di inibire le loro tendenze etnocentriche. Queste informazioni culturali si basano sul processo esplicito e forniscono le basi del controllo inibitorio prefrontale dell’etnocentrismo.

La conclusione è che il controllo dell’etnocentrismo è una diretta conseguenza del controllo esercitato sull’informazione culturale. Il mio libro La cultura della critica è un tentativo di comprendere cosa è accaduto dopo il periodo culminante della difesa etnica (ca. 1870 – 1930) di cui si è parlato nel capitolo 633. L’ascesa di una nuova élite ha avuto come conseguenza che messaggi espliciti riguardo alla razza (p. es.

“non esiste una cosa come la razza”) e all’etnocentrismo (p. es. “l’etnocentrismo bianco è un segno certo di patologia psichica e di relazioni genitori-figli disturbate”) sono stati diffusi attraverso i media e il sistema educativo. Specialmente a partire dalla Seconda Guerra mondiale, questi messaggi sono stati regolarmente ostili all’etnocentrismo bianco. E questo a sua volta significa che i bianchi sono stati spinti ad inibire il loro naturale etnocentrismo.

Inoltre, come si evidenzia in questo libro, i bianchi tendono ad essere più individualisti delle altre popolazioni, e ciò comporta che essi siano meno inclini, rispetto a quelle, a formulare distinzioni ostili tra il proprio gruppo e i gruppi esterni e siano più portati all’apertura verso gli stranieri e verso le persone che non  hanno il loro stesso aspetto. Poiché i bianchi presentano una minore tendenza all’etnocentrismo e una maggior tendenza alla coscienziosità, il controllo dell’etnocentrismo risulta per loro, mediamente, più facile. I loro meccanismi subcorticali responsabili dell’etnocentrismo sono più deboli e pertanto più facili da controllare.

Esiste una notevole quantità di ricerche sul ruolo dei processi impliciti ed espliciti nell’etnocentrismo e nel suo controllo. Gli atteggiamenti impliciti riguardo alla razza possono essere misurati, ad esempio effettuando scansioni del cervello mentre i soggetti stanno osservando volti di persone di razze differenti34. D’altro canto, gli atteggiamenti espliciti sulla razza sono normalmente valutati mediante la compilazione di questionari che sfruttano il processo esplicito. Nei test sugli atteggiamenti espliciti, la popolazione degli studenti universitari bianchi occidentali mostra tipicamente un atteggiamento favorevole ai negri. Ad esempio, uno studio ha rilevato che i bianchi hanno totalizzato un punteggio di 1.89 su una scala di sei punti, dove 1 significa un atteggiamento fortemente favorevole ai negri e 6 un atteggiamento fortemente ostile35.

Un altro modo di misurare gli atteggiamenti espliciti è il ricorso alle interviste. Un recente campione rappresentativo di 2000 famiglie ha mostrato che un sorprendente 74% di bianchi pensava che l’identità razziale fosse o molto importante (37%) o abbastanza importante (37%)36. In generale le persone acquisiscono maggior consapevolezza razziale con l’aumentare dell’età; solo il 53% riteneva che l’identità razziale fosse importante nella fase della crescita (ho osservato come questa sia anche una caratteristica dell’identità ebraica37). Ancor più sorprendente è che il 77% dei bianchi pensasse che i bianchi abbiano una cultura che va preservata. Tuttavia, malgrado affermassero la legittimità dell’identità bianca, solo il 4% dei bianchi ha dichiarato di far parte di organizzazioni basate sull’identità razziale o etnica (queste includono presumibilmente organizzazione come quelle, ad esempio, a sostegno dell’identità scozzese o polacca, irrilevanti nel contesto politico americano). E il 75% dei bianchi afferma che il pregiudizio e la discriminazione sono fattori importanti, o molto importanti, della posizione di svantaggio degli afroamericani.

In generale, i negri e le altre minoranze mostrano identità etniche esplicite più marcate rispetto ai bianchi. Ad esempio, la stessa indagine ha rilevato che il 90% dei negri pensava che l’identità razziale fosse o molto importante (72%) o abbastanza importante (18%) e il 91% riteneva che la cultura negra dovesse essere preservata. I negri dimostrano inoltre una preferenza esplicita per il proprio gruppo considerevolmente maggiore rispetto ai bianchi38.

Il divario tra gli atteggiamenti espliciti e quelli impliciti è reso possibile dai meccanismi inibitori della corteccia prefrontale. In uno esperimento venivano mostrate fotografie di negri e di bianchi ad alcuni soggetti collegati ad un apparecchio per immagini a risonanza magnetica funzionale (FMRI) che produce immagini del cervello in azione39. Quando le fotografie venivano mostrate per periodi di tempo molto brevi (troppo brevi perché venissero elaborate a livello cosciente) l’apparecchio mostrava che i bianchi avevano una risposta negativa alle fotografie dei negri. Questa procedura rileva dunque atteggiamenti impliciti negativi nei confronti dei negri.

Tuttavia, quando le fotografie dei negri venivano presentate per un periodo di tempo più lungo, in modo da poter essere percepite coscientemente, la differenza tra la reazione alle fotografie dei bianchi e quella alle fotografie dei negri diminuiva. Questo accadeva perché veniva attivata la regione prefrontale. In altre parole, le persone che sono coscientemente consapevoli di vedere delle fotografie di negri sono in grado di inibire la risposta negativa automatica proveniente dalla subcorteccia. I soggetti che mostravano la maggiore attivazione prefrontale mostravano anche la minore risposta subcorticale. Ciò implica che erano maggiormente in grado di inibire i loro atteggiamenti negativi verso i negri.

Questo studio (e altri che hanno dato risultati simili) mostra l’importanza del controllo inibitorio prefrontale sugli atteggiamenti negativi automatici dei bianchi verso i negri. L’etnocentrismo bianco esiste, ma per la maggior parte dei bianchi esso esiste soltanto in una sorta di mondo sotterraneo di processi inconsci e automatici: è un etnocentrismo che non osa pronunciare il proprio nome. Non appena il processo esplicito e conscio entra in azione, esso agisce per sopprimere gli atteggiamenti negativi impliciti che provengono dal livello inferiore, così che la risposta del soggetto si allinei meglio con le norme culturali dell’ambiente sociale40.

I bambini tendono ad avere un pregiudizio favorevole palesemente esplicito nei confronti della loro razza. Il pregiudizio razziale esplicito emerge presto nei bambini dell’età di tre o quattro anni, raggiunge il suo picco a metà dell’infanzia e poi subisce un graduale declino nel corso dell’adolescenza, sparendo tipicamente nell’età adulta41. Tuttavia non vi è un simile declino nelle preferenze razziali implicite, che rimangono forti anche nell’età adulta42. Si assiste pure ad un declino nella scelta degli amici e dei compagni tra individui di razza diversa man mano che i bambini crescono. La probabilità che gli scolari bianchi abbiano amici bianchi è assai più elevata di quanto potrebbe essere spiegabile tramite il caso, e questa tendenza si rafforza con l’aumentare dell’età43.

Ciò significa che se anche le preferenze razziali esplicite dai bambini bianchi tendono a declinare, è meno probabile che essi interagiscano effettivamente e stringano amicizie con bambini di altre razze. Tra gli adulti, i bianchi sono quelli che mostrano una tendenza significativamente minore, rispetto agli altri gruppi razziali, a riferire di amicizie o di contatti interrazziali44.

In conclusione, man mano che crescono, i bambini diventano sempre più consapevoli dell’ideologia razziale esplicita ufficiale e si conformano ad essa. I loro centri prefrontali di controllo inibitorio diventano più forti, così che essi riescono meglio ad inibire i loro pensieri negativi, di origine implicita, riguardo agli altri gruppi razziali. A livello esplicito, essi sono liberi da atteggiamenti negativi verso i gruppi non-bianchi e possono addirittura essere politicamente progressisti o radicali. Allo stesso tempo però, “votano con la pancia”, scegliendo amici e compagni della loro stessa razza.

I loro genitori fanno la stessa cosa. I progressisti mostrano un divario maggiore, rispetto ai conservatori, tra gli atteggiamenti e i comportamenti espliciti e quelli impliciti. Inoltre, mentre i genitori bianchi con un livello di istruzione elevato tendono ad avere atteggiamenti espliciti progressisti sulle questioni razziali, compreso l’interesse per l’integrazione scolastica, queste stesse persone scelgono scuole razzialmente esclusive e sono più inclini a vivere in quartieri con caratteristiche analoghe. Un articolo del 2018 ha osservato come tra i genitori progressisti «[i valori] progressisti vengano messi da parte più fequentemente di quanto si possa pensare» quando si tratti di scegliere una scuola45. In effetti, esiste una correlazione positiva tra l’educazione media dei genitori bianchi e la probabilità che essi ritirino i loro figli da una scuola pubblica qualora in essa aumenti la percentuale degli studenti negri46. Michael Emerson, uno degli autori della ricerca, è alquanto consapevole del divario tra atteggiamenti espliciti e comportamento: «Ritengo che i bianchi siano sinceri quando affermano che le diseguaglianze razziali non siano una buona cosa e che vorrebbero vederle eliminate. Tuttavia […] i loro atteggiamenti progressisti riguardo alla razza non si rispecchiano nel loro comportamento».

Il rovescio della medaglia di tutto ciò è che i bianchi meno facoltosi sono più inclini ad avere quegli espliciti atteggiamenti non progressisti in materia razziale che le élite condannano. Tuttavia è anche più probabile che vivano in zone razzialmente integrate e che mandino i loro figli in scuole dello stesso tipo, probabilmente a causa delle loro limitate disponibilità finanziarie.

 

Comunità bianche implicite.

 

La scelta degli amici da parte dei bambini e quella delle scuole e delle zone di residenza da parte dei genitori riflettono la cruda realtà dell’ipocrisia razziale negli Stati Uniti. Quei bambini e i loro genitori agiscono in base ai loro atteggiamenti impliciti, ed esiste un profondo divario tra i loro atteggiamenti impliciti e il loro comportamento (che mostrano la preferenza per il proprio gruppo razziale) e i loro atteggiamenti espliciti (che esprimono l’ideologia ufficiale dell’egualitarismo razziale). In effetti, essi stanno creando delle comunità bianche implicite, implicite perché anche se queste comunità sono espressione di una (implicita) preferenza razziale, esse non possono presentarsi con il loro nome: i bianchi che si comportano in maniera implicitamente bianca non affermano esplicitamente che la scelta dei loro amici o delle loro scuole o quartieri deriva da una preferenza razziale, poiché ciò è in contrasto con i loro atteggiamenti espliciti sulla razza e con l’ideologia razziale ufficiale della cultura in generale.

I bianchi americani si stanno gradualmente raggruppando in associazioni politiche e culturali che li uniscono in quanto bianchi, e questa tendenza continuerà a rafforzarsi in futuro dato che la diversità etnica in America è una realtà in crescita anche in luoghi lontani dai centri dell’immigrazione della costa orientale, di quella occidentale e del confine meridionale. Ma al presente questa affiliazione politica e culturale non è ancora consapevolmente ed esplicitamente bianca, in parte almeno perché un’appartenenza bianca consapevole è un tabù culturale.

Di fronte alla soverchiante condanna dell’affermazione esplicita di un’identità razziale bianca nel mondo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, i bianchi hanno adottato una varietà di identità esplicite che servono come basi per associazioni e comunità bianche. Tutte queste identità sono sotto il controllo del radar della correttezza politica imposta dalle élite accademiche, politiche e dei media: gli iscritti al Partito Repubblicano, gli appassionati di corse automobilistiche della NASCAR46a, i cristiani evangelicali e i cultori della musica country. Ciascuna di queste identità permette ai bianchi di associarsi tra loro e addirittura di formare una base politica bianca senza alcun riconoscimento esplicito del ruolo rivestito dalla razza.

Le comunità bianche implicite sono diventate un aspetto sempre più importante del panorama americano man mano che la polarizzazione razziale è andata crescendo a causa dell’emergere delle politiche identitarie, dapprima tra i non-bianchi (incoraggiati dalla sinistra) ed ora, chiaramente, anche tra i bianchi, come reazione. La più importante di queste comunità bianche implicite è il risultato della segregazione residenziale dovuta alla fuga dei bianchi. Come osserva Kevin Kruse, «all’alba del XXI secolo l’America si è ritrovata dominata dai sobborghi, e i sobborghi dominati dalle politiche della fuga dei bianchi e della secessione urbana»47. «In passato, l’ostilità verso il governo federale, lo stato sociale e le tasse è stata motivata dal risentimento razziale, sia nelle forma segregazionista all’interno della città di Atlanta, sia in quella degli abitanti separatisti dei sobborghi all’esterno di essa. Negli anni 1990 la nuova generazione dei repubblicani suburbani ha semplicemente portato le politiche della fuga dei bianchi sulla scena nazionale»48.

Come osserva Kruse, la razza non fa mai parte della retorica esplicita della fuga dei bianchi, che tende ad esprimersi come opposizione al governo federale, allo stato sociale, alle tasse e a questioni morali ritenute importanti come l’aborto e l’omosessualità. Ma a livello implicito il desiderio di comunità bianche e l’avversione a contribuire al benessere pubblico avvantaggiando in modo sproporzionato i non-bianchi sono le motivazioni prevalenti.

La fuga dei bianchi è parte del futuro frammentato che attende gli Stati Uniti e altri paesi occidentali con un elevato livello di immigrazione non europea. E’ un fatto chiaramente appurato che quanto più una popolazione diviene etnicamente mista, tanto più forte si fa la sua resistenza alle politiche redistributive49. Ad esempio, uno studio sulle donazioni all’organizzazione di beneficenza United Way of America ha rilevato che i banchi americani donano di meno quando le comunità in cui vivono contengono una percentuale di non-bianchi superiore al 10%. Robert D. Putnam ha mostrato recentemente che una maggiore diversità razziale in una comunità è associata ad una perdita di fiducia50. Il risultato di Putnam è confermato da studi condotti al livello delle comunità locali51 e, data la recente impennata di diversità etnica, dai risultati di recenti sondaggi in base ai quali il 71% degli americani ritiene che la fiducia nei concittadini abbia subito un calo negli ultimi 20 anni52. Inoltre si osserva come gli individui siano più felici vivendo tra persone del loro stesso gruppo etnico che non trovandosi in condizioni di minoranza etnica53. I bianchi che vivono in aree relativamente omogenee come il New Hampshire o il Montana sono più coinvolti nelle amicizie, nella comunità e nella politica rispetto alle persone che vivono in aree più diversificate54.

A livello politico, l’identità bianca implicita si riflette anche nel famoso commento di Howard Dean, che ha definito il Partito Repubblicano come il partito dei bianchi cristiani55. I gruppi etnici non-bianchi tendono a votare per il Partito Democratico anche quando possiedono uno status socioeconomico relativamente elevato, mentre i bianchi della classe lavoratrice tendono a votare il Partito Repubblicano, un buon indicatore del fatto che questo modello si basa su scelte politiche identitarie piuttosto che economiche. La tendenza sul lungo periodo è che dal 1992 la percentuale del voto bianco assegnato al Partito Repubblicano è andata crescendo dell’1.5% ogni quattro anni. Inoltre,

 

appare un po’ presuntuoso pensare che i repubblicani arriveranno ad ottenere un 60% circa del voto bianco. Questo potrebbe accadere, ma […] è del tutto possibile che, nella misura in cui la nostra nazione diventa sempre più diversificata, le nostre coalizioni politiche si fratturino sempre più lungo linee etnico-razziali piuttosto che ideologiche56.

 

Un’altra comunità bianca implicita è quella delle corse automobilistiche della NASCAR, con forti sovrapposizioni con i cristiani evangelicali, la musica country e la cultura dei piccoli centri americani, in particolare quella del Sud. Una famosa vignetta di Mike Luckovich apparsa sull’Atlanta JournalConstitution mostra un negro e un bianco che parlano tra loro, con una bandiera confederata sullo sfondo. «Abbiamo bisogno di una bandiera che non sia razzista… ma che preservi la cultura bianca del Sud…». La vignetta successiva mostra una bandiera a scacchi della NASCAR. La distinzione tra implicito ed esplicito non potrebbe essere più ovvia. Il 94% degli appassionati della NASCAR è costituito da bianchi, analogamente al 92% di quelli di un altro sport implicitamente bianco, l’hockey professionale57.

Una gran parte dell’attrattiva che esercita la NASCAR proviene dal desiderio per la cultura tradizionale americana. Le manifestazioni della NASCAR sono permeate di patriottismo sentimentale, preghiere, esibizioni aeree militari e fuochi d’artificio dopo le gare. Come osserva il sociologo Jim Wright, «quasi ogni cosa […] che si incontra in una giornata trascorsa presso la pista trasuda americanità»58.

Comunque, «per la NASCAR la razza costituisce lo scheletro nell’armadio. Sulle piste e sulle gradinate le corse delle stock-car rimangono uno sport per bianchi». Il carattere bianco delle competizioni della NASCAR si può ricavare dal commento di un osservatore sulla folla presente alla Daytona 500 del 1999, in mezzo alla quale «c’erano probabilmente tante bandiere confederate quanti erano i negri» vale a dire una quarantina su una folla di circa 200.000 persone59. «Il discredito quasi universale che ha colpito la bandiera confederata come politicamente scorretta non ha ovviamente raggiunto tutti gli appassionati della Winston Cup59a. Oppure, a costoro non importa nulla. E, come si può immaginare, non si sono viste cautele o autoflagellazioni a tale riguardo tra gli spettatori della Southern 50059b, adorna di una profusione di bandiere confederate come non ne ho mai viste in qualsiasi altro circuito»60.

Wright sottolinea il legame tra la NASCAR e la cultura tradizionale dei piccoli centri e delle campagne americane, come pure quello con attività all’aperto quali la caccia, la pesca, il campeggio e l’utilizzo [sportivo] delle armi da fuoco61. C’è un’ampia sovrapposizione tra gli appassionati della NASCAR e i possessori di armi. C’è anche una forte atmosfera religiosa cristiana: le corse automobilistiche cominciano con una benedizione e l’intervento di un predicatore. Esiste una «visibile associazione cristiana» nella NASCAR, con intere squadre che si identificano pubblicamente come squadre cristiane; molti piloti prendono parte attiva al ministero cristiano62. Altro valore messo in evidenza è il coraggio di fronte al pericolo, un ulteriore richiamo alla cultura tradizionale americana che deriva in ultima analisi dalla cultura scoto-irlandese degli abitanti della zona di confine tra Scozia e Irlanda [scozzesi d’Irlanda, n. d. t.]: «Entrando nel terzo decennio dell’era post-comunista abbiamo cominciato ad attenderci dai nostri uomini, e perfino a pretendere, più sensibilità ed empatia che non spavalderia e fegato, e le tradizionali virtù virili del coraggio, dell’audacia e delle “palle” per molti suonano anacronistiche, nel migliore dei casi, o addirittura pericolose e idiote»63, 64.

Se la NASCAR è uno sport bianco, la NBA [National Basketball Association, n. d. t.] è ampiamente percepita come uno sport negro. I bianchi, specialmente quelli residenti al di fuori delle grandi città, rappresentano per la NBA una porzione di spettatori in diminuzione, e in generale sono quelli, tra tutti i gruppi razziali americani, che passano meno tempo a guardare le sue partite65. Inoltre la cultura della NBA è vista come afroamericana, e la risposta della NBA è stata un tentativo di darsi un aspetto più simile a quello dell’America bianca, in modo da recuperare la propria base di appassionati. L’opinionista sportivo Gary Peterson osserva che

 

per decenni è esistita una divisione razziale tra i giocatori della NBA (in maggioranza negri) e gli spettatori paganti (in larga misura bianchi). Questa divisione si è trasformata in una linea di rottura nel corso degli ultimi 15 anni […] Mai prima di allora i giocatori erano apparsi così differenti dai loro spettatori. Questa divisione rappresenta la preoccupazione principale della dirigenza dell’organizzazione, anche maggiore del declino dei tiri liberi e dei pantaloni baggy shorts. Per averne una prova, basta guardare il codice di abbigliamento diffuso in tutta l’organizzazione che il commissario David Stern ha imposto la scorsa stagione. E’ stato un passo straordinario; potrebbe addirittura aver detto ai giocatori: «Smettetela di vestirvi come i tipici giovani afroamericani delle città. Spaventate gli spettatori»66.

 

Oltre ad aver messo al bando le appariscenti catene d’oro e aver imposto un abbigliamento formale, la NBA ha anche stabilito punizioni draconiane per le risse tra giocatori. Questo perché la rissa richiama l’immagine della cultura afroamericana urbana. Le multe per chi dà un pugno ammontano a 50.000 dollari più una possibile sospensione (che implica la perdita dello stipendio)67. E’ perciò interessante il fatto che la Major League Baseball67a non contempli simili penalità per le risse, e che abbia pubblicato un messaggio su Twitter relativo ad una zuffa tra gli Yankees e i Red Sox, facendole di fatto pubblicità. La spiegazione ovvia è che la NBA sia ansiosa di allontanare da sè lo stereotipo del teppista negro urbano per via della sua immagine di sport negro (l’80% dei giocatori è negro) mentre la MLB non ne ha bisogno, non essendo considerata uno sport negro68.

Il fatto è che la NBA non è più violenta dell’hockey professionale, uno sport in larga misura bianco che è famoso per le sue risse. Piuttosto, la NBA è consapevole della formulazione di stereotipi razziali da parte dei bianchi. Una parte dell’attrazione che la NASCAR esercita sui bianchi proviene dal fatto che essa costituisce una comunità bianca implicita. Regolamentando abbigliamento e condotta, la NBA sembra stia cercando di rendersi più attraente per i bianchi, malgrado la composizione razziale dei suoi giocatori.

 

Gestire l’etnocentrismo bianco: il problema dell’identità bianca non esplicita.

 

I bianchi stanno chiaramente raggruppandosi in comunità bianche implicite che riflettono il loro etnocentrismo ma «non osano pronunciare il proprio nome». Si comportano spesso in questo modo a causa dell’azione di vari meccanismi che agiscono implicitamente, al disotto del livello della consapevolezza cosciente. Queste comunità bianche non possono affermare un’esplicita identità bianca perché lo spazio culturale esplicito è fortemente vincolato ad un’ideologia nella quale ogni esplicita affermazione dell’identità bianca è soggetta ad anatema. La cultura esplicita agisce sui centri coscienti prefrontali che sono in grado di controllare le regioni subcorticali del cervello.

Questo implica che il controllo della cultura rivesta un’importanza critica. La storia di come questo spazio culturale esplicito sia venuto a formarsi e di quali interessi esso serva è il tema del mio libro La cultura della critica, cui si collega il materiale di questo volume sull’individualismo europeo: queste trasformazioni culturali sono il risultato di una complessa interazione tra le tendenze preesistenti e profondamente radicate degli europei (individualismo, universalismo morale e scienza) e l’ascesa di una nuova élite ostile alle popolazioni e alle culture tradizionali d’Europa69. Il risultato è stato una “cultura della critica” che rappresenta il trionfo dei movimenti di sinistra che hanno dominato il dibattito culturale e politico occidentali del XX secolo, specialmente a partire dagli anni 1960. I presupposti fondamentali di questi movimenti di sinistra, in particolare per quanto riguarda la razza e l’etnicità, permeano il discorso intellettuale e politico sia dei progressisti che della principale corrente dei conservatori e definiscono un consenso tra le élite universitarie, mediatiche, degli affari e di governo.

Poiché l’etnocentrismo implicito è vivo e vegeto tra i bianchi e influenza il loro comportamento in maniera sottile (identità bianca implicita) si potrebbe supporre che i bianchi siano in effetti in grado di perseguire i loro interessi anche contro il vento predominante di una cultura esplicita permeata di potenti controlli sociali e ideologie contrari ai bianchi. Il problema, tuttavia, è che l’identità e gli interessi dei bianchi possono essere gestiti soltanto finchè rimangono a livello implicito. In generale, le comunità bianche implicite si conformano, almeno esteriormente, all’ideologia multiculturale ufficiale e adottano atteggiamenti e retoriche convenzionali circa le questioni razziali ed etniche. Ciò permette loro di sottrarsi allo sguardo indagatore delle élite culturali che impongono gli atteggiamenti convenzionali su tali questioni. Tuttavia ciò li rende incapaci di promuovere attivamente ed esplicitamente quei temi che hanno un’influenza vitale sui loro interessi etnici.

Un buon esempio è quello che riguarda l’immigrazione non-bianca. Durante la campagna per le presidenziali del 2016 e dall’elezione di Donald Trump c’è stato un grande dibattito sul tema dell’immigrazione generato  dalle politiche proposte da Trump allo scopo di impedire l’immigrazione illegale. La retorica di Trump ha incontrato un vasto serbatoio di pubblico irritato dalla mancanza di controllo dei nostri confini e, come credo, dalle trasformazioni che l’immigrazione in generale (legale e illegale) sta provocando. In effetti, la retorica di Trump sull’immigrazione potrebbe benissimo essere stata responsabile della sua elezione. Sebbene sia comune da parte dei sostenitori dell’immigrazione illegale bollare come “razzisti” i loro oppositori, il fatto che l’immigrazione illegale sia, in fin dei conti, illegale ha reso facile ai conservatori della corrente maggioritaria opporsi ad essa senza menzionare i loro interessi razziali.

Ciò contrasta con la tendenza dei media ufficiali (dall’estrema sinistra alla destra neoconservatrice e ultraliberale) a trattare pochissimo, o addirittura a non trattare affatto, la questione degli oltre un milione di immigrati legali che entrano negli Stati Uniti ogni anno, ad evitare qualunque discussione circa il loro effetto sull’economia, sui servizi sociali, sul crimine o sulla competizione nelle università d’élite, come pure sull’effetto a lungo termine rispetto alla composizione etnica degli Stati Uniti e sulle conseguenze che ciò avrà per gli interessi politici dei bianchi che si avviano verso una condizione di minoranza, sulla rimozione della popolazione autoctona da vari settori dell’economia o sul fatto che la maggior parte degli americani voglia veramente tutto questo oppure no. In effetti, un atteggiamento piuttosto comune tra gli esponenti conservatori di spicco che si oppongono all’immigrazione illegale è stato quello di manifestare il loro sostegno all’immigrazione legale come mezzo per evitare l’accusa di “razzismo”, sebbene molti di loro siano vincolati ad interessi economici che vedono con favore l’arrivo di manodopera a basso costo. Mentre l’affermazione di interressi etnici da parte dei non-bianchi è un fatto consueto sulla scena politica e culturale americana, è dagli anni 1920 che non si assiste ad un’affermazione esplicita e maggioritaria degli interessi dei bianchi (si veda il capitolo 6).

La conseguenza è che le ideologie di sinistra circa la razza e l’etnicità sono diventate parte della morale convenzionale e del dibattito culturale anche all’interno delle comunità bianche implicite. Come risultato, tali comunità sono incapaci di opporsi alle forze che incatenano il paese e che si oppongono al loro interesse sul lungo periodo. Poiché da parte dei bianchi manca un tentativo a livello maggioritario di modificare la cultura esplicita in modo tale da rendere legittima l’identità culturale dei bianchi e il perseguimento dei loro interessi etnici, le comunità bianche implicite diventano serbatoi di bianchi isolati e risentiti piuttosto che comunità capaci di perseguire consapevolmente i loro interessi etnici.

In conclusione: la creazione di una cultura esplicita che legittimi l’identità e gli interessi dei bianchi costituisce un prerequisito al perseguimento efficace degli interessi dei bianchi in quanto gruppo.

 

Differenze razziali nella personalità.

 

Le differenze razziali nella personalità spiegano la peculiare tendenza dei bianchi a creare comunità morali nelle quali la reputazione assume un’importanza primaria. Il ruolo critico della reputazione implica la valutazione della personalità dei membri del gruppo effettivi come di quelli potenziali. Una reputazione di individuo spietato, calcolatore, inaffidabile o egoista non migliora lo status di quell’individuo in una comunità morale, mentre una reputazione opposta è bene accetta. A causa della lunga storia delle comunità morali in Occidente ci si aspetta che i risultati della ricerca evidenzino differenze razziali per quei tratti che favoriscono l’appartenenza a una comunità morale.

Come introduzione alla discussione sulle differenze razziali nella personalità prenderò brevemente in esame una teoria evoluzionista dei sistemi della personalità e il modo in cui questi sono in relazione con la classificazione psichiatrica  della personalità psicopatica, che è il tema dell’opera di Richard Lynn dal titolo Race Differences in Psychopathic Personality [Differenze razziali nella personalità psicopatica, n. d. t.] che verrà esaminata più avanti70. Si tenga presente che le differenze individuali in tutti i tratti della personalità sono ereditarie; circa la metà delle variazioni tra gli individui per quanto riguarda i tratti della personalità è attribuibile a influenze genetiche71.

 

Alcuni sistemi elementari della personalità.

 

Il sistema dell’approccio comportamentale (SAC)71a. Un insieme di tratti che influenza la reputazione all’interno di un gruppo, come pure una personalità psicopatica, è quello che riguarda la ricerca di una gratificazione; tali tratti, nel loro insieme, sono definiti sistema dell’approccio comportamentale (SAC). Anche tra i mammiferi più primitivi deve esistere un meccanismo concepito per accostarsi all’ambiente al fine di ricavarne risorse; un tipico esempio è il sistema per la ricerca del cibo e quello per l’attrazione di un compagno. Il SAC si è evoluto a partire da sistemi concepiti per motivare l’avvicinamento a fonti di gratificazione (p. es. la gratificazione sessuale, il dominio, il controllo del territorio) presenti come caratteristiche durevoli e ricorrenti degli ambienti nei quali gli esseri umani si sono evoluti72.

Nel mondo contemporaneo questi meccanismi di gratificazione possono essere attivati non solo da aspetti dell’ambiente evolutivo, come nel caso del predominio sociale o delle situazioni relative all’accoppiamento, ma anche da cose come le droghe sintetiche, concepite per attivare i centri della gratificazione prodottisi per via evolutiva. Questi sistemi di gratificazione si sovrappongono, anatomicamente e neurofisiologicamente, a quelli dell’aggressione, forse perché questa è un mezzo potente per affrontare la frustrazione generata dall’aspettativa non soddisfatta di una gratificazione73.

I meccanismi soggiacenti al SAC mostrano differenze tra i sessi che sono in accordo con la teoria evoluzionista della sessualità, che afferma che i maschi, in media, sono più coinvolti dal SAC rispetto alle femmine perché traggono un maggiore vantaggio dal predominio sociale, dall’aggressione e dal controllo delle risorse rispetto alle femmine74. Questo avviene perché i maschi di successo e socialmente dominanti sono molto più capaci delle femmine di tradurre il loro successo in termini riproduttivi, attraendo femmine di elevata qualità, ottenendo più occasioni di accoppiamento e, nella gran maggioranza delle società, un numero maggiore di compagne. Fondamentalmente i maschi traggono maggior beneficio dal controllo sulle femmine che non viceversa, perché la riproduzione per le femmine è vincolata dalla gravidanza e dall’allattamento. Ad esempio, guidando armate vittoriose Genghis Khan e i suoi diretti discendenti furono in grado di crearsi degli harem nelle zone conquistate, col risultato che oggi [Genghis Khan, n. d. t.] conta 32 milioni di discendenti sparsi in tutta l’Asia. Nessuna femmina avrebbe potuto fare ciò nello stesso periodo di tempo, dati i limiti a lei imposti dalla gravidanza e dall’allattamento.

Di conseguenza non sorprende che tra gli esseri umani adulti l’approccio comportamentale sia anche associato all’aggressività e ad elevati livelli di esperienze sessuali e di emozioni positive (p. es. le emozioni che si provano ottenendo il dominio sociale o realizzando degli obiettivi)75, 76.

Un aspetto rilevante per la personalità psicopatica è che esistono differenze tra i sessi, prevedibili da un punto di vista evoluzionista, per quanto riguarda l’aggressione, la ricerca del piacere (compresa la ricerca di sensazioni) e la manifestazione esteriore di disturbi psichiatrici (p. es. disturbi comportamentali, disturbo oppositivo-provocatorio) e dell’aggressività. Inoltre le interazioni sociali dei giovani maschi sono maggiormente caratterizzate da rapporti di predominio e da stili personali forti ed esigenti77. Dall’altro lato, le femmine sono meno inclini alla depressione che è associata a bassi livelli di approccio comportamentale78. Infatti l’anedonia (incapacità di provare piacere) e lo stato d’animo negativo sono i principali sintomi della depressione indicati nel Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM-V)79.

 

Il sistema amore / cura del legame di coppia. Nel capitolo 3 si è affermato che le popolazioni occidentali sono più inclini ad attribuire valore alla presenza, nei potenziali compagni, di tratti come l’amore e la cura, essendo questo un aspetto dei modelli di accoppiamento individualisti e, in ultima analisi, data la necessità di consolidare strette relazioni familiari e l’investimento paterno in ambienti difficili come quelli in cui si sono evoluti i CR settentrionali. A differenza di quanto avviene nelle società basate sulla parentela, il matrimonio è esogamico e basato almeno in parte sull’attrazione personale, che include tratti della personalità come l’amore e la cura. Questi tratti sono anche importanti ai fini dello status all’interno delle comunità morali. La maggior parte della gente non troverebbe attraente l’insensibilità di un potenziale coniuge, né vorrebbe persone insensibili quali membri della propria comunità morale, perché tali persone tenderebbero ad essere inaffidabili ed egoiste. Diamo nel seguito una descrizione più dettagliata del sistema amore / cura.

Le femmine dei mammiferi danno alla luce i piccoli e li allattano. Questo ha prodotto una quantità di adattamenti per la maternità, una derivazione dei quali sono i meccanismi del legame di coppia presenti anche nei maschi, sebbene mediamente in misura minore80. Per le specie che sviluppano legami di coppia e altri tipi di rapporti intimi che comportano cura ed empatia ci si può aspettare l’evoluzione di un sistema concepito per rendere tali rapporti psicologicamente gratificanti. Lo spazio adattivo dell’amore / cura, perciò, viene elaborato per formare un meccanismo atto a consolidare relazioni di amore e di empatia tra individui adulti che facilitino il trasferimento di risorse ad altri, tipicamente all’interno della famiglia.

I tratti della personalità come l’amore e la cura sono associati alle relazioni intime e ad altre relazioni a lungo termine, specialmente quelle familiari che comportano l’investimento nei figli81. Le differenze individuali per quanto riguarda il calore e l’affetto osservabili nei primi rapporti genitore-figlio, che comportano solidi legami, sono concettualmente collegate con l’amore e la cura nelle fasi successive della vita82. E’ stato rilevato come i legami solidi e le relazioni intense e affettuose tra genitori e figli siano associati a un modello di genitorialità ad alto investimento caratterizzato da una maturazione sessuale più tardiva, da legami di coppia stabili e da rapporti interpersonali intensi, reciprocamente gratificanti e non opportunistici83. Le basi psicologiche del legame di coppia coinvolgono specifiche regioni del cervello su cui poggia la  capacità di ricavare piacere da relazioni strette e intime84. Gli individui nei quali questo sistema è altamente sviluppato sono in grado di trovare gratificazione psicologica e piacere nelle relazioni intime e pertanto le ricercano, mentre i soggetti psicopatici tendono ad avere relazioni personali fredde e prive di sensibilità.

Se infatti la principale spinta evolutiva allo sviluppo del sistema umano dell’amore / cura è rappresentata dal bisogno di una genitorialità ad alto investimento, c’è da aspettarsi che le femmine possiedano meccanismi relativi a tale investimento più elaborati di quelli dei maschi. La teoria evoluzionista della sessualità prevede che le femmine siano più selettive dei maschi nell’accoppiamento e più inclini a relazioni di lunga durata basate sulla cura e sull’affetto; i segnali che indicano cura e affetto nei maschi saranno molto apprezzati dalle femmine in cerca di capacità di investimento paterno. In accordo con questa teoria, esistono notevoli differenze tra i sessi (più marcate nelle femmine) rispetto alle coordinate amore / cura85.

E poiché l’empatia è fortemente collegata al sistema amore / cura, ciò implica altresì che le donne siano più inclini ad essere motivate dall’empatia per le sofferenze degli altri e a manifestare forme patologiche di altruismo. Ciò, a sua volta, ha importanti conseguenze nel mondo contemporaneo, saturo di immagini che ritraggono rifugiati, immigrati e altri non-bianchi sofferenti. Il sistema amore / cura comporta la tendenza a fornire sostegno a quanti hanno bisogno d’aiuto, compresi e bambini e gli ammalati86. Questo tratto è fortemente associato alla femminilità, come pure alle relazioni interpersonali calorose ed empatiche e alla dipendenza psicologica dagli altri.

Gli individui che sono poco coinvolti dal sistema amore / cura tendono ad avere personalità psicopatiche: rapporti interpersonali opportunistici, mancanza di calore umano, di amore e di empatia, incapacità di formare relazioni di coppia a lungo termine, assenza di senso di colpa o di rimorso per aver violato i diritti degli altri. La scoperta in base alla quale i maschi hanno una probabilità tripla, rispetto alle femmine, di ricevere una diagnosi di disturbo antisociale della personalità87 è in accordo con le marcate differenze tra i sessi per quanto riguarda questo sistema. La personalità psicopatica, che è caratterizzata dalla mancanza di empatia e di legami sociali, è associata a un numero elevato di partner sessuali, ad un approccio non impegnativo al rapporto di coppia, alla coercizione sessuale88, a numerose relazioni sessuali a breve termine, alla promiscuità sessuale89 e alla mancanza di cura verso i figli90.

In termini di differenze razziali, il sistema amore / cura rappresenta un aspetto centrale di una lenta strategia storica della vita91, per cui ci si può attendere che gli africani e le popolazioni di origine africana siano meno inclini ai legami di coppia affettuosi e all’investimento paterno nei figli e più inclini a relazioni sessuali a breve termine. In effetti, se da un lato le madri africane sono sensibili e sollecite verso le esigenze dei neonati, dall’altro le interazioni tra madre e bambino nelle tipiche culture africane sono prive del calore e dell’affetto che sono invece caratteristici delle culture europee92. Perciò Mary Ainsworth, pioniere nelle ricerche sul legame madre-figlio, ha trovato che i bambini ugandesi mostravano un forte attaccamento verso la madre malgrado il fatto che questa raramente mostrasse affetto nei loro confronti; un fenomeno osservato anche da altri ricercatori in altri gruppi africani93.

 

Il controllo esecutivo prefrontale (CEP)93a. Una reputazione di persona coscienziosa e affidabile è importante al fine di essere accettatI in una comunità morale. Una tendenza evolutiva relativamente recente, specialmente nella linea dei primati, è stata l’evoluzione di un sistema di controllo centralizzato capace di integrare e coordinare gli adattamenti di livello inferiore. Questo sistema di controllo esecutivo prefrontale (CEP), che agisce dai livelli superiori a quelli inferiori, permette la coordinazione di adattamenti specializzati inclusi tutti i meccanismi associati con il SAC94. Il CEP coinvolge il processo esplicito dell’informazione linguistica e simbolica e il controllo del comportamento che agisce dai livelli superiori a quelli inferiori. A differenza del processo automatico tipico del SAC, esso è in grado di valutare contesti complessi in modo da produrre un comportamento che risulti adattivo nelle società umane contemporanee, con i loro cambiamenti costanti, i loro ambienti e i loro casi di gratificazione e punizione altamente complessi.

Ad esempio, gli stati emotivi risultanti da adattamenti concepiti per reagire alle regolarità evolutive possono porre le persone in una condizione prepotentemente aggressiva alimentata dalla paura, uno stato emotivo che è uno dei sottosistemi del SAC. Tuttavia il fatto che l’aggressione si verifichi o meno può anche essere influenzato, almeno per i soggetti con un CEP sufficientemente sviluppato, dalla valutazione esplicita del contesto più ampio, compresa quella dei possibili costi e benefici di un atto aggressivo (p. es. la punizione della legge, possibili ritorsioni). Questo calcolo esplicito di costi e benefici non è una costante evolutiva, ma è il prodotto di un processo esplicito che valuta gli ambienti di volta in volta presenti e produce modelli mentali delle possibili conseguenze del comportamento. Le differenze individuali nel CEP sono strettamente associate con i tratti della personalità che formano la coscienziosità95. Questa comporta variazioni [individuali, n. d. t.] nella capacità di differire la gratificazione e il piacere (entrambe collegate al SAC) in funzione del conseguimento di obiettivi a lungo termine, perseverando in compiti sgradevoli, prestando grande attenzione ai dettagli e comportandosi in maniera responsabile, affidabile e collaborativa. Non sorprende che la coscienziosità sia anche associata con il successo in campo accademico96; in effetti, una maggiore coscienziosità è probabilmente il fattore che spiega le differenze osservabili tra i sessi, a vantaggio delle femmine, nel periodo scolastico, università compresa.

La coscienziosità si riferisce al «controllo degli impulsi prescritto socialmente che facilita il comportamento orientato all’esecuzione di un compito e al conseguimento di uno scopo»97 ed è pertanto centrale per la comprensione dei comportamenti scarsamente controllati associati alla personalità psicopatica98. In modo specifico, le variazioni nel CEP sono centrali al fine di  comprendere la differenza tra aggressione controllata e incontrollata, cioè la differenza tra un atto impulsivo di aggressione compiuto in condizioni di rabbia provocata da un’offesa e un attacco accuratamente pianificato a scopo di vendetta compiuto a sangue freddo. Le variazioni nel CEP sono anche centrali per quanto attiene al controllo del comportamento orientato alla ricompensa (ricerca del piacere) altro componente fondamentale del SAC99. Gli individui con un basso livello di controllo prefrontale sono inclini all’impulsività e all’abuso di sostanze e hanno un basso livello di controllo emotivo che comprende una relativa incapacità di controllare la rabbia, aspetto che costituisce un fattore scatenante primario di alcuni tipi di aggressione.

 

Le differenze razziali nella personalità di Richard Lynn: i bianchi sono più generosi ed empatici rispetto alle altre razze.

 

Le differenze razziali nella personalità, di Richard Lynn, fornisce un pregevole esame della letteratura sul tema della personalità in relazione alle differenze razziali che si accorda bene con il materiale sulla personalità esaminato in precedenza100. Studi compiuti negli Stati Uniti hanno costantemente evidenziato un ordinamento gerarchico delle razze per quanto riguarda i comportamenti relativi alla personalità psicopatica, con valori più elevati per i negri e per i nativi americani seguiti dagli ispanici, più bassi per i bianchi e ancor più bassi per gli asiatici, soprattutto quelli provenienti dall’Asia nordorientale. Le variabili studiate comprendevano il disturbo del comportamento, la misurazione diretta della personalità psicopatica, la misurazione della promiscuità sessuale (indicante una minore inclinazione al legame di coppia e un ruolo importante del SAC) la coscienziosità (confrontando soltanto bianchi e negri) la criminalità, le sospensioni scolastiche, l’intelligenza emotiva (solo tra bianchi e negri) l’abuso di droghe o altre sostanze, gli abusi nei confronti di minori e l’autostima (collegata al SAC: gli individui con elevato sviluppo del SAC sono inclini all’autostima e alla fiducia in se stessi). In generale, come per il quoziente di intelligenza, le differenza razziali sono maggiori tra bianchi e negri e più attenuate tra bianchi e asiatici nordorientali.

Considerati i dati sull’individualismo europeo e i suoi effetti sui modelli di accoppiamento (che evidenziano l’importanza dell’amore e del legame di coppia nel paragone con le società più orientate alla parentela), suggerisco che le differenze tra gli asiatici nordorientali e i bianchi siano meglio spiegate soprattutto dalle differenze nel CPE. I risultati per i negri indicano chiaramente una più elevata influenza del SAC ed una minore influenze del sistema amore / cura e del CEP.

In effetti, essendo l’unicità dell’individualismo occidentale un aspetto centrale della presente analisi, è importante osservare come i bianchi siano più generosi degli asiatici in termini di donazioni filantropiche, distaccandosi così dalla nota gerarchia relativa al quoziente di intelligenza e al CEP. Ciò è importante perché, come indicato in precedenza, il sistema amore / cura è collegato all’altruismo e all’interesse empatico; inoltre, l’amore e la cura hanno rivestito una speciale importanza per l’occidente per via di particolari aspetti dell’individualismo:

 

  • la scelta individuale del coniuge. Il sistema amore / cura è un criterio importante per entrambi i sessi, ma specialmente per l’uomo in cerca di un’unione monogamica con una donna che presenti in modo marcato il tratto connesso alla cura dei figli e alla fedeltà sessuale. Sull’altro versante, il matrimonio nelle culture collettiviste è maggiormente determinato dal costume di far sposare tra loro individui imparentati, come pure dalle strategie familiari dove i parenti giocano un ruolo determinante.
  • la reputazione in una comunità morale: la reputazione in un gruppo di individui non imparentati tra loro dipende in parte dall’essere considerati generosi, collaborativi e disinteressati. Un elevato sviluppo del sistema amore / cura è collegato all’empatia per le sofferenze degli altri. Tra individualisti, inoltre, a causa della mancanza di netti confini di gruppo e dato che la reputazione in una comunità morale è un fattore critico, ci si aspetta che l’empatia sia rivolta ad individui esterni al proprio gruppo di parentela, rimanendo però interna rispetto alla propria comunità morale.

 

Coerentemente con questo scenario, Lynn presenta dei dati che mostrano come i bianchi siano più disposti ad offrire donazioni filantropiche di quanto lo siano tutti gli altri gruppi, asiatici inclusi101. E di nuovo sottolineo che questo aspetto è particolarmente degno di nota, dato che si discosta dal consueto ordinamento gerarchico dei gruppi razziali basato sulle differenze nelle storie di vita. L’empatia verso gli altri che soffrono fu un aspetto di primo piano dei movimenti per l’abolizione dello schiavismo in Inghilterra e negli Stati Uniti (si vedano i capitoli 6 e 7) e nella “rivoluzione emotiva” del XVIII secolo che alimentò la sensibilità manifestatasi nel secondo impero britannico (cfr. il capitolo 7). In definitiva questo fu un cambiamento etnico che portò in primo piano la sensibilità dei CR, con il peso maggiore che in essa rivestivano l’egualitarismo e le comunità morali.

Per finire, è stato osservato in precedenza come le donne presentino un livello più elevato di amore / cura e dell’emozione collegata, l’empatia. Di conseguenza non sorprende che Lynn osservi come le donne siano più generose degli uomini; in effetti, le donne bianche sono il gruppo più generoso in assoluto, una scoperta che ha senso alla luce delle osservazioni fatte in precedenza sul fatto che le donne siano più sensibili alle richieste provenienti da non-bianchi sofferenti, da rifugiati, immigrati, ecc.

 

La teoria delle storie di vita101a.

 

Nicholas Baumard ha proposto una spiegazione, basata sulla teoria delle storie di vita, del fatto che la Gran

Bretagna sia stato il primo paese a sviluppare una rivoluzione industriale102. Egli fa notare come la Gran Bretagna preindustriale fosse relativamente ricca in confronto a qualsiasi altra regione del mondo, incluse le altre parti dell’Europa. Sebbene non cerchi di spiegare perché la Gran Bretagna fosse più ricca prima della rivoluzione industriale (il cui inizio viene di solito collocato intorno al 1760) egli ricorre alla teoria delle storie di vita per sostenere che questo aumento di ricchezza ebbe un effetto a cascata su un certo numero di tratti psicologici, inclusa una tendenza ad avere un più lungo orizzonte temporale (maggior considerazione per il fattore tempo) un maggiore ottimismo e una maggiore fiducia negli altri, tutti fattori che egli ritiene abbiano aperto la via all’innovazione.

L’idea di base è che in un ambiente stabile e ricco di risorse le persone sono ottimiste e fanno piani per il futuro, piuttosto che comportarsi impulsivamente; poiché la lotta per il sostentamento ha un peso minore, esse sono più gentili verso gli altri e meno preoccupati dei beni materiali. Ad esempio, Baumard cita uno studio che confronta i bambini nativi americani [indiani, n. d. t.] con i bambini americani alloctoni nel periodo precedente e in quello successivo all’apertura di un casinò nella regione abitata dalla popolazione dei nativi. Dopo che questi ultimi ebbero ricevuto quote di denaro dal casinò, si osservò una diminuzione del comportamento criminale, dell’uso di droghe e dei disturbi comportamentali associati alla povertà (come l’ansietà e i disturbi oppositivi) e un incremento di tratti della personalità quali l’amore, la cura e la coscienziosità, che abbiamo descritto in precedenza103. Per analogia, Baumard propone che l’aumento della ricchezza in Gran Bretagna abbia provocato un incremento di questi tratti e che ciò abbia a sua volta portato ad una fioritura dell’innovazione e del progresso tecnologico.

La teoria di Baumard contrasta con quella esposta da Gregory Clark in A Farewell to Alms [Addio all’elemosina, n. d. t.], che propone una selezione naturale per le virtù borghesi come la coscienziosità che ebbe inizio al principio dell’età moderna104. Mentre Baumard adotta esplicitamente una prospettiva di tabula rasa, la teoria di Clark è compatibile con le preesistenti variazioni su base genetica di tratti come la coscienziosità e il quoziente di intelligenza. Popolazioni più intelligenti e coscienziose furono in grado di svilupparsi nel nuovo ambiente della prima età moderna (un ambiente che liberava le potenzialità economiche dell’individualismo) e di avere più figli, producendo una selezione naturale per quei tratti.

Un’altra teoria basata sulla selezione è stata proposta da Peter Frost e Henry Harpending in base all’osservazione che le condanne contro gli atti di violenza crebbero sensibilmente a partire dell’XI secolo, con più del 2% della popolazione maschile di ogni generazione condannato alla pena capitale o morto in altri modi in relazione ai crimini commessi105. Questa eliminazione dei maschi violenti avrebbe ridotto il numero dei maschi più aggressivi e meno inclini alla coscienziosità e all’amore / cura.

Considero tutte e tre queste proposte come fattori che hanno contribuito alla modernizzazione europea; tuttavia prese ciascuna a sé o in combinazione tra loro esse appaiono inadeguate. La prospettiva di tabula rasa di Baumard ignora i consistenti dati sulla variazione genetica dei tratti della personalità e dell’intelligenza. La tesi di Frost e Harpending non spiega come mai la presenza di stati forti in aree come la Cina e l’Europa orientale e meridionale non abbia avuto effetti selettivi analoghi per quei tratti, come pure non spiega l’unicità dell’Europa nordoccidentale, il suo individualismo, il numero enorme delle sue scoperte e invenzioni e la sua spinta ad esplorare e colonizzare il pianeta. Le pene inflitte in Cina per i crimini gravi erano particolarmente severe, risalendo già all’VIII secolo l’uso di punire l’intera famiglia del presunto colpevole106. Inoltre, nessuna di queste teorie prende in esame l’individualismo come condizione necessaria per la modernizzazione europea, inclusa la rivoluzione industriale. Come si è visto nel capitolo 4, l’Europa nordoccidentale aveva una lunga storia di struttura familiare individualista che precede di molto la rivoluzione industriale; le sue origini, in effetti, si perdono nella preistoria, e da parte mia sostengo che abbiano un fondamento etnico. Comunque, la creatività, l’innovazione e l’iniziativa che sarebbero state il prodotto naturale dell’individualismo delle popolazioni europee nordoccidentali vennero soffocate da un sistema sociale aristocratico e non meritocratico fino all’epoca della Guerra Civile Inglese, a metà del secolo XVII, e al rovesciamento della cultura aristocratica (capitolo 6).

Come osservato nel capitolo 4, il modello familiare individualista richiedeva una grande capacità di pianificazione e di autocontrollo (coscienziosità) prima del matrimonio e aveva come conseguenza una maggiore probabilità di esibire quello che gli psicologi chiamano “locus di controllo interno” (cioè la tendenza delle persone a credere di esercitare un controllo sugli esiti degli eventi delle loro vite, in opposizione ad una prospettiva fatalista risultante da forze esterne al di fuori del loro controllo). Non è un caso che la parola inglese kismet106a abbia un’origine araba.

Il matrimonio individualista pone anche l’accento sulla scelta individuale del coniuge basata sulle sue caratteristiche personali, che comprendono l’intelligenza, la coscienziosità e l’affetto (amore / cura). Questi tratti perdono importanza quando il matrimonio sia inserito nelle reti della parentela estesa, dove esso ha luogo tipicamente tra consanguinei ed è spesso determinato dalla scelta dei genitori. In una cultura individualista il fattore critico era costituito dalla reputazione all’interno di una comunità morale piuttosto che dalla comunità basata sulla parentela, e ciò aveva come conseguenza la fiducia nei confronti dei non parenti.

La Riforma protestante, che si verificò soltanto nell’Europa nordoccidentale, rappresenta un fattore critico. In particolare, la Guerra Civile Inglese degli anni 1640 vide il trionfo dell’individualismo egualitario e l’inizio del tramonto della cultura aristocratica basata sull’agricoltura, della rigida gerarchia di status e della condizione sociale ereditaria (non meritocratica) che offriva scarsissime opportunità di mobilità ascendente. La rivoluzione ebbe come risultato finale un relativo egualitarismo, lo sviluppo di un’economia orientata al mercato, l’industrializzazione e opportunità di mobilità ascendente e di successo riproduttivo per gli individui intelligenti e coscienziosi, come viene descritto nell’opera di Clark Addio all’elemosina.

Baumard suppone che l’aumento della ricchezza in Cina e in Giappone (paesi nei quali non si sviluppò mai nulla di simile all’individualismo europeo) avrebbe avuto come conseguenza una rivoluzione industriale. Queste sono congetture che non tengono conto degli elevati livelli di conformismo e della relativa mancanza di creatività e di innovazione di queste culture (malgrado l’aumento della ricchezza) che perdurano ancor oggi107. Come si è detto nel capitolo 3, gli occidentali sono popolazioni WEIRD, che differiscono per un gran numero di caratteristiche psicologiche dalle popolazioni che formano culture collettiviste. Come per i dati sulla famiglia individualista, queste osservazioni sono compatibili con un’interpretazione etnica dell’unicità europea nordoccidentale.

Per finire, poiché in Europa e nelle altre società è sempre esistita una classe agiata, affinchè la teoria di Baumard (secondo la quale l’aumento della ricchezza costituisce un fattore critico) possa essere plausibile, essa deve affermare che tale processo è essenzialmente il risultato di un aumento del numero degli individui benestanti. Ma questa è una congettura. La mia opinione è che il fattore critico fu la distruzione della cultura aristocratica, che permise all’individualismo egualitario connaturato agli europei nordoccidentali di venire alla luce.

 

Sfide psicologiche allo sviluppo di una cultura esplicita dell’identità e degli interessi dei bianchi.

 

Quanto precede ha preso in esame i meccanismi psicologici che stanno alla base del potere che le culture umane hanno di influenzare comportamenti e mentalità. Chiaramente la cultura maggioritaria occidentale, attualmente dominata dalla sinistra anti-bianca, pone un ostacolo considerevole allo sviluppo di una cultura esplicita favorevole all’identità e agli interessi dei bianchi. In assenza di cambiamenti nella cultura esplicita sulle questioni relative alla legittimità di quella identità e di quegli interessi, i bianchi continueranno semplicemente a ritirarsi all’interno delle comunità bianche implicite.

Esistono ovviamente molti ostacoli allo sviluppo di una cultura maggioritaria di questo tipo, il principale essendo costituito dall’opposizione delle élite dei media, dell’università, del mondo degli affari e della politica. Vi sono poi altri meccanismi che sono entrati in gioco e che rendono difficile la creazione di tale cultura.

 

L’interesse personale e le strutture anti-bianche.

Gran parte del problema sta nel fatto che quelle élite hanno creato un’infrastruttura molto elaborata, di modo che, per la gran maggioranza degli individui, l’interesse personale sul piano economico e professionale coincide col sostegno alle politiche anti-bianche. Un esempio particolarmente rilevante è quello degli individui e delle aziende che traggono un beneficio diretto dall’immigrazione per via della manodopera a basso costo, o delle società come la First Data Corporation che guadagnano sulle rimesse inviate dagli immigrati ai propri parenti in altri paesi.

Notevoli esempi sono costituiti dai rettori universitari, molti dei quali guadagnano somme a sette cifre. Ad esempio Mary Sue Coleman guadagnava oltre un milione di dollari l’anno prima di lasciare il suo incarico di rettrice dell’università del Michigan nel 2014. Si era distinta per i suoi tentativi di mantenere le preferenze razziali per i non-bianchi e di promuovere i vantaggi educativi (inesistenti) della diversità108.

Similmente, quando tre giocatori bianchi di lacrosse della Duke University furono accusati di aver violentato una donna negra, la facoltà e gli amministratori rilasciarono dichiarazioni che davano per scontata la loro colpevolezza109. Poiché all’università la politica culturale della sinistra è divenuta una consuetudine, le affermazioni che deploravano il razzismo e il sessismo di quei giocatori possono essere considerate come buone mosse per la carriera, pur essendo risultate infondate. Adottare le idee convenzionali sulla razza e sull’etnicità è la conditio sine qua non per fare carriera come accademico della corrente maggioritaria (in particolare come amministratore) come intellettuale pubblico o nell’arena politica.

Coerentemente con l’importanza rivestita dall’interesse personale nel sostenere politiche e politici esplicitamente bianchi, una ricerca del 2017 ha osservato come i bianchi che si collocano nella fascia di reddito alta fossero i meno inclini a sostenere politici con una forte identità bianca se pensavano che la gerarchia razziale fosse instabile. In altre parole, i bianchi che hanno di più da perdere sono probabilmente i meno disposti creare problemi provocando le minoranze nella misura in cui ritengano che la gerarchia razziale possa mutare per via dei cambiamenti demografici110.

Come ha fatto notare Frank Salter, i bianchi che trascurano gli interessi del loro gruppo razziale ottengono vantaggi per sé e per le loro famiglie a spese dei loro più ampi interessi etnici111. Ciò è particolarmente vero per i membri bianchi dell’élite, persone la cui intelligenza, il cui potere e la cui ricchezza potrebbero fare una grandissima differenza nella cultura e nella politica. In effetti costoro stanno sacrificando milioni di individui della loro razza, ad esempio voltando le spalle alla classe lavoratrice bianca (che, com’è ben noto, è quella che soffre maggiormente a causa dell’immigrazione non-bianca e del regime multiculturale) per il solo vantaggio personale e della loro stretta cerchia familiare.

In base alle regole consuete del successo evolutivo, questa è una scelta disastrosamente sbagliata. Comunque, poiché la nostra psicologia, prodotta dall’evoluzione, è assai più in sintonia con gli interessi individuali e familiari che con quelli del gruppo etnico o della razza, è improbabile che i bianchi che traggono un beneficio economico o professionale dall’adottare le idee convenzionali sulla razza e sull’etnicità provino disagio a livello psicologico. In effetti, dato che tali idee convenzionali sono state sostenute dall’ideologia secondo la quale una deviazione rispetto alle stesse è indice di  turpitudine morale o di patologia psichica, tali individui si sentono probabilmente virtuosi sul piano morale quando rendono pubblico il loro sostegno a quelle idee (segnalazione morale all’interno della comunità morale creata dalla cultura d’élite).

 

La teoria dell’apprendimento sociale: conseguenze per chi non domina la cultura.

Per quanto un mutamento nelle strutture dei vantaggi materiali sia indubbiamente un fattore critico ai fini della promozione degli interessi etnici bianchi, si dovrebbe anche prestare attenzione all’apprendimento sociale, ossia a quell’apprendimento che avviene attraverso l’imitazione di modelli. Le persone sono inclini ad adottare le idee e il comportamento di coloro che godono di prestigio e di uno status elevato, e questa tendenza si accorda bene con una prospettiva evoluzionista per la quale la ricerca di uno status sociale elevato è una caratteristica universale della mente umana. Un componente critica del successo della cultura che promuove l’espropriazione dei bianchi è costituita dal fatto che tale cultura ha ottenuto il controllo delle più prestigiose ed influenti istituzioni dell’Occidente, in particolare dei media e delle università. Una volta che questa cultura è divenuta l’opinione dominante tra le élite, essa è stata largamente accettata anche dai bianchi di livello culturale assai differente e dalle persone di altre classi sociali112.

Ad esempio, Leslie Fiedler, uno studioso di letteratura ebreo collegato agli Intellettuali Newyorkesi113, ha descritto un’intera generazione di scrittori ebrei americani (comprendente Delmore Schwartz, Alfred Kazin, Karl Shapiro, Isaac Rosenfeld, Paul Goodman, Saul Bellow e H. J. Kaplan) come «ebrei di seconda generazione, tipicamente urbani». Le opere di questi scrittori comparivano regolarmente sulla Partisan

Review, il giornale simbolo degli Intellettuali Newyorkesi. Fiedler prosegue dicendo che

 

lo scrittore della provincia attratto da New York si sente […] un sempliciotto e cerca di conformarsi; e il fatto che lo scrittore non ebreo a New York cerchi quasi di parodiare l’ebraicità è una strana e cruciale testimonianza della nostra epoca114.

 

Una volta che gli ebrei ebbero ottenuto prestigio e status nel mondo letterario, era del tutto naturale che i non ebrei li ammirassero e li emulassero, adottando le loro idee sulla razza e sull’etnicità, idee che erano maggioritarie nella comunità ebraica e molto più a sinistra della maggioranza degli americani. Come altre influenze cha fanno da modello, dunque, i memi maladattivi si diffondono meglio tramite individui e istituzioni dotati si elevato status sociale. Essendo stati innalzati al pantheon della cultura d’élite, individui come Sigmund Freud o Stephen Jay Gould sono divenuti icone culturali, autentici eroi della cultura. Pertanto i memi culturali che promanano del loro pensiero hanno un’opportunità molto più grande di radicarsi nella cultura in generale.

Oltre a ciò, adottare le idee dell’élite sulla razza e sull’etnicità porta anche benefici psicologici, in quanto migliora la reputazione di una persona all’interno della comunità morale contemporanea creata da quelle stesse élite. D’altro canto, dissentire pubblicamente da tali idee comporta costi pesanti per la maggior parte delle persone. E’ probabile che le élite bianche che voltano le spalle al loro gruppo etnico ottengano un consistente sostegno dalla cultura esplicita contemporanea, mentre coloro che tentano di promuovere gli interessi dei bianchi possono aspettarsi di pagare un prezzo doloroso sul piano psicologico.

Vi sono molti esempi di bianchi che sono stati licenziati dal loro posto di lavoro nei media o in altre posizioni influenti per aver manifestato opinioni sulla razza e sull’etnicità che si discostano da quelle convenzionali. D’altro canto, l’imponente approvazione sociale che la rettrice dell’Università del Michigan Mary Sue Coleman ha ricevuto da parte della cultura universitaria per le sue posizioni in materia di diversità costituisce senza dubbio una componente positiva del suo lavoro. Se avesse improvvisamente capovolto le sue posizioni sui benefici della diversità, la sua carriera come rettrice universitaria e il suo stipendio di un milione di dollari l’anno sarebbero stati esposti a un grave rischio.

 

Benefici e rischi della coscienziosità.

Un sistema psicologico che influenza la reputazione morale è la coscienziosità, esaminata in precedenza in relazione al suo ruolo nell’inibire le nostre tendenze naturali in vista di vantaggi a lungo termine. Tuttavia le persone che presentano un elevato livello di coscienziosità tendono anche a preoccuparsi molto della loro reputazione.

Ciò non avviene per caso. Infatti per le persone coscienziose crearsi una buona reputazione è un mezzo importante per ottenere vantaggi a lungo termine. Vediamola in questo modo. Se qualcuno imbroglia un’altra persona, costui ottiene un vantaggio a breve termine pagando però il prezzo di guadagnarsi una cattiva reputazione qualora il suo imbroglio venga scoperto. L’unico modo che questo individuo ha per continuare a sopravvivere è quello di approfittare di altre persone che non conoscono la sua reputazione, e ciò significa essere sempre in movimento e interagire con estranei (che saranno meno fiduciosi) piuttosto che con amici e alleati. D’altro canto, se costui collabora entrambe le parti ne beneficiano ed egli si crea una reputazione di persona collaborativa che può durare una vita intera. Nel lungo periodo, dunque, starà meglio.

Le persone coscienziose, a differenza dei soggetti sociopatici, sono collaborative, e di conseguenza si preoccupano molto della loro reputazione. Questo è un aspetto particolarmente critico per gli individualisti, perché questi tendono ad interagire più spesso con estranei; la loro reputazione si forma innanzitutto tra individui che non sono loro parenti e che farebbero molto in fretta (rispetto ai parenti) ad interrompere i rapporti qualora notassero segni di inaffidabilità.

La ricerca teorica ha mostrato che avere accesso alla reputazione di una persona è probabilmente una condizione necessaria all’evoluzione della cooperazione115. L’informazione circa la reputazione degli individui forma una memoria collettiva della loro storia passata ed è resa possibile dal linguaggio, ossia da rappresentazioni esplicite della storia pregressa delle persone nelle situazioni di cooperazione116.

Senza tale informazione esplicita sulla reputazione gli individui collaborativi sarebbero in condizioni di svantaggio evolutivo e vulnerabili ad una strategia di sfruttamento a breve termine, piuttosto che partecipi di una collaborazione a lungo termine con persone simili a loro. Questa informazione esplicita riguardo alla reputazione è pertanto elaborata dai centri cerebrali superiori collocati nella corteccia prefrontale, collegata alla coscienziosità.

Suggerisco perciò che la pressione evolutiva alla cooperazione sia una funzione adattiva critica, che spiega l’evoluzione della coscienziosità. La ricerca psicologica mostra che le persone con elevato livello di coscienziosità sono responsabili, fidate, diligenti e affidabili. In effetti, la responsabilità emerge come un aspetto (cioè una subcategoria) della coscienziosità, definita come la caratteristica di chi è collaborativo, fidato, di aiuto agli altri e fornitore di contributi ai progetti della comunità e del gruppo117. Questi tratti sono anche fortemente correlati con l’onestà e con un comportamento moralmente esemplare.

Pertanto la coscienziosità non ci rende soltanto più capaci di inibire impulsi naturali come l’etnocentrismo, ma ci rende anche più attenti alla nostra reputazione in una comunità morale. Desideriamo sentirci a nostro agio nella comunità e vogliamo essere conosciuti come collaboratori, non come traditori. All’estremo inferiore della scala della coscienziosità si collocano gli individui sociopatici (che si trovano anche al livello più basso rispetto ai tratti dell’amore e della cura). E’ più probabile che questi soggetti approfittino degli altri per trarne vantaggi a breve termine e che non si preoccupino di crearsi una reputazione di persone oneste ed affidabili. Dopo aver approfittato di qualcuno sono costretti a spostarsi in una zona in cui la loro reputazione non è conosciuta.

Ovviamente la coscienziosità, così com’è stata definita in precedenza, costituisce un pilastro della civiltà e della vita culturale umana. Ciò vale in particolare per le culture individualiste dell’Occidente, vista l’importanza che essa riveste al fine di ottenere una buona reputazione in un gruppo di estranei.

A questo insieme di tratti Francis Fukuyama aggiunge anche la fiducia, quale virtù fondamentale delle società individualiste118. Essa è collegata alla coscienziosità perché è più probabile che ci si fidi di persone che hanno una buona reputazione, delle persone cioè che godono della fiducia degli altri. La fiducia è in effetti un modo di sottolineare l’importanza dell’universalismo morale come caratteristica delle società individualiste. Nelle società collettiviste basate sulla famiglia la fiducia termina dove termina la famiglia o il gruppo più ampio della parentela. L’organizzazione sociale, sia nella cultura politica che nell’iniziativa economica, tende ad essere un affare di famiglia. La moralità è definita come ciò che è bene per il gruppo, tipicamente il gruppo dei consanguinei (p. es.: “è un bene per gli ebrei?”).

La mancanza di fiducia al di fuori del gruppo dei consanguinei è il problema fondamentale che impedisce lo sviluppo di società civili in gran parte dell’Asia e dell’Africa, dove le divisioni tra opposti gruppi religiosi, e in ultima analisi di parentela, definiscono il paesaggio politico. Dalle persone che hanno buone occupazioni ci si aspetta che aiutino i loro parenti, cosa che porta ad elevati livelli di corruzione119. Lo spostamento dell’Occidente nella direzione del multiculturalismo e dell’opposizione ai gruppi identitari basati sulla razza e sull’etnicità significa la fine della cultura occidentale individualista, destinata ad essere sostituita da una cultura caratterizzata da conflitti egoistici tra gruppi piuttosto che tra individui.

Nelle culture individualiste, le organizzazioni comprendono membri non appartenenti al gruppo familiare che occupano posizioni di fiducia, e il nepotismo è considerato immorale ed è soggetto a sanzioni legali. La moralità è definita in termini di principi morali universali, che sono indipendenti dalle relazioni di parentela o dall’appartenenza al gruppo. La fiducia pertanto costituisce un fattore di importanza critica per la società individualista. E la fiducia, sostanzialmente, riguarda la costruzione di una reputazione di affidabilità, ad esempio quella di chi tratta onestamente non soltanto con i propri parenti, ma anche con gli altri. Ne consegue che le popolazioni di derivazione europea sono particolarmente attente alla reputazione. Nelle società individualiste in cui gli occidentali si sono evoluti la cooperazione (e quindi il successo) era il risultato del possedere una buona reputazione, non della possibilità di contare su ampie relazioni di parentela.

Ci sono ovviamente grandi vantaggi nella fiducia e nel più ampio sistema psicologico della coscienziosità. L’insieme dei tratti associati all’individualismo sta alla base della modernità occidentale. La possibilità di contare sulla reputazione degli altri è un ingrediente chiave per costruire società cooperative e civili in grado di elevarsi al disopra del familismo amorale.

Il lato negativo, però, è che le persone coscienziose sono a tal punto preoccupate della loro reputazione da diventare conformiste. Da quando la sinistra politica e culturale ha conquistato l’egemonia, gran parte dei suoi successi è stata dovuta al fatto che essa ha dominato il discorso morale e intellettuale sulle questioni della razza e dell’etnicità. La cultura della critica è diventata la visione comune e un pilastro della classe dirigente intellettuale. Le persone che sono in disaccordo con l’opinione progressista dominante devono affrontare una disastrosa perdita di reputazione, nulla di meno che un’agonia psicologica.

Vi sono molti esempi che mostrano il potere di questo meccanismo. Più di 75 anni fa Anne Morrow Lindbergh divenne una delle prime vittime della versione moderna della correttezza politica quando suo marito, Charles Lindbergh, affermò che gli ebrei erano una delle forze che cercavano di spingere gli Stati Uniti ad entrare nella Seconda Guerra Mondiale. Poco tempo dopo l’esternazione del marito, ella scrisse:

 

La tempesta comincia a farsi forte […] Sento che questo è l’inizio di una battaglia, di una solitudine e di un isolamento che non abbiamo mai conosciuto prima d’ora […] Perché io sono molto più attaccata alle cose mondane di quanto lo sia lui, mi dispiace maggiormente dover rinunciare agli amici, alla popolarità, ecc., mi preoccupano molto di più le critiche, la freddezza e la solitudine […] Sarò ancora capace uscire a fare compere a New York? Sono sempre stata guardata, ma ora, essere guardata con odio, dover camminare tra file d’odio!120

 

Ciò che colpisce e che forse è controintuitivo è che il senso di colpa e la vergogna rimanevano presenti anche se la donna era completamente certa, a livello intellettuale (esplicito), che le affermazioni di suo marito si basavano su prove valide, che erano moralmente giustificabili e che egli era un uomo integro.

 

Non posso spiegare con la logica la rivolta dei miei sentimenti. E’ la mia mancanza di coraggio di fronte al problema? E’ la mia incapacità di vedere e di comprendere a fondo le cose? O è la mia intuizione che si fonda su qualcosa di profondo e di valido? Non lo so, e sono soltanto molto turbata, cosa che lo sconvolge. Ho la più grande fede in lui come persona, nella sua integrità, nel suo coraggio, nella sua sostanziale bontà, onestà e gentilezza, nella sua vera e propria nobiltà […] Come spiegare allora il mio profondo sentimento di dolore per ciò che sta facendo? Se quanto ha detto è la verità (e sono incline a pensare che lo sia) perché era sbagliato dirlo?

 

La sua reazione è involontaria e irrazionale, al di là delle capacità d’analisi della logica. Charles Lindbergh aveva perfettamente ragione in quanto diceva, ma una comprensione razionale della correttezza della sua analisi non poteva ridurre il trauma psicologico di sua moglie, che doveva affrontare gli sguardi ostili degli altri. Il trauma è il risultato del potere che il sistema della coscienziosità ha di provocare una perdita di reputazione per chi violi il tabù culturale che grava sulla discussione dell’influenza ebraica.

Ho avuto esperienze simili, per quanto in scala assai più ridotta, concretizzatesi in attacchi contro la mia persona presso l’università dove lavoravo121. Come nel caso di Anne Morrow Lindbergh, che era preoccupata al pensiero di andare a far compere a New York, la cosa più difficile per me è stata gestire la perdita di reputazione nel mio ambiente quotidiano all’università. Il problema maggiore è che essere un accademico non conformista in materia di razza e di etnicità ha implicazioni morali enormi. Se qualcuno dissente sulla teoria macroeconomica dominante o sulle principali influenze del romanticismo francese del secolo XIX può essere considerato un po’ eccentrico o, forse, non troppo sveglio. Me è improbabile che venga travolto da in profluvio di indignazione morale.

Dato che gli accademici tendono ad essere dei tipi coscienziosi, non sorprende che essi, in generale, siano restii a fare o a dire cose che potrebbero danneggiare la loro reputazione. Ciò è per lo meno ironico, perché contrasta con l’immagine degli accademici quali intrepidi ricercatori della verità. Diversamente dai politici, che devono continuamente ingraziarsi il pubblico per essere rieletti, e a differenza delle figure del mondo dei media, che non hanno un lavoro garantito, gli accademici di ruolo non hanno scuse per non essere disponibili a sopportare etichette come “antisemita” o “razzista” allo scopo di perseguire la loro ricerca della verità. Fa parte del loro lavoro (e costituisce, in primo luogo, gran parte della motivazione soggiacente al loro ruolo retribuito) il fatto che si suppone siano disposti ad assumere posizioni impopolari: a continuare sulla loro strada facendo uso di tutto il potere del loro intelletto e di tutta la loro competenza per mappare nuovi territori che pongono una sfida alla saggezza popolare.

Ma questa immagine del mondo accademico, semplicemente, non poggia sulla realtà. Si consideri, ad esempio, un articolo apparso quasi due mesi dopo la pubblicazione del famoso saggio di John Mearsheimer e Stephen Walt sulla lobby israeliana122 e opportunamente intitolato Un testo che scotta mette il bavaglio al mondo accademico123:

 

Piuttosto che accettare in dibattito irritante, la maggior parte dei professori non solo ha acconsentito a dissentire, ma ha anche sostenuto pubblicamente che non vi fosse alcun dissenso. A Harvard e in altre scuole il testo di Mearsheimer e Walt si è semplicemente dimostrato troppo scottante per essere maneggiato ed ha rivelato un mondo accademico profondamente diviso e tuttavia deplorevolmente timoroso di impegnarsi su una delle più scottanti questioni politiche del nostro tempo. Chiamatela guerra fredda accademica: fazioni diffidenti rese timorose dalla prospettiva di una sicura mutua distruzione delle carriere.

 

I professori hanno rifiutato di prendere posizione sul testo, sia in favore che contro. Come ha osservato un docente della Ivy League: «Un gran numero [dei miei colleghi] era più preoccupato delle ripercussioni sulla politica accademica e di come avrebbe potuto sganciarsene». Come nel 1941, discuter dell’influenza ebraica (sia pure in modo spassionato e basato sui fatti) comporta costi pesanti.

Purtroppo vi sono attualmente prove consistenti che gli accademici, in generale, cerchino prudentemente di evitare le conseguenze di qualsiasi cosa possa provocare ostilità, come pure di darle rilievo. Infatti alcuni ricercatori stanno puntando l’indice contro questo fatto chiedendosi se il ruolo retribuito dei docenti sia giustificato. Una recente indagine sugli atteggiamenti di 1004 professori delle università d’élite illustra piuttosto chiaramente la cosa. Indipendentemente dal loro grado, i professori giudicano i colleghi

 

riluttanti ad impegnarsi in attività che vadano contro i desideri dei loro colleghi. Anche i docenti di ruolo credevano [che gli altri professori di ruolo] facessero appello alla libertà accademica soltanto “qualche volta”, piuttosto che “di solito” o “sempre”, quantunque più spesso dei loro colleghi di grado inferiore […] La loro inclinazione ad autolimitarsi può essere dovuta ad un desiderio di armonia e/o rispetto per le critiche dei colleghi, le cui opinioni stimano. Tuttavia i dati non recano sostegno all’immagine che ritrae il Professor Americanus come un ribelle senza freni124.

 

Vista in questo contesto, la reazione al testo di Mearsheimer e Walt acquista sicuramente un senso. Come ha osservato un professore, «la gente potrebbe avere qualcosa da dire se si desse a tutti un buono di uscita gratuito dalla prigione, promettendo che poi tutti tornerebbero amici»125. Questo intenso desiderio di venire accettati ed apprezzati dai colleghi è certamente comprensibile. Impegnarsi per ottenere una buona reputazione fa parte della nostra natura, specialmente per quelli tra noi che sono coscienziosi.

L’ostracismo e la condanna morale da parte di coloro che fanno parte del nostro ambiente sociale quotidiano provocano sensi di colpa. Si tratta di risposte automatiche risultanti, in ultima analisi, dall’importanza che riveste l’inserirsi in un gruppo, e che si sono sviluppate nel corso del nostro periodo evolutivo. Ciò è particolarmente vero per le culture individualiste dell’Occidente, dove possedere una buona reputazione al di là dei confini del gruppo di parentela costituisce la base della fiducia e della società civile, mentre una cattiva reputazione condurrebbe all’ostracismo e alla morte evolutiva.

Inoltre, in base alla mia esperienza appare interessante il fatto che le decisioni dei dipartimenti universitari vengono prese per consenso comune, come avviene tipicamente in gruppi egualitari come la cultura scandinava, di cui si parlerà nel seguito. Chi va contro l’opinione comune rischia perciò l’ostracismo.

Come mostrano questi esempi, essere in grado di difendere razionalmente le idee e gli atteggiamenti che provocano una condanna morale non è sufficiente per disinnescare le complesse emozioni negative causate da questa forma di ostracismo. Si potrebbe pensare che così come le aree di controllo prefrontali possono inibire gli impulsi etnocentrici che hanno origine nella struttura subcorticale, noi potremmo essere in grado di inibire questi primitivi sensi di colpa. Dopo tutto, i sensi di colpa hanno origine, in ultima analisi, da atteggiamenti assolutamente normali di identità e di interesse etnico che sono stati delegittimati come risultato del definitivo fallimento del periodo della difesa etnica di cui si è parlato nel capitolo 6, fallimento che si è tradotto nell’instaurazione della cultura della critica in America e in tutto l’Occidente. Potrebbe avere un effetto terapeutico comprendere che molte delle persone che hanno creato questa cultura hanno conservato un forte senso della propria identità e dei propri interessi etnici. E potrebbe aiutare a placare i sensi di colpa comprendere che questa cultura è oggi sostenuta da persone alla ricerca di vantaggi materiali e di approvazione psicologica a scapito dei loro stessi legittimi interessi a lungo termine. Stante la forte influenza ebraica nell’instaurazione di questa cultura126, i sensi di colpa non sono altro che il risultato di uno stato di conflitto etnico che si compie sul piano dell’ideologia e della cultura invece che sui campi di battaglia.

Liberarsi dalla colpa e dalla vergogna, comunque, non è certo un processo facile. Per noi bianchi la psicoterapia incomincia con una comprensione esplicita di ciò che ci permette di agire nel nostro interesse, anche se non riusciamo a controllare del tutto i sentimenti negativi che tale agire genera.

Il teorico evoluzionista Robert Trivers ha proposto che l’emozione della colpa è un segnale inviato al gruppo che la persona cambierà atteggiamento e che in futuro si comporterà secondo le norme del gruppo. La vergogna, d’altro canto, funziona come un modo di manifestare sottomissione nei confronti di individui posti più in alto nella scala gerarchica del dominio127. Da questo punto di vista una persona incapace di provare vergogna o senso di colpa anche nel caso di palesi trasgressioni è, letteralmente, sociopatica, qualcuno cioè che non desidera conformarsi alle norme del gruppo. Come osservato in precedenza, i sociopatici si collocano all’estremo inferiore della scala della coscienziosità, e vi furono senza dubbio forti pressioni selettive contro gli individui sociopatici all’interno dei piccoli gruppi nei quali ci siamo evoluti, specialmente tra le popolazioni individualiste dell’Occidente; come si è visto, i bianchi mostrano in effetti livelli di coscienziosità più elevati rispetto agli altri gruppi, con l’eccezione degli asiatici orientali. Gli individui collaborativi e con una reputazione eccellente hanno avuto la meglio.

 

La dissonanza cognitiva come forza di inerzia psicologica.

Da quando la sinistra ha stabilito la propria egemonia culturale in tutto l’Occidente, le persone sono state sostanzialmente educate dalla società a vedere il mondo attraverso le lente progressista, una visione del mondo cioè nella quale i bianchi, e specialmente i maschi bianchi, considerano se stessi come gli oppressori, nel passato, dell’intera gamma dei gruppi identitari che formano la coalizione dei danneggiati: negri, nativi americani, latinos, ebrei, donne, non conformisti in materia sessuale, ecc. Una volta stabilitasi, questa forma mentis fatta di credenze progressiste è difficile da cambiare.

La ricerca sulla dissonanza cognitiva ha mostrato che le persone con forti credenze, specialmente quelle legate alla loro identità personale, spesso non le cambiano, quand’anche siano messe di fronte a prove contrarie128. Fondamentalmente, il cervello vuole evitare il conflitto delle idee e spesso utilizza un ragionamento illogico e altri meccanismi per conservare un senso di comfort psicologico. Ad esempio, quando vengono messi di fronte a prove contrarie (come ad esempio i dati che mostrano le differenze razziali di origine genetica per quanto riguarda l’intelligenza) gli individui possono ignorare tali dati allo scopo di conservare un’immagine di sé come persone moralmente rette. Inoltre, le persone tendono a dimenticare quei fatti che sono in contrasto con le loro credenze e ad accettare argomentazioni deboli che sono in accordo con la loro visione del mondo, respingendo le argomentazioni più forti e i dati che la contraddicono. Possono focalizzare la loro attenzione non sulla prova in sé, ma sulla persona che l’adduce, mettendo in dubbio le sue motivazioni e accettando argomentazioni di colpevolezza per associazione128a. Appare chiaro come la mente sia concepita per compiere grandi sforzi pur di evitare la sofferenza psicologica129.

Questo fatto pone una sfida a chi voglia indurre i bianchi progressisti e la maggior parte di quelli  conservatori ad accettare idee come quelle che i bianchi hanno legittimi interessi in quanto gruppo, che la razza è una realtà concreta, che l’immigrazione di non-bianchi rappresenta sul lungo periodo un disastro per i bianchi, ecc.130.

Ciò è particolarmente vero stante il meccanismo, esaminato in precedenza, che promuove l’inerzia all’interno della cultura imposta dalla sinistra. La non conformità comporta dei costi che possono essere evitati respingendo le informazioni contraddittorie. E dato il controllo che i media maggioritari esercitano sulle informazioni presentate al pubblico riguardo alla razza, ecc., le persone possono facilmente evitare quelle che confliggono con la loro visione del mondo. Ciò spiega perché aziende della comunicazione come YouTube, Facebook e Twitter rimuovono tale genere di informazioni da internet o per lo meno ne limitano la diffusione. E mostra quanto sia importante creare una cultura esplicita nella quale l’identità e gli interessi dei bianchi siano legittimi.

 

Meccanismi psicologici per un rinascimento bianco.

 

In generale, gli individualisti sono meno etnocentrici degli altri, ma ciò non implica che siano incapaci di etnocentrismo. Ha senso a priori supporre che la selezione naturale abbia agito in modo da rendere gli esseri umani (anche i bianchi individualisti) almeno in una certa misura etnocentrici. Frank Salter presenta un forte argomento a favore dell’adattatività dell’etnocentrismo131. I differenti gruppi etnici umani e le diverse razze sono stati separati tra loro per migliaia di anni e nel corso di questo tempo hanno sviluppato alcuni tratti genetici caratteristici. Queste tratti peculiari costituiscono un deposito di interesse genetico. In altre parole, le persone hanno un interesse nel loro gruppo genetico allo stesso modo in cui i genitori hanno un interesse genetico nei loro figli.

Prendendosi cura dei figli, i genitori si assicurano che i loro particolari geni vengano trasmessi alla prossima generazione. Difendendo i loro interessi etnici, le persone fanno la stessa cosa, assicurandosi che l’unicità genetica del loro gruppo etnico venga trasmessa alle generazioni future. Quando due genitori appartenenti ad un particolare gruppo etnico hanno successo nell’allevare i propri figli, anche il loro gruppo etnico ne beneficia, perché l’unicità genetica di quel gruppo viene perpetuata in quanto parte dell’eredità genetica dei figli. Inoltre, quando un gruppo etnico ha successo nel difendere i propri interessi, anche i singoli membri di quel gruppo ne traggono beneficio, perché la peculiarità genetica che essi condividono con gli altri membri del gruppo viene trasmessa. Ciò si verifica anche per gli individui che non hanno figli: una persona ha successo sul piano genetico quando il suo gruppo etnico, nella sua interezza, prospera.

Anche ad uno sguardo superficiale, la documentazione storica mostra che il conflitto tra gruppi tribali biologicamente collegati è stato comune nel corso della storia. La difesa collaborativa presso i popoli tribali è un fatto universale e antico, mirante ad incrementare l’adattamento genetico di coloro che agivano per promuovere gli interessi del loro gruppo. In simili circostanze sarebbe stato strano, in effetti, se la selezione naturale non avesse modellato la mente umana predisponendola all’etnocentrismo. Certamente, questo fatto non ci dice quali meccanismi psicologici si siano effettivamente evoluti per promuovere l’etnocentrismo o come tali meccanismi possano essere controllati da meccanismi inibitori collocati nella corteccia prefrontale. Per stabilire ciò dobbiamo rivolgersi alla ricerca empirica.

Dall’esame della letteratura che ho compiuto, ho ricavato la conclusione che esistano dei meccanismi universali che soggiacciono all’etnocentrismo132:

 

  • Meccanismi di somiglianza genetica: le persone si raggruppano di preferenza con altre persone geneticamente simili. Gli amici, i coniugi e gli altri individui con i quali intessiamo alleanze sono più simili a noi delle persone scelte a caso; a parità di altre cose, ciò accresce i vantaggi di tali relazioni e riduce i rischi133. Questa è la spiegazione più probabile dell’identità bianca implicita.

 

  • Come osservato in precedenza, vi sono buone prove del fatto che i processi dell’identità sociale siano un adattamento biologico importante ai fini della difesa del gruppo. Ma poiché non corrispondono in generale a differenze genetiche tra i gruppi, non sono veramente utili alla difesa etnica, a meno che i gruppi non siano già formati su base etnica, come nelle società tribali tradizionali.

 

  • I gruppi composti da tifosi sportivi e simili possono innescare processi di identità sociale, ma non producono le profonde emozioni che sorgono nei gruppi etnici, religiosi e patriottici. Non è affatto inconsueto che delle persone compiano l’estremo sacrificio a vantaggio di questi gruppi. La migliore spiegazione di ciò è che gli esseri umani hanno una tendenza naturale a suddividersi in gruppi interni e gruppi esterni sulla base di queste categorie [etnia, religione, patria, n. d. t.], per cui tendono ad avere legami più forti con gruppi del genere piuttosto che, ad esempio, col loro club filatelico. Razza ed etnicità hanno tutte le caratteristiche di un modulo sviluppatosi per via evolutiva. Ad esempio, l’elaborazione delle differenze razziali ed etniche avviene nel modo rapido, inconscio e automatico134 che è caratteristico del processo implicito ed è un aspetto distintivo dei moduli evolutivi.

 

In ogni caso, qualunque sia la forza dei meccanismi che stanno alla base all’etnocentrismo, poste le tendenze dei bianchi all’individualismo nel contesto dell’attuale clima culturale dell’Occidente che denigra l’etnocentrismo bianco, tali meccanismi si sono fino ad ora rivelati insufficienti a sostenere una difesa etnica dei bianchi. Tuttavia, la cultura attuale contiene anche degli aspetti che di fatto possono rafforzare l’etnocentrismo bianco.

 

La consapevolezza del rischio di diventare una minoranza alimenta l’etnocentrismo bianco.

Quanto precede ha esaminato i motivi per cui il raggiungimento di una diffusa accettazione, da parte dei bianchi, di una cultura esplicita della propria identità e dei propri interessi sia un percorso in salita. Tuttavia esistono anche meccanismi che potrebbero portare ad una crescita del senso di identità dei bianchi negli anni a venire. La ragione fondamentale sta nella trasformazione demografica risultante dalla massiccia immigrazione di non-bianchi all’interno di paesi che erano interamente bianchi o che, come gli Stati Uniti (dove i bianchi erano il 90% nel 1960) avevano una maggioranza bianca politicamente dominante. Questa trasformazione, nella quale è evidente come il potere politico dei bianchi stia declinando man mano che essi si avviano a diventare una minoranza, può di per sé innescare dei meccanismi difensivi di identità bianca implicita e dei comportamenti come la fuga dei bianchi di cui si è parlato in precedenza.

Gli individualisti sono meno portati, per natura, ad essere etnocentrici, e la sinistra ha creato una cultura che spinge i bianchi ad inibire le loro manifestazioni di etnocentrismo, incoraggiando al contempo quelle dei non-bianchi. Poiché i media sono dominati dalla sinistra e perfino quelli conservatori sono terrorizzati dall’idea di apparire come i difensori degli interessi dei bianchi, i messaggi espliciti che possano incoraggiare i bianchi a preoccuparsi e a temere un futuro nel quale saranno una minoranza sono rari. In effetti i media menzionano raramente (se mai lo fanno) il fatto che i bianchi sono ben avviati sulla strada che li porterà a diventare una minoranza. E questo per una buona ragione: i bianchi degli Stati Uniti e del Canada che vengano messi di fronte ad esplicite previsioni riguardanti un’epoca nella quale essi non saranno più in maggioranza tendono a sentirsi irritati e impauriti. Ed è anche più probabile che si identifichino come bianchi e che siano solidali con gli altri bianchi135.

In altri termini, se ho evidenziato la capacità che i centri cerebrali superiori hanno di inibire l’etnocentrismo, i messaggi espliciti che segnalano come il proprio gruppo etnico sia minacciato hanno invece il potere di innescare l’etnocentrismo. Ciò riveste una particolare importanza per il fatto che molti bianchi vivono lontani dalle aree che stanno subendo il mutamento demografico. La loro vita quotidiana, che si svolge in un ambiente sostanzialmente bianco, non è cambiata, mentre centri come Los Angeles, Sydney, Toronto e Londra sono cambiati al di là di ogni immaginazione rispetto a com’erano 50 anni fa. Una conclusione ovvia è che gli attivisti bianchi debbano fare appello ai centri cerebrali superiori delle persone bianche tramite messaggi espliciti che mettano in evidenza tali trasformazioni.

 

Le espressioni di odio nei confronti dei bianchi promuovono l’etnocentrismo bianco.

Un’altra forza che può rendere i bianchi più disposti a raccogliersi in gruppi coesi è la stridente retorica antibianca che è attualmente diffusa nei media d’élite e nella cultura accademica di tutto l’Occidente. Gli esempi sono molti. E’ attualmente cosa comune, per la sinistra, concettualizzare la storia americana come nulla più che l’espropriazione degli indiani d’America e la riduzione in schiavitù degli africani, le leggi Jim Crow del Sud135a, ecc., col risultato che la storia americana viene decostruita in una prospettiva anti-bianca; il testo di Howard Zinn, A People’s History of the United States, 1492-Present ne rappresenta un classico esempio136, 136a. I personaggi storici americani vengono delegittimati, le loro statue rimosse, ecc.

Recentemente il New York Times ha assoldato Sarah Jeong, un’asiatica con un passato di messaggi su Tweeter diretti contro i bianchi; la collaboratrice della medesima testata, Michelle Goldberg, si è rallegrata per il fatto che i bianchi stiano per essere sostituiti [da altre razze. n. d. t.] in Georgia; un professore di lettere classiche di Princeton ha proposto di impedire ai maschi bianchi di pubblicare lavori nel suo campo di studi; Don Lemon, della CNN, ha affermato che i maschi bianchi costituiscono la maggior minaccia terroristica per l’America137.

Appare evidente come, nell’America post-Obama, lo Zeitgeist anti-bianco sia uscito dal vaso di Pandora… A causa di un’immigrazione senza precedenti e di esperimenti progressisti di natura fatalista, non c’è paese nel quale le correnti culturali anti-bianche non stiano crescendo. Non si immaginava che le cose andassero in questo modo: l’atteggiamento debole, il trasferimento della ricchezza, il trattamento preferenziale, l’apertura dei confini e la sistemazione degli immigrati avrebbero dovuto produrre sentimenti di accoglienza, esiti di eguaglianza e cecità razziale…

Con gli anni 1990 l’intera galassia della moralità cristiana e della responsabilità civile nello spazio pubblico era stata secolarizzata e compressa in un unico mandato. Alla generazione dei millennials137a è stato insegnato fin dall’infanzia che il più grande bene morale consisteva nel sostenere l’autostima dei nonbianchi. In epoche precedenti virtù come il coraggio, la modestia, la cavalleria, il valore e la fede erano ciò tramite cui i giovani adulti venivano incoraggiati a distinguersi, ma per i millennials ciò che conta è

 

la capacità e la disponibilità a muoversi in quel mutevole campo minato che consiste nel sapere quando e come mettersi al servizio dell’autostima dei non-bianchi.

Nel corso degli untimi trent’anni i conservatori erano tutti presi dalla costruzione di una cultura antisocialista, mentre la sinistra si impegnava a spingere il proprio cavallo di Troia e a scatenare una pestilenza di un tipo completamente diverso. Forse, nel loro intimo, molti conservatori sapevano che la maledizione anti-bianca sarebbe emersa, ma erano troppo codardi per affrontarla138.

 

Troppo codardi, in effetti, più o meno come il professore che non intendeva discutere l’influenza ebraica sulla politica mediorientale.

Quanto segue prenderà in esame diversi meccanismi di origine evolutiva che agiscono a livello implicito e inconscio e che potrebbero agire come forza compensatrice rispetto alla cultura della sinistra.

 

I processi dell’identità sociale.

All’inizio di questo capitolo ho esaminato le ricerche sui processi dell’identità sociale che mostrano come l’identificazione con il proprio gruppo aumenti in presenza di una competizione tra gruppi, aspetto che è parte dell’argomento che spiega perché i processi dell’identità sociale siano un tratto universale prodotto per via evolutiva. Poiché la sinistra ha adottato un programma che mira ad incoraggiare le politiche identitarie delle sue componenti razziali, religiose e sessualmente non conformi, ne risulta che i confini tra i gruppi sono divenuti più evidenti, innescando così meccanismi di pregiudizio positivo nei confronti del gruppo di appartenenza e di pregiudizio negativo nei confronti dei gruppi estranei.

Come osservato in precedenza, la consapevolezza del rischio di divenire una minoranza e l’ampia diffusione della retorica anti-bianca sono fatti che vengono elaborati dai centri cerebrali superiori. Il risultato è che nell’Occidente multiculturale i bianchi si sentono sempre più minacciati. Questa sensazione di essere esposti a una minaccia alimenta la nostra psicologia dell’identità sociale di origine evolutiva. E’ perciò prevedibile che i bianchi, in America come nel resto dell’Occidente, si raccoglieranno in un gruppo coeso sulla base di questi processi.

I bianchi statunitensi si stanno radunando attorno al Partito Repubblicano, mentre le identità e le associazioni implicitamente bianche continuano ad essere diffuse. Tuttavia rimangono poco diffuse le affermazioni esplicite di identità bianca, testimonianza dell’individualismo e della relativa mancanza di etnocentrismo dei bianchi, verosimilmente convergenti con gli effetti dei media, del sistema educativo, delle minacce di ostracismo, ecc. Secondo un sondaggio compiuto nel 2019 dal Pew Research Center, i bianchi come gruppo si collocano di gran lunga all’ultimo posto tra coloro che affermano che la razza sia estremamente importante (5%) o molto importante (10%) per la loro identità, con i bianchi di età inferiore ai trent’anni che si trovano  al livello più basso in assoluto a tale riguardo139. Comunque, tra il 2017 e il 2019 sono aumentati i sostenitori del Partito Repubblicano (la cui ampia maggioranza è costituita da bianchi) che si dichiarano d’accordo sul fatto che «se l’America è troppo aperta alle altre popolazioni del mondo rischiamo di perdere la nostra identità nazionale» (dal 48% al 57%) tra cui gli uomini, le persone anziane e quelle meno istruite sono coloro che maggiormente esprimono tale atteggiamento.

Ancor più sorprendente è stata l’improvvisa impennata di tali sentimenti: «a partire da settembre [2018] la percentuale di repubblicani che affermano che l’America rischierebbe di perdere la propria identità qualora si aprisse troppo è cresciuta di 13 punti percentuali, mentre quella di coloro che vedono l’apertura del paese agli altri come un aspetto essenziale è scesa di 10 punti»140. Almeno una parte di questo fenomeno si spiega probabilmente con la retorica del presidente Trump sull’immigrazione, che ha posto tale questione al centro e in primo piano nella politica americana e ha provocato una valanga di ingiurie da parte della sinistra.

Questi risultati rappresentano certamente delle stime conservative, dato che i bianchi sono restii a manifestare, a chi effettua un sondaggio, opinioni che sono messe al bando dalle élite dei media, della cultura politica e del sistema educativo.

E’ perciò interessante il fatto che altri dati del medesimo sondaggio indichino che una consistente percentuale di bianchi americani (61%) ha una percezione del destino che l’accomuna alle altre popolazioni bianche, e che tale atteggiamento sia di fatto più comune tra i giovani adulti (dell’età di 30 anni o inferiore) che tra gli adulti più anziani (età superiore ai 50 anni) come pure tra i bianchi che hanno un’istruzione più elevata141. Il senso di un destino comune è una misura indiretta dell’identità bianca che è probabilmente più accurata rispetto alle domande dirette concernenti tale identità o il desiderio di una maggiore diversità, dato che questo sentimento non è stato esplicitamente condannato dal sistema mediatico e da quello educativo. Il senso di un destino condiviso è un forte indicatore dell’identità di gruppo; nella sua manifestazione estrema esso è stato messo in relazione col martirio e con altre forme di comportamento autosacrificale a vantaggio del gruppo142. Come si dice abbia affermato Benjamin Franklin al momento della firma della Dichiarazione d’Indipendenza, «dobbiamo in effetti lottare tutti uniti, o saremo certamente appesi uno per uno».

I capitoli 3-5 del mio libro La separazione e i suoi inconvenienti sviluppano l’argomento che la competizione tra gruppi sia stata al centro dei principali esempi storici di antisemitismo: lo sviluppo di un antisemitismo istituzionalizzato nell’impero romano del IV secolo, l’Inquisizione Iberica e il fenomeno dell’antisemitismo nazionalsocialista nel periodo 1933 – 1945 in Germania143. Il denominatore comune di questi fenomeni è che essi implicavano un forte senso di coesione di gruppo in contrapposizione al giudaismo, e io ritengo che ciascuno di essi possa essere studiato con profitto come una reazione al giudaismo inteso come strategia evolutiva di gruppo di elevato successo. In base alle ricerche sull’identità sociale esaminate in precedenza, ci si può aspettare che forti strategie di gruppo abbiano provocato strategie opposte che, sotto molti aspetti, hanno rispecchiato l’immagine dei gruppi ebraici che esse contrastavano: socializzazione in base all’identità di gruppo, punizione dei disertori, senso di superiorità del proprio gruppo e di inferiorità degli altri, senso di un destino comune.

Il significato di tutto ciò nel contesto attuale è che nella misura in cui i bianchi vedono il loro potere diminuire e osservano come nei mezzi di comunicazione maggioritari e nell’azione degli attivisti si manifesti in maniera crescente un odio verso di loro e verso la loro storia, essi si identificheranno sempre più come bianchi e formeranno un gruppo più coeso e opposto alle forze schierate contro di loro. Storicamente, questo fenomeno è spesso sfociato in violenti conflitti tra gruppi.

 

L’estremismo della cultura scandinava: egualitarismo, fiducia, conformismo e processi decisionali basati sul consenso.

 

Sembra opportuno concludere un capitolo dedicato alla psicologia delle comunità morali con un esame dell’estremismo della cultura politica scandinava. Nel capitolo 1 si è affermato che i Paesi Scandinavi si collocano ad un estremo del clinale genetico nordovest – sudest, con livelli più elevati di geni derivati dai CR settentrionali rispetto ad altre parti dell’Europa occidentale. Il capitolo 3 ha descritto queste culture di CR come caratterizzate da un individualismo egualitario, mentre il capitolo 4 ha descritto i modelli familiari scandinavi come modelli estremi nell’ambito dell’Europa occidentale.

Sebbene tutte le società di derivazione europea occidentale stiano subendo un’immigrazione non-bianca che ha raggiunto il livello di una sostituzione di popolazioni, vi sono pochi dubbi sul fatto che la Scandinavia, e specialmente la Svezia, si collochino in una posizione estrema quanto al favore con cui accolgono tale sostituzione dei loro popoli e delle loro culture. Come altrove in Occidente, un ruolo di primo piano in queste trasformazioni è stato giocato dagli attivisti ebrei e dalla proprietà ebraica dei mezzi di informazione144, ma gli scandinavi sembrano particolarmente favorevoli a tali trasformazioni. In effetti Noah Carl, analizzando i dati di un sondaggio dell’Unione Europea del 2015, ha trovato che gli scandinavi erano l’ultimo gruppo quanto ad etnocentrismo, misurando questo tramite parametri quali l’approvazione al fatto che i propri figli abbiano relazioni amorose con individui appartenenti ad altri gruppi etnici, con minoranze sessuali e con persone disabili145. I soggetti intervistati in Gran Bretagna e in Olanda erano anch’essi molto tolleranti, mentre i paesi dell’Europa orientale si collocavano all’estremo inferiore, dati coerenti col fatto che gli europei nordoccidentali sono i più tolleranti.

Le comunità morali della Scandinavia, basate sulla reputazione, sono state fortemente egualitarie. Le “leggi di Jante” scandinave sono paradigmatiche: 1. Non pensare di essere qualcosa; 2. Non pensare di valere quanto noi; 3. Non pensare di essere più intelligente di noi; 4. Non immaginare di essere migliore di noi; 5. Non pensare di saperne più di noi; 6. Non pensare di essere più grande di noi; 7. Non pensare di essere capace di qualcosa; 8. Non ridere di noi; 9. Non pensare che a qualcuno importi di te; 10. Non pensare di poterci insegnare qualcosa146. In breve, nessuno deve innalzarsi al disopra degli altri. Un simile egualitarismo è tipico dei gruppi di CR di tutto il mondo147 ed è antitetico rispetto all’ideale aristocratico degli IE.

Un egualitarismo estremo ha come conseguenza elevati livelli di conformismo e di ansietà sociale. Gli individui temono l’ostracismo sociale nel caso in cui violino le norme egualitarie e si distinguano rispetto alla massa, un fenomeno che ha avuto un ruolo primario nel creare un consenso pubblico favorevole all’immigrazione di massa e al multiculturalismo. Le decisioni vengono prese mediante consenso, il che implica che gli individui detestino distinguersi dal gruppo. In Svezia specialmente non esiste un pubblico dibattito sui costi e i benefici dell’immigrazione; gli scettici, generalmente, rimangono in silenzio, temendo l’emarginazione e la disapprovazione.

Riflettendo questo modello, la società scandinava contemporanea, in generale, ha una tradizione di redditi relativamente bassi e differenze sociali poco marcate, che include l’assenza del servaggio durante il periodo medievale (cfr. capitolo 4). Un recente studio antropologico sui CR ha rilevato che la diseguaglianza economica tra loro era simile a quella della moderna Danimarca148. Il capitolo 4 ha esaminato l’individualismo dei modelli familiari scandinavi, che comprendono rapporti relativamente egualitari tra i coniugi: un caso estremo anche nel contesto dell’Europa occidentale.

Le comunità morali basate sulla reputazione portano pertanto ad un pensiero di gruppo, nella misura in cui gli individui si fidano dell’onestà delle opinioni altrui e coloro che si discostano dalle norme del gruppo vengono emarginati. Un avvocato svedese, commentando un caso giudiziario in cui una persona innocente era stata dichiarata colpevole di un crimine, osservò come molte persone fossero state coinvolte nella decisione e tutte si fossero trovate d’accordo su quello che doveva poi rivelarsi un verdetto ingiusto:

 

Quando le medesime persone prendono parte a tutte o alla maggior parte [delle decisioni] viene a formarsi un pensiero di gruppo […] Una forte fiducia reciproca tra le persone è spesso descritta come una delle migliori risorse della Svezia, [ma] essa non può sostituire un approccio critico ad accuse gravi, anche quando si tratti di autoaccuse [cioè di una falsa confessione da parte dell’accusato]149.

 

Una forte fiducia sociale è in effetti una grande risorsa della Svezia e di altri paesi con una consistente popolazione nordica, fattore che porta a società basate sul merito individuale (un aspetto della reputazione) e a bassi livelli di corruzione. Tuttavia, come nell’esempio citato, essa può portare al formarsi di un pensiero di gruppo nella misura in cui gli individui che si distinguono o che dissentono in qualunque modo dalle norme del gruppo vengono ostracizzati; un aspetto, questo, delle leggi di Jante (o della sindrome dell’alto papavero in Nuova Zelanda, cfr. il capitolo 7). Non è solo l’eccellenza ad essere punita, ma ogni deviazione dalle norme del gruppo, inclusa quella rispetto alle opinioni condivise dai suoi membri.

I gruppi egualitari, dunque, prendono le decisioni tramite consenso e non dall’alto in basso, in modo autoritario. Una volta che sia stata presa una decisione in base al consenso, i dissenzienti vengono visti come soggetti ostinati che la ignorano deliberatamente e che di conseguenza finiscono per perdere il loro status all’interno del gruppo.

Forti tendenze egualitarie possono pertanto portare facilmente a potenti forme controllo sociale (formale o informale) sui comportamenti, concepite per garantire che gli individui non divergano da una mentalità di consenso, come si è visto a proposito delle culture di derivazione puritana che divennero dominanti in Inghilterra e ebbero una forte influenza sugli Stati Uniti (cfr. il capitolo 6). Pertanto, sebbene le culture scandinave siano state descritte come le più individualiste in termini di funzionamento familiare (capitolo 4) non sorprende che esse possano esercitare forti controlli sul comportamento individuale al fine di assicurare la conformità alle norme di una comunità morale.

Queste culture si caratterizzano dunque sia per l’egualitarismo che per l’imposizione delle norme sociali (concettualizzate in termini morali). La Svezia sembra rappresentare il caso limite di queste tendenze. Mentre il capitolo 3 ha esaminato l’egualitarismo svedese, qui vengono descritti i forti controlli sociali che hanno virtualmente messo al bando ogni discussione sugli aspetti negativi dell’immigrazione e del multiculturalismo, fenomeni che godono del sostegno dell’élite svedese.

La Svezia si è dichiarata “una superpotenza umanitaria” la cui ideologia comporta che nessun sacrificio compiuto dagli svedesi a vantaggio degli immigrati del Terzo Mondo possa considerarsi troppo grande. In base alla politica ufficiale gli svedesi devono fare sacrifici al fine di assicurare un’adeguata collocazione al continuo afflusso di immigrati, compresa la riconversione delle chiese ad uso abitativo (mentre al contempo vengono costruite moschee). Il governo acquista praticamente qualunque struttura stia in piedi per ricavarne alloggi per gli immigrati, e vi sono proposte di confisca delle abitazioni vuote per destinarle “ad un bene superiore”. Contemporaneamente, per quanto riguarda l’assegnazione degli alloggi gli svedesi hanno una priorità inferiore rispetto agli immigrati e migliaia di loro non riescono a trovare alloggio, situazione particolarmente difficile per i giovani, in particolare per quelli che intendono metter su famiglia. I personaggi ai vertici della politica dichiarano apertamente che la Svezia non appartiene agli svedesi, che questi e la loro cultura sono noiosi, ovvero che gli svedesi non hanno una cultura150.

Questo fenomeno rappresenta una violazione della generale osservazione secondo la quale le persone sono meno inclini a contribuire al bene comune (p. es. alloggi, cure mediche) di coloro che non hanno il loro stesso aspetto151 ed è un ulteriore indicatore di scarsissimo etnocentrismo. Le società europee che inaugurarono i programmi nazionali di assistenza sanitaria lo fecero quando erano razzialmente omogenee. Al di là della lunga tradizione di autonomia individuale che sta alla base dell’autopercezione degli americani, una probabile ragione per cui un’assistenza sanitaria generalizzata ha conosciuto uno sviluppo così lento negli Stati Uniti è che essi possiedono, storicamente, un’ampia popolazione negra cui si aggiunge, negli anni più recenti, lo tsunami multiculturale venuto dopo il 1968152.

Un aspetto critico del successo del multiculturalismo in Svezia è che gli svedesi hanno il terrore di violare il consenso morale che circonda l’immigrazione per timore di venire emarginati e di perdere il lavoro. Sono coinvolti in un pensiero di gruppo che pretende lealtà verso una comunità morale definita dai media e dalla cultura politica. In effetti, considerata la distanza genetica in gioco, questa è una forma estrema di ciò che gli evoluzionisti definiscono “punizione altruistica”, ossia la disponibilità a punire il proprio stesso popolo e sacrificarlo sull’altare di un’idea morale per paura di violare le norme della comunità morale (cfr. il capitolo 3, con ulteriori esempi nel capitolo 6).

La giornalista Ingrid Carlqvist ha commentato il silenzio imposto a qualunque critica al  multiculturalismo, in particolare nei mezzi di informazione legalmente riconosciuti. La violazione di questo silenzio provoca un’indignazione morale che mira a produrre isolamento e ostracismo; in altre parole, siamo in presenza di un pensiero di gruppo socialmente imposto per cui le persone sono terrorizzate all’idea di avere opinioni dissenzienti:

 

La situazione in Svezia è di gran lunga peggiore che in Danimarca [che, come osservato nel capitolo 1, è alquanto differente dalla Svezia sul piano genetico]. In Svezia nessuno parla dei problemi dell’immigrazione, della morte del progetto multiculturale o dell’islamizzazione / arabizzazione dell’Europa. Chi lo fa viene immediatamente definito razzista, islamofobo o nazista. Così sono stata definita io da quando ho fondato in Svezia la Free Press Society. Il mio nome è stato trascinato nel fango da grandi giornali come Sydsvenskan, Svenska Dagbladet e addirittura dal giornale del mio sindacato, The Journalist153.

 

Questo fenomeno non ha niente a che fare con il cristianesimo. La Svezia è il paese più secolarizzato del mondo. Le sue élite sono ostili al cristianesimo e più che felici di donare chiese cristiane ai nuovi arrivati non cristiani, ovvero di distruggerle per edificare alloggi in cui accoglierli. Si tratta, piuttosto, di una nuova religione secolare del consenso morale. Si comportano come i puritani e i quaccheri di cui si è parlato nei capitoli 6 e 7, ma senza connotazioni religiose. Certamente, assistiamo al medesimo fenomeno in tutto l’Occidente, per quanto in misura minore. Le società occidentali hanno avuto la caratteristica peculiare di basarsi su un’elevata fiducia e sulla reputazione, un corollario essenziale della psicologia dell’individualismo occidentale.

Per ironia forse, una delle principali osservazioni sul multiculturalismo (che abbiamo fatto in precedenza) è che esso erode la fiducia non soltanto verso i soggetti etnicamente estranei, ma anche nei confronti degli autoctoni. Possiamo dunque aspettarci che in futuro gli svedesi, come pure altri occidentali, divengano meno fiduciosi, ma per l’epoca in cui ciò avverrà gli svedesi saranno già stati trasformati in una società disomogenea, incline alla conflittualità interna e poco disponibile a contribuire al bene comune. Quando la fiducia sarà scomparsa, gli svedesi potranno forse essere più disposti a prendere posizione contro il consenso suicida.

Il pensiero di gruppo comporta l’incapacità di concentrarsi sulla situazione concreta invece di guardare a versioni idealizzate della realtà che rafforzano il consenso. Il pensiero di gruppo rende perciò difficile mettere in discussione i mantra multiculturali del tipo “la diversità è la nostra forza” prendendo in considerazione i dati della ricerca sugli effetti dell’importazione della diversità etnica e religiosa. Nel caso della Svezia la ricerca indica che, come già osservato per gli Stati Uniti, gli svedesi, soprattutto quelli con un elevato livello di istruzione e relativamente benestanti, sono i primi a fuggire la diversità, tipicamente senza cercare di metterne in discussione il valore.

 

Abbiamo trovato quello che si definisce un “punto critico” che si colloca introno a un valore del 3-4%, dice Emma Neuman, economista e ricercatrice presso la Linneuniversitet. Quando in una certa zona residenziale gli immigranti extraeuropei raggiungono quella quota percentuale, gli autoctoni svedesi cominciano a trasferirsi altrove […].

Questo fenomeno non riguarda gli immigrati in generale. Quelli che provengono dai paesi europei non provocano un effetto del genere, ciò accade solo con gli extraeuropei. La cosa ricorda il fenomeno della fuga dei bianchi negli Stati Uniti, dove i bianchi abbandonano le zone residenziali nelle quali affluiscono molti negri154.

 

Malgrado questo comportamento implicitamente nativista, è improbabile che questi svedesi manifestino pubblicamente un dissenso rispetto all’opinione dominante che proibisce ogni discussione circa gli effetti dell’importazione della diversità extraeuropea. La questione se gli svedesi traggano o meno un beneficio da una società sempre più segregata, culturalmente e razzialmente divisa e lacerata da conflitti non viene mai sollevata pubblicamente155.

 

Il caso speciale della Finlandia.

Ho osservato nel capitolo 1 come i finlandesi, particolarmente nella parte orientale del loro paese, siano geneticamente separati rispetto al resto dell’Europa occidentale. E’ interessante il fatto che la società finlandese mostri un fenomeno simile alle leggi di Jante di cui si è detto in precedenza. Edward Dutton osserva che un fattore che ha contribuito alla mancata condanna pubblica di una recente epidemia di violenze carnali compiute da immigrati è stato il desiderio di non distinguersi dalla massa. Come i loro vicini scandinavi, i finlandesi mostrano un elevato grado di conformismo e di ansietà sociale e si preoccupano di conservare una buona reputazione nella loro comunità morale156. Non vogliono dissentire dal consenso morale che definisce la loro comunità. Venire ostracizzati dalle piccole comunità della vita quotidiana nelle quali i finlandesi si sono evoluti voleva dire morte certa sul piano evolutivo.

Allo stesso tempo la società finlandese tradizionale, specialmente nella Finlandia orientale dove l’influenza genetica e culturale svedese è relativamente scarsa, non ha evidentemente costituito un esempio del sistema familiare europeo nordoccidentale di cui si è parlato nel capitolo 4157. La struttura familiare era patriarcale: i padri controllavano i figli e determinavano i matrimoni. «Il capofamiglia decideva quando suddividere la propria fattoria, quando affidarla a un figlio e quando ritirarsi». Sebbene potessero lasciare la fattoria di famiglia con una porzione di eredità uguale a quella dei fratelli, i figli maschi tendevano a rimanere in famiglia; il più anziano diventava il patriarca mentre le figlie andavano spose presso altre case. Nella Finlandia orientale, nella seconda metà del XVIII secolo, un buon 70% delle famiglie era di tipo esteso o multiplo, quota che saliva all’84-90% tra i contadini. Questo modello è notevolmente simile a quello osservato nella Francia meridionale e nell’Europa sudorientale e contrasta con quelli dell’Europa nordoccidentale, come si è visto nel capitolo 4. Fu soltanto nel XVIII secolo inoltrato che in Finlandia tale modello cominciò a cambiare, come risultato dell’influenza svedese mediata dall’opposizione della chiesa luterana ai clan e ai matrimoni tra consanguinei. La Svezia dominò la Finlandia fino al 1809, caratterizzandosi per un egualitarismo imposto socialmente, secondo il modello delle leggi di Jante.

Questo suggerisce che egualitarismo, ansietà sociale e conformismo si siano evoluti in Finlandia indipendentemente rispetto alle altre parti della Scandinavia, dove tali aspetti sono collegati ad un individualismo estremo nella struttura familiare.

 

Conclusione: l’importanza di modificare la cultura esplicita.

 

Gli evoluzionisti non sono stati adeguatamente sensibili all’enorme divario esistente tra esseri umani e animali, conseguenza dell’intelligenza generale e del sistema della coscienziosità propri degli umani. A un livello molto ampio, il sistema della coscienziosità permette al nostro comportamento di passare sotto il controllo della cultura circostante. Noi compiamo complesse valutazioni sul modo in cui il nostro comportamento e i nostri atteggiamenti si collegano alle gratificazioni e alle punizioni presenti nell’ambiente culturale che ci circonda e veniamo inondati da idee e ideologie che provengono dal mondo accademico e dai mezzi di informazione. Un aspetto importante per l’attuale contesto politico è che i potenziali dissidenti politici devono valutare i rischi che corrono la loro reputazione e il loro sostentamento nella società in cui vivono quotidianamente.

Ma le cose sono ancora più complicate. Coloro che creano i messaggi diffusi dai media maggioritari e dalla cultura accademica non devono necessariamente avere (e spesso non hanno) i medesimi interessi dei destinatari dei messaggi. Ad esempio, è un fatto normale che le immagini diffuse dai media abbiano effetti rilevanti sul comportamento delle persone, anche se queste ne sono spesso inconsapevoli. Queste immagini sono spesso studiate da pubblicitari che tentano consapevolmente di influenzare i destinatari del messaggio secondo fini funzionali agli interessi di chi lo emette e non a quelli del pubblico.

Più importante ancora, i messaggi dei media e la cultura accademica (entrambi dominati dalla sinistra antibianca) sono stati capaci di modellare il dibattito su questioni connesse all’identità e agli interessi dei bianchi. La cultura della critica è diventata la cultura esplicita dell’Occidente, ripetuta all’infinito dai messaggi dei media ma confezionata in maniera differente per persone di differente intelligenza e istruzione e per individui con interessi diversi e appartenenti a differenti subculture. Ai bianchi vengono continuamente presentati dei non-bianchi sofferenti quali candidati più adatti all’immigrazione e all’ottenimento dello status di rifugiato. I bianchi sono esposti a messaggi intesi a produrre in loro sensi di colpa per la storia dello schiavismo e dell’espropriazione dei nativi americani. Un tema di questo capitolo è che attraverso la programmazione delle aree superiori del cervello la cultura esplicita è in grado di controllare le tendenze etnocentriche implicite della popolazione bianca.

Per trovare una via d’uscita da questa palude, dunque, un fattore critico è la cultura esplicita, in particolare rendere legittimo un forte senso dell’identità e degli interessi di gruppo tra i bianchi. La cosa non sarà facile, ma io suggerisco che il primo passo sia di tipo psicologico: affermare esplicitamente, con orgoglio e sicurezza, l’identità e gli interessi dei bianchi e creare comunità nelle quali tali affermazioni siano considerate normali e naturali invece che motivi di ostracismo. Il fatto che tali affermazioni facciano appello alla nostra psicologia implicita è certamente una risorsa. E’ sempre più facile seguire una tendenza naturale che opporvisi. E in ogni caso, opporsi alle nostre naturali tendenze etnocentriche utilizzando il nostro caratteristico controllo inibitorio prefrontale contro i nostri stessi interessi etnici non è altro che un comportamento suicida.

Inoltre, gli imponenti mutamenti demografici che si sono verificati in tutto l’Occidente, parallelamente alla diffusione crescente di temi anti-bianchi da parte dei media maggioritari, sembrano aver reso i bianchi più consapevoli del fatto che i loro interessi non vengono rispettati dalla creazione, in tutto l’Occidente, di società multiculturali e multirazziali dove i bianchi assumono lo status di minoranza. Come si è detto in precedenza, questa retorica anti-bianca ha l’effetto di rendere i bianchi non soltanto più consapevoli della loro identità razziale, ma anche più disposti a coagularsi in una forza politica bianca.

Di conseguenza si sono avuti tentativi sempre più insistenti di intensificare la propaganda a sostegno dello status quo sulle questioni relativa alla razza e all’immigrazione e di mettere a tacere ogni libera discussione sulle stesse. A cominciare in particolare dal momento in cui Trump è stato eletto presidente, l’apparato culturale egemone della sinistra ha accelerato la propria attività e i giornali (The New York Times, Washington Post) e le reti televisive più importanti (CNN, MSNBC) sono diventati ossessivamente antiTrump. Dal momento in cui è crollata l’accusa [contro Trump, n. d. t.] di collusioni con la Russia, i media hanno spostato la loro attenzione, con maggiore enfasi, sul preteso razzismo di Trump.

Tuttavia quando la propaganda non è riuscita ad ottenere l’effetto desiderato di manipolare la nostra psicologia (circostanza che sembra essere sempre più frequente) il sistema ha fatto ricorso alla forza. La repressione delle esternazioni di chi non è d’accordo con la linea ufficiale in materia di razza è divenuta un fatto comune. Queste persone vengono tenute lontane dai campus universitari e sono messe a tacere dalle urla di chi, spesso, provoca tumulti158. Le aziende che gestiscono i social media hanno chiuso gli account dei sostenitori dichiarati della causa dei bianchi, come Jared Taylor, praticando lo shadow banning158a e limitando il numero degli utenti che possono accedere ai loro messaggi. Ai siti internet associati alla Dissident Right [Destra Dissidente, n. d. t.] sono stati negati servizi finanziari da parte della Pay Pal e di società che gestiscono le carte di credito.

Come si è osservato nel capitolo 7, esiste anche una consistente letteratura accademica prodotta da professori di diritto legati alla sinistra che sostanzialmente giustifica l’abrogazione del Primo Emendamento nelle questioni riguardanti la razza159, 159a. Se Hillary Clinton fosse stata eletta presidente e avesse nominato uno o due giudici della Corte Suprema, il Primo Emendamento sarebbe stato demolito. Il giudice Elena Kagan ha già dimostrato la sua volontà di imbrigliare il Primo Emendamento per quanto riguarda il discorso sul tema della diversità.

E recentemente l’American Civil Liberties Union [ACLU], che a lungo ha difeso con convinzione la libertà di parola e che spesso è stata considerata come una organizzazione de facto ebraica160, ha mutato la propria politica per combattere le idee associate alla Destra Dissidente:

 

Un recente promemoria interno della ACLU concernente le «linee guida sulla scelta dei casi» afferma esplicitamente che i casi che l’organizzazione accetta di difendere possono essere influenzati dalla «misura in cui il discorso può servire a promuovere gli obiettivi dei suprematisti bianchi o di altri le cui idee siano contrarie ai nostri valori […] Fattori come l’effetto potenziale del discorso sulle “comunità marginali” ed anche sulla “credibilità dell’ACLU” possono essere tali da impedire di accogliere il caso»161.

 

Storicamente i militanti di sinistra hanno sostenuto la libertà di parola, quando non avevano il potere che hanno oggi. Per esempio negli anni 1950, nell’era di McCarthy, la sinistra (già ben radicata nei media e nelle università d’élite) era soprattutto impegnata a proteggere i professori comunisti e altri dissidenti (molti dei quali erano ebrei) che venivano presi di mira dai comitati del Congresso. Essendo la loro visione politica soffocata dalle restrizioni sul comunismo, la loro risposta fu quella di creare una cultura nella quale la libertà di parola fosse considerata sacrosanta. La commedia Inherit the Wind [Ereditare il vento, n. d. t.] di Lawrence Schwartz e Robert Edwin Lee, fu scritta in opposizione al maccartismo162. Un altro esempio famoso di anti-maccartismo degli anni 1950 è The Crucible [Il crogiuolo, n. d. t.] di Arthur Miller, che implicitamente condannava la Commissione Congressuale per le Attività Antiamericane paragonando le sue audizioni sulle infiltrazioni comuniste ai processi alle streghe di Salem nel Massachusetts puritano.

Comunque, la conquista dell’egemonia culturale da parte della sinistra ha coinciso con il potere di organizzazioni come il Southern Poverty Law Center (SPLC, un’altra organizzazione de facto ebraica163) e l’Anti-Defamation League, alle quali non importa nulla libertà di parola e che si sono specializzate nel far ostracizzare e licenziare dal posto di lavoro le persone sulla base di reati di pensiero. Questa trasformazione mostra un evidente aspetto etnico ebraico164. Mentre scorrono a fiumi le lacrime per gli sceneggiatori di Hollywood proscritti durante il periodo del fervore anticomunista degli anni 1950 e da allora elevati agli altari della cultura165, non è il caso di aspettarsi che la nostra nuova élite condanni la caccia alle streghe contro la Destra Dissidente. Né bisogna aspettarsi, in tempi brevi, di vedere a Broadway uno spettacolo di successo basato su un’allegoria in cui l’SPLC venga implicitamente condannato per il modo in cui perseguita i portavoce del realismo razziale e degli interessi dei bianchi.

La lezione che se ne trae è che la sinistra non rinuncerà alla sua egemonia culturale senza lottare e che agirà in maniera del tutto priva di scrupoli nel suo tentativo di rimanere al potere. Il potere della sinistra risiede nella sua abilità di operare manipolazioni psicologiche occupando una posizione dominante sul piano morale e intellettuale nei media e nelle università; risiede nella sua abilità di creare incentivi e disincentivi nell’ambito del lavoro e di importare un nuovo elettorato orientato a sinistra. Se tutto ciò dovesse fallire, potrà essere impiegata la forza, e lo sarà.


Note.

 

  • GEOFFREY MILLER, The Mating Mind: How Sexual Choice Shaped the Evolution of Human Nature. New York, Anchor Books, rist. 2001: 332.
  • Jonathan HAIDT, Post-partisan Social Psychology; presentazione agli incontri della Society for Personality and Social Psychology, San Antonio, TX, 27 gennaio 2011; https://vimeo.com/19822295; http://people.stern.nyu.edu/jhaidt/postpartisan.html.
  • Kevin MACDONALD, The Culture of Critique: An Evolutionary Analysis of Jewish Involvement in Twentieth-Century Intellectual and Political Movements, Westport, CT, Praeger, 1998; 2.a ed. Bloomington, IN, AuthorHouse, 2002; cfr. soprattutto i capitoli 2 e 6.
  • Kevin MACDONALD, Why are Professors Liberals?, “The Occidental Quarterly”, 10, n. 2, estate 2010:

57-79.

  • Kevin MACDONALD, An Integrative Evolutionary Perspective on Ethnicity, “Politics and the Life

Sciences”, 20, 2001: 67-79; si veda anche il capitolo 1 di Separation and Its Discontents: Toward an

Evolutionary Theory of Anti-Semitism, Westport, CT, Praeger, 1998; 2.a ed. Bloomington, IN, Authorhouse, 2002).

  • William Graham SUMNER, Folkways, New York, Ginn, 1906: 13.
  • ] Kevin MACDONALD, An Integrative Evolutionary Perspective on Ethnicity.
  • Ibid.
  • Miles HEWSTONE, Mark RUBIN, Hazel WILLIS, Intergroup Bias, “Annual Review of Psychology”, 52, 2002: 575-604; Michael A. HOGG, Dominic ABRAMS, Social Identifications, New York, Routledge, 1987. [10] Ernest Lee TUVESON, Redeemer Nation: The Idea of America’s Millennial Role, Chicsgo, University of Chicago Press, 1968: 199.
  • Ibid., 214.
  • Natalie RICHARDSON, Two More Oregon Men Left Bloody after Violent Antifa Attack at Portland Protest, “Washington Times”, 1 luglio 2019, https://www.washingtontimes.com/news/2019/jul/1/two-more-oregon-men-left-bloody-antifa-attack-port/ [13] Frank K. SALTER, The Biosocial Study of Ethnicity, in Rosemary HOPCROFT (ed.), The Oxford Handbook of Evolution, Biology and Society, Oxford, Oxford University Press, 2018: 543-568.

[13a] N. d. t.: Cfr. il cap. 7, nota 39a.

  • Kevin MACDONALD, Personality, Development and Evolution, in Robert BURGESS and Kevin

MACDONALD, Evolutionary Perspectives on Human Development, 2.a ed., Thousand Oaks, CA, Sage, 2005: 207-242; MACDONALD, Cutting Nature at Its Joints.

  • Keith STANOVICH, Who is rational? Studies of Individual Differences in Reasoning, Hillsdale, NJ, Erlbaum, 1999; Keith STANOVICH, The Robot’s Rebellion: Finding Meaning in the Age of Darwin, Chicago, The University of Chicago Press, 2004.

[15a] N. d. t.: nell’originale: virtue signaling.

  • Barbara OAKLEY, Ariel KNAFO, Michael McGrath, Pathological Altruism. An Introduction, in Barbara OAKLEY, Ariel KNAFO, Guruprasad MADHAVAN, David Sloan WILSON (eds.), Pathological Altruism, New York, Oxford University Press, 2012: 3-9, 3.
  • Ibid., 5.
  • David GOODHART, Why We on the Left Made an Epic Mistake on Immigration, “Daily Mail”, 22 marzo 2013; https://www.dailymail.co.uk/news/article-2297776/SATURDAY-ESSAY-Why-Left-epic-mistakeimmigration.html.
  • Arthur A. ADRIAN, Dickens on American Slavery: A Carlylean Slant, “PMLA, Journal of the Modern Language Association of America”, 67, n. 4. giugno 1952: 315-29, 329.
  • Charles DICKENS, Bleak House, vol 3, London, Bradbury & Evans, 1853: 26; https://books.google.com/books?id=K1sAAAAQAAJ.
  • George J. BORJAS, The Analytics of the Wage Effect of Immigration, Working Paper 14796 (marzo, 2009), National Bureau of Economic Research; https://www.nber.org/papers/w14796.pdf.
  • Robert D. PUTNAM, E Pluribus Unum: Diversity and Community in the Twenty-first Century,

“Scandinavian Political Studies”, 3, 2007: 137-174; SALTER, The Biosocial Study of Ethnicity; si veda anche Frank SALTER, Germany’s Jeopardy, You Tube, 5 gennaio 2016, https://youtu.be(R8qcK-jx6_8

  • Robert A. BURTON, Pathological Certitude, in Barbara OAKLEY, Ariel KNAFO, Guruprasad

MADHAVAN, David Sloan WILSON (eds.), Pathological Altruism, New York, Oxford University Press, 2012:

131-37, 135.

  • Ibid., 136.
  • David Brin, Self-addiction and Self-righteousness, in Barbara OAKLEY, Ariel KNAFO, Guruprasad MADHAVAN, David Sloan WILSON (eds.), Pathological Altruism, New York, Oxford University Press, 2012: 77-84, 80
  • Ibid., 80.
  • PEW RESEARCH CENTER, The Partisan Divide on Political Values Grows Even Wider; 5 ottobre 2017; https://www.people-press.org/2017/10/05/the-partisan-divide-on-political-values-grows-even-wider/ [28] Jeremy BARR, Without Major Sponsors, Tucker Carlson’s Show Leans on Ads for Fox Programming,

“The Hollywood Reporter”, 22 marzo 2019,

https://www.hollywoodreporter.com/news/major-sponsors-tucker-carlsons-show-leans-fox-news-house-ads-

1196257

  • Si vedano ad esempio David C. GEARY, The Origin of Mind: Evolution of Brain, Cognition and

General Intelligence, Washington, DC, American Psychological Association. 2005: Kevin MACDONALD,

Effortful Control, Explicit Processing and the Regulation of Human Evolved Predispositions, “Psychological Review”, 115, n. 4, 2008: 1012-1031; Keith STANOVICH, Who is rational? Studies of Individual Differences in Reasoning, Hillsdale, NJ, Erlbaum, 1999; Keith STANOVICH, The Robot’s Rebellion: Finding Meaning in the Age of Darwin, Chicago, The University of Chicago Press, 2004.

  • Dan CHIAPPE, Kevin MACDONALD, The Evolution of Domain-General Mechanisms in Intelligence and Learning, “Journal of General Psychology”, 132, n. 1, 2005: 5-40.
  • Kevin MACDONALD, Effortful Control, Explicit Processing and the Regulation of Human Evolved Predispositions.
  • Kevin MACDONALD, Evolution and a Dual Processing Theory of Culture: Applications to Moral Idealism and Political Philosophy, “Politics and Culture”, Issue, # 1, April, 2010, senza nn. di pagine; si veda anche Kevin MACDONALD, Evolution, Psychology and a Conflict Theory of Culture, “Evolutionary Psychology”, 7, n. 2, 2009: 208-233.
  • Kevin MACDONALD, The Culture of Critique.
  • Un altro metodo per valutare gli atteggiamenti impliciti è l’impiego dell’Implict Attitude Test, IAT, [Test degli Atteggiamenti Impliciti, n. d. t.] nel quale ai soggetti vengono presentate in successione fotografie di bianchi e di negri e viene loro richiesto di associare a tali immagini parole positive o negative (p. es. intelligente, rispettoso della legge, povero, successo). L’80% dei bianchi impiega più tempo nell’associare parole positive ai negri di quanto ne impieghi per i bianchi. Questo fatto viene interpretato nel senso di una presenza, nei bianchi, di stereotipi negativi impliciti nei confronti dei negri. Recentemente i risultati dello IAT che mostrano come i soggetti che rispondono di più al test siano più inclini a comportamenti discriminatori sono stati messi in discussione. Comunque questi risultati non si riflettono sugli studi che non si focalizzano sulla discriminazione, né su quelli che si basano sulle scansioni del cervello. Per una buona sintesi delle controversie che riguardano l’IAT si veda Jesse SIGNAL, Psychology’s Racism-Measuring Tool Isn’t Up to the Job, “The Cut”, gennaio, 2017;

https://www.thecut.com/2017/01/psychologys-racism-measuring-tool-isnt-up-to-the-job.html

  • Elizabeth A. PHELPS et al., Performance on Indirect Measures of Race Evaluation Predicts Amygdala Activation, “Journal of Cognitive Neuroscience”, 12, 2000: 729-738.
  • Paul E. CROLL, Douglas HARTMANN, Joseph GERTEIS, Putting Whitness Theory to the Test: An

Empirical Assessment of Core Theoretical Propositions, manoscritto non pubblicato, Department of Sociology, University of Minnesota American Mosaic Project, 2006.

  • Descrivo diversi casi nella mia trilogia sul giudaismo, come ad esempio quello di Heinrich Heine; si veda Kevin MACDONALD, Separation and Its Discontents, capitolo 2, n. 9.
  • Brian A. NOSEK, Mahzarin R. BANAJI, Anthony G. GREENWALD, Harvesting Implicit Group Attitudes and Beliefs from a Demonstration Website, “Group Dynamics”, 6, 2002: 101-115.
  • William A. CUNNINGHAM et al., Separable Neural Components in the Processing of Black and White Faces, “Psychological Science”, 15, 2004: 806-813.
  • Uno studio analogo spiega ciò che accade quando le persone si trovano ad affrontare questioni controverse riguardo alla razza e all’etnicità. Ad alcuni soggetti bianchi sono state mostrate immagini raffiguranti una coppia interrazziale sorridente, dicendo poi a tali soggetti che la loro reazione all’immagine indicava come essi nutrissero dei pregiudizi. Dopo questa osservazione, i soggetti impiegavano molto più tempo prima di dare risposte su altre immagini. Ciò viene interpretato come un tentativo cosciente, da parte dei soggetti, di controllare le loro risposte. Le immagini servono da “segnale di controllo”, un avviso che «la situazione è tale per cui possono manifestarsi risposte prevenute e pertanto occorre esercitare un controllo sul comportamento». Margo J. MONTEITH, Leslie ASHBURN-NARDO, Corinne I. VOILS, Alexander M. CZOPP, Putting the Brakes on Prejudice: On the Development and Operation of Cues for Control, “Journal of Personality and Social Psychology”, 83, 2002: 1029-1059, 1046.
  • Frances ABOUD, Children and Prejudice, New York, Blackwell, 1988; Martha AUGOUSTINOS, Dana

Louise ROSEWARNE, Stereotype Knowledge and Prejudice in Children, “British Journal of Developmental Psychology”, 19, 2001: 143-156.

  • Yarrow DUNHAM, Andrew S. BARON, Mahzarin R. BANAJI, From American City to Japanese Village:

A Cross-Cultural Study of Implicit Racial Attitudes, “Child Development” 77, 2006: 1268-1281.

  • James MOODY, Race, School Integration and Friendship Segregation in America, “American Journal of Sociology”, 107, 2002: 679-716.
  • Michael O. EMERSON, Rachel TALBERT KIMBRO, George YANCEY, Contact Theory Extended: The Effects of Prior Racial Contact on Current Social Ties, “Social Science Quarterly”, 83, 2002: 745-761.
  • Margaret A. HAGERMAN, White Progressive Parents and the Conundrum of Privilege, “Los Angeles Times”, 30 settembre 2018; https://www.latimes.com/opinion/op-ed/la-oe-hagerman-white-parents20180930-story.html.
  • David SIKKUNK, Michael O. EMERSON, School Choice and Racial Segregation in U. S. Schools: The Role of Parents’ Education, “Racial and Ethnic Studies”, 31, 2008: 267-293.

[46a] N. d. T.: National Association for Stock Car Auto Racing (NASCAR) associazione statunitense che organizza e gestisce gare automobilistiche.

  • Kevin M. KRUSE, White Flight: Atlanta and the Making of Modern Conservatism, Princeton, NJ, Princeton University Press, 259.
  • Ibid., 263.
  • Frank SALTER (ed.), Welfare, Ethnicity and Altruism: New Data and Evolutionary Theory, London, Taylor & Francis, 2005.
  • PUTNAM, E Pluribus Unum: Diversity and Community in the Twenty-first Century; la letteratura recente è esaminata da SALTER, The Biosocial Study of Ethnicity; si veda anche SALTER, Germany’s Jeopardy.
  • Si veda SALTER, The Biosocial Study of Ethnicity.
  • The State of Personal Trust, Pew Research Center, 22 luglio 2019; https://www.people-press.org/2019/07/22/the-state-of-personal-trust/ [53] SALTER, The Biosocial Study of Ethnicity.
  • Steve SAILER, Fragmented Future: Multiculturalism Doesn’t Make Vibrant Communities but Defensive Ones, “The American Conservative”, 2 gennaio 2007.
  • Shailagh MURRAY, Dean’s Words Draw Democratic Rebukes, “The Washington Post”, 9 giugno 2005; https://www.washingtonpost.com/wp-dyn/content/article/2005/06/08AR2005060800650_pf.html
  • Sean TRENDE, Does the GOP Have to Pass Immigration Reform?, “Real Clear Politics”, 25 giugno 2013.
  • Demographics of Sports Fans, Demographic Partitions.org, 10 luglio 2017; http://demographicpartitions.org/ demographics-of-sports-fans-u-s/
  • Jim WRIGHT, Fixin’ to Git: One Fan’s Love Affair with NASCAR’s Winston Cup, Durham, NC, Duke University Press, 2002, 35.
  • Ibid., 83.

[59a] N. d. t.: Winston Cup: competizione automobilistica della NASCAR.

[59b] N. d. t.: Southern 500: altra competizione automobilistica della NASCAR organizzata a Darlington nel South Carolina (lo stato ex-confederato che fu il primo a separarsi dall’Unione nel dicembre 1860).

  • Ibid., 141. Il libro di Wright è stato pubblicato nel 2002. Da allora la bandiera confederata è diventata meno visibile e vi sono stati tentativi di limitare la sua presenza. Nel 2015 Brian France, presidente della NASCAR, ha definito la bandiera «un simbolo offensivo» e ha chiesto, senza tuttavia esigerlo, che non venisse mostrata. Alcuni piloti famosi ne hanno scoraggiato l’uso. Nel 2019 la NASCAR ha rifiutato la pubblicità di un fucile semiautomatico. Tuttavia, non per questo la NASCAR perde il suo carattere di comunità bianca implicita. Mike HEMBREE, NASCAR Fans: Confederate Flag Still Important Symbol, “USA Today”, 8 agosto 2017; Awr HAWKINS, NASCAR Shifts on Guns, Rejects Ad Showing Semiautomatic Rifle, “Breitbart”, 9 settembre 2019.
  • Ibid.,156.
  • Ibid., 37.
  • Ibid., 156.
  • La musica country rappresenta anch’essa una comunità bianca implicita; la grande maggioranza delle persone (oltre il 90%) che l’ascolta regolarmente è costituita da bianchi, mentre soltanto il 3% degli ispanici e il 5% degli afroamericani dicono di preferire la musica country ad altri generi musicali. Brandon GAILLE,

49 Curious Country Music Demographics, 9 maggio 2016;  https://brandongaille.com/46-curious-country-music-demographics/

[65] Hoop Dreams: Multicultural Diversity in NBA Viewership, 26 febbraio 2015;

https://www.nielsen.com/us/en/insights/article/2015/hoop-dreams-multicultural-diversity-in-nba-viewership/ [66] Gary PETERSON, Brawl puts glaring spotlight on NBA, “Contra Cpsta Times”, 22 dicembre 2007.

  • Gabe FERNANDEZ, Baseball Fights Highlight a Double Standard in Sports Perception, “The Sporting News”, 12 aprile 2018; https://www.sportingnews.com/us/mlb/news/baseball-fights-yankees-red-sox-nbabrawls-players-double-standard/15e4ngugjbiv217ebzyvhzeia8 [67a] N. d. t.: lega professionistica del baseball americano.
  • Gabe FERNANDEZ, Baseball Fights Highlight a Double Standard in Sports Perception.
  • Kevin MACDONALD, The Culture of Critique.
  • Richard LYNN, Race Differences in Psychopathic Personality: An Evolutionary Perspective, Arlington, VA, Washington Summit Press, 2018.
  • Robert PLOMIN, Blueprint: How DNA Makes Us Who We Are, Cambridge, MA, MIT Press, 2018.

[71a] N. d. t.: Nell’originale: Behavioral Approach System (BAS).

  • Jeffrey A. GRAY, The Psychology of Fear and Stress, 2.a ed., Cambridge, Cambridge University Press, 1987; Jeffrey A. GRAY, The Neuropsychology of Anxiety: An Enquiry into the Functions of the Septohippocampal System, 2.a ed., Oxford, Oxford University Press, 2000.
  • Jaak Panksepp, Affective Neuroscience: The Foundations of Human and Animal Emotions, New York, Oxford University Press, 1998: 191.
  • Kevin MACDONALD, Temperament and Evolution, in Marcel ZENTNER, Rebecca L. SHINER (eds.) Handbook of Temperament, New York, Guilford Press, 2012b: 273-296.
  • GRAY, The Neuropsychology of Anxiety.
  • Il SAC può essere anche osservato nei bambini, nei quali si collega all’impulsività (cioè alla ricerca di gratificazione senza un’adeguata attenzione ai costi) al “piacere ad alta intensità” e all’aggressività. I bambini che mostrano un elevato sviluppo del SAC sono inclini a risposte emotive positive che includono il sorriso, la gioia e il riso in occasione di situazioni gratificanti e nell’interazione sociale piacevole, che i bambini socievoli ricercano. Mary K. ROTHBART, John E. BATES, Temperament, in Handbook of Child Psychology, William DAMON, Richard LERNER, Nancy EISENBERG (eds.) Social, Emotional and Personality Development, vol. 3, 6.a ed., New York, Wiley, 2006: 99-166.
  • Peter J. LA FRENIERE, Emotional Development: An Evolutionary Perspective, Boston, Wadsworth / Thompson Learning, 2000.
  • Nathan A. FOX, Dynamic Cerebral Processes Underlying Emotion Regulation, in Nathan FOX (ed.) The

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[93a] N. d. t.: Nell’originale: Prefrontal Executive Control (PEC).

  • MACDONALD, Effortful Control, Explicit Processing and the Regulation of Human Evolved Predispositions.
  • Ibid.
  • Oliver P. JOHN, Sanjay SRIVASTAVA, The Big Five Trait Taxonomy: History, Measurement and Theoretical Perspectives, in Lawrence A. PERVIN, Oliver P. JOHNS (eds.) Handbook of Personality: Theory and Research, 2.a ed., New York, Guilford Press, 102-138.
  • Ibid., 121; corsivo nell’originale.
  • Adrian RAINE, Psychophysiology and Antisocial Behavior: A Biosocial Perspective and a Prefrontal Dysfunction Hypothesis, in Daniel M. STOFF, James BREILING, Jack D. MASER (eds.), Handbook of Antisocial Behavior, New York, Wiley, 1997: 289-304.
  • MACDONALD, Effortful Control, Explicit Processing and the Regulation of Human Evolved Predispositions.
  • LYNN, Race Differences in Personality.
  • Lynn osserva come gli asiatici siano più disponibili a donare i loro organi dopo la morte di quanto lo siano i bianchi (disponibilità intermedia) o i negri (disponibilità minima) una scoperta che è in accordo col modello generale delle differenze razziali in termini di q. d. i. e di molti altri tratti. Comunque, le donazioni post-mortem non rappresentano un vero e proprio costo per il donatore e possono essere influenzate dalle credenze religiose, mentre gli atti di beneficenza effettuati in vita sono costi reali. Sottolineo di conseguenza il secondo aspetto. Il punto qui è che a causa dell’evoluzione dell’individualismo e della conseguente elaborazione, tra la popolazione bianca, di meccanismi collegati all’attrattività personale, le differenze tra le razze per quanto riguarda i tratti dell’amore / cura non seguono il modello generale, quello cioè che vede classificati, nell’ordine, asiatici orientali, bianchi, africani.

[101a] N. d. t.: Nell’originale: Life History Theory.

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[128a] N. d. t.: detta anche fallacia associativa.

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[135a] N. d. t.: Le leggi Jim Crow furono leggi locali emanate tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento nel Sud degli Stati Uniti allo scopo di mantenere la segregazione razziale.

  • Howard ZINN, A People’s History of the United States, 1492-Present, New York, Harper, 1980;; si veda inoltre Kevin MACDONALD, The Academic Left’s Involvement in Politics, “The Occidental Observer”,

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[136a] N. d. t.: Il testo di Zinn è stato tradotto in italiano come Storia del popolo americano. Dal 1492 ad oggi, Milano, Il Saggiatore, 2010.

[137] FOX NEWS, New York Times Stands by New Tech Writer, 2 agosto 2018,  https://www.foxnews.com/entertainment/new-york-times-stands-by-new-tech-writer-sarah-jeong-afterracist-tweets-surface;

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https://www.nytimes.com/2018/10/29/opinion/stacey-abrams-georgia-governor-election-brian-kemp.html; Rod DREHER, Classics Studies: No Country for White Men, “The American Conservative”, 30 gennaio 2019, https://www.theamericanconservative.com/dreher/classics-studies-no-country-for-white-men/;

Lindsey BEVER, CNN’s Don Lemon Doubles Down after Saying White Men Are “the Biggest Terror Threat in This Country”, “Washington Post”, 31 ottobre 2018, https://www.washingtonpost.com/arts-entertainment/2018/10/31/cnn-host-don-lemon-said-white-men-arebiggest-terror-threat-this-country/?utm_term=.7512d32960f4

[137a] N d. t.: millennials : la generazione dei nati negli anni 1980 e 1990. [138] Mark POINT, Racism on the Rise, “American Thinker”, 6 novembre 2018, https://www.americanthinker.com/articles/2018/11/racism_on_the_rise.html

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  • Kiana COX, Most U. S. Adults Feel What Happens to Their Own Racial or Ethnic Group Affects Them Personally, Pew Research Center, 11 luglio 2019. Parafrasando, il sondaggio chiedeva: «Quello che accade al tuo gruppo razziale o etnico negli Stati Uniti influenza complessivamente ciò che accade nella tua vita?»; https://www.pewresearch.org/fact-tank/2019/07/11/linked-fate-connectedness-americans/ [142] MACDONALD, An Integrative Evolutionary Perspective on Ethnicity.
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Kevin MACDONALD, The Jewish Origins of Multiculturalism in Sweden, “The Occidental Observer”, 14 gen.

2013: https://theoccidentalobserver.net/2013/01/14/the-jewish-origins-of-multiculturalism-in-sweden/; [145] Noah CARL, Tolerance of Inter-Ethnic Relationships in Europe, @NoahCarl, 27 lug. 2019: https://medium.com/@NoahCarl/tolerance-of-inter-ethnic-relationships-in-europe-c27bda8a25e1

  • Aksel SANDEMOSE (1899-1965) nel suo romanzo En Flyktning Krysser Sitt Spor [Un fuggitivo incrocia le sue tracce, n. d. t.]. Sebbene abbiano origine in un’opera di fantasia, le leggi di Jante sono state ampiamente riconosciute dagli scandinavi come qualcosa che riflette accuratamente una mentalità tipica della loro società.
  • Christopher H. BOEHM, Hierarchy in the Forest: The Evolution of Egalitarian Behavior, Cambridge, Harvard University Press, 1999.
  • Eric A. SMITH, Kim HILL, Frank MARLOWE, D. NOLIN, Polly WIESSNER, P. M. GURVEN, S. BOWLES, Monique BORGERHOFF-MUDLER, T. HERTZ, A. BELL, Wealth Transmission and Inequality Among H-gs, “Current Anthropology”, 51, n. 10, 2010: 19-34.
  • Lawyers Blame Groupthink in Sweden’s Worst Miscarriage of Justice, “The Guardian”, 5 giugno 2015, https://www.theguardian.com/world/2015/jun/05/groupthink-sweden-miscarriage-of-justice-sturebergwall
  • Si veda Kevin MACDONALD, Pathological Altruism on Steroids in Sweden, “The Occidental Observer”, 4 aprile 2015, https://www.theoccidentalobserver.net/2015/04/29/pathological-altruism-onsteroids-in-sweden/
  • Frank K. SALTER, Welfare, Ethnicity and Altruism: New Data and Evolutionary Theory, London, Routledge, 2005.
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  • Ingrid CARLQVIST, I Want My Country Back, discorso tenuto presso l’International Civil Liberties Alliance al Parlamento Europeo, Bruxelles, 9 luglio 2012, corsivo nell’originale; https://www.trykkefrihed.dk/i-want-my-country-back.htm
  • Henrik HÖJER, Segregation Is Increasing In Sweden, “Forsting & Framsted”, 29 maggio 2015, traduz.

Google, https://fof.se/artikel/segregationen-okar

  • Si potrebbe pensare che dato il peso del conformismo le culture scandinave non siano inclini a produrre individui geniali (fenotipi anomali che creano idee nuove e invenzioni). Tuttavia, una classifica sommaria per nazione (basata sulla popolazione del 2018) del numero di premi Nobel nelle scienze (chimica, fisica e fisiologia o medicina) indica che i paesi scandinavi (Norvegia, Svezia e Danimarca) hanno una posizione simile a quella degli altri paesi europei nordoccidentali e superiore a quella della Francia o della Germania. I risultati non mutano sostanzialmente escludendo i premi Nobel ebrei (due soli dei quali risiedono in paesi scandinavi). I risultati della Finlandia sono paragonabili a quelli della Francia e leggermente superiori se si escludono i Nobel ebrei che vivono in Francia. La ragione sta forse nel fatto che le comunità scientifiche nell’ambito delle scienze esatte e naturali non sono comunità morali; i dissidenti possono essere considerati persone eccentriche o non molto brillanti, ma non vengono denigrati come moralmente reprobi. Cfr. List of Countries by Nobel Laureates Per Capita, https://en.wikipedia.org/wiki/List_of_countries_by_Nobel_laureates_per_capita
  • Edward DUTTON, The Silent Rape Epidemic: How the Finns Were Groomed to Love Their Abusers, Oulu, Finlandia, Thomas Edward Press, 2019: 25.
  • Kirsi WARPULA, Eastern Finnish Families on the Borderland of Historical Family Forms, “History of the Family”, 7, n. 3 (2002): 315-326.
  • Per un resoconto esaustivo si veda Richard HOUCK, Words Like Violence: The Left’s Total War on Freedom of Speech, in Liberalism Unmasked, parte 2, cap. 1, London, Arktos, 2018: 55-85.

[158a] N. d. t.: shadow banning : intervento praticato da chi gestisce siti o forum in rete (e giustificato come moderatore) consistente nell’“oscurare” un certo utente o i contenuti dei suoi interventi senza tuttavia “bandirlo” del tutto.

  • Si veda ad esempio Jeremy WALDRON, The Harm in Hate Speech, Cambridge, Harvard University Press, 2012.

[159a]N. d. t.: il Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti garantisce la libertà di parola.

  • J. Goldberg osserva che «nel mondo delle orgnizzazioni progressiste come la ACLU e People for the American Way l’influenza ebraica è così profonda che a volte la distinzione tra i non ebrei e la comunità ebraica formale appare difficle da cogliere»; J. J. GOLDBERG, Jewish Power: Inside the American Jewish Establishment, Reading, MA, Addison-Wesley, 1996: 46.
  • Mark HEMINGWAY, Want to Defend Civil Liberties? Don’t Look to the ACLU, “The Weekly Standard”, 29 giugno 2018; https://www.weeklystandard.com/mark-hemingway/the-aclu-gives-up-on-free-speech-and-the-firstamendment
  • Inherit the Wind (commedia), cfr. Wikipedia; https://en.wikipedia.org/wiki/Inherit_the_Wind_(play)#Background
  • Kevin MACDONALD, Jerry Kammer: The SPLC Depends on Jewish Donors, “The Occidental Observer”, 18 marzo 2010; https://www.theoccidentalobserver.net/2010/03/18/kevin-macdonald-jerry-kammer-on-the-splc-2.
  • Kevin MACDONALD, The Hate Crimes Prevention Bill: Why Do Jewish Organisations Support It?,

“Vdare.com”, 11 maggio 2009; https://vdare.com/articles/ the-hate-crimes-prevention-bill-why-do-jewish-organisations-support-it [165] Kevin MACDONALD, Joe McCarthy and the Jews, recensione di Aviva WEINGARTEN, Jewish

Organizations’ Response to Communism and Senator McCarthy (2008), “The Occidental Quarterly”, 19, n.

1, primavera 2019: 97-105.

 

INDIVIDUALISMO E TRADIZIONE PROGRESSISTA OCCIDENTALE: APPENDICE AL CAPITOLO 8: IL RECENTE DETERIORAMENTO CULTURALE: ALCUNE CORRELAZIONI CULTURALI   RIGUARDO ALL’ASCESA DI UNA NUOVA ÉLITE.

INDIVIDUALISMO E
TRADIZIONE PROGRESSISTA OCCIDENTALE.
Origini evolutive, storia e prospettive future.
traduzione italiana di Marco Marchett

APPENDICE AL CAPITOLO 8:

IL RECENTE DETERIORAMENTO CULTURALE: ALCUNE CORRELAZIONI CULTURALI  

RIGUARDO ALL’ASCESA DI UNA NUOVA ÉLITE.

 

 

E’ stato osservato come la Guerra Civile inglese abbia rappresentato un punto di rottura fondamentale nella storia dell’Occidente. Un’altra epoca spartiacque furono gli anni Sessanta del Novecento. Il risultato della Guerra Civile Inglese fu la graduale ascesa di una nuova élite; il successo della rivoluzione controculturale degli anni Sessanta ha avuto anch’esso come risultato l’ascesa di una nuova élite, che ha rapidamente cambiato il paese [gli Stati Uniti, n. d. t.]. L’eclissi della vecchia élite americana dominata dai WASP è descritta nel libro di Eric Kaufmann The Rise and Fall of Anglo-America [L’ascesa e la caduta dell’AngloAmerica, n. d. t.] (si veda il capitolo 6)1; l’ascesa della nuova élite a dominanza ebraica è descritta nel mio libro The Culture of Critique [La cultura della critica, n. d. t.]. Se, in ultima analisi, il perdente della Guerra Civile Inglese fu l’aristocrazia, quello della controrivoluzione culturale degli anni Sessanta fu la popolazione bianca degli Stati Uniti (e in definitiva l’intero Occidente) ma soprattutto la classe lavoratrice bianca.

Se la più importante conseguenza della controrivoluzione culturale degli anni Sessanta è stata la colonizzazione dell’Occidente da parte di milioni di non-europei (al punto che, se tale situazione non si inverte, la popolazione europea tradizionale sarà destinata a divenire una minoranza entro il presente secolo) sono altresì avvenuti profondi cambiamenti nella cultura occidentale. Questa Appendice prende in esame gli effetti di questa rivoluzione culturale sulla famiglia e sul recente aumento della mortalità che riguarda in particolare la classe lavoratrice bianca.

 

Il generale declino culturale in America a partire dagli anni Sessanta.

 

Un tema de La cultura della critica è che l’élite ebraica egemone ha avuto un ruolo fondamentale nel successo della controrivoluzione culturale degli anni Sessanta, sia come guida dei radicali nelle università sia come promotrice della rivoluzione sessuale2. Riguardo a quest’ultima, gli individui con un maggiore quoziente di intelligenza [d’ora in avanti q. d. i., n. d. t.] patiscono meno l’erosione dei sostegni culturali alla genitorialità ad elevato investimento e il declino delle credenze religiose tradizionali (in particolare le credenze cristiane relative al comportamento sessuale) di quanto avvenga per gli individui con un q. d. i. inferiore. Questo è stato in particolare uno dei temi del capitolo dedicato alla psicanalisi, che si è concentrato sugli effetti della rivoluzione sessuale3.

Sebbene l’Occidente abbia prodotto una cultura decisamente individualista, ha mantenuto forti controlli sociali su certi aspetti del comportamento individuale, e in particolare sul comportamento sessuale. Questi controlli sociali sono stati rafforzati dalla pervasività delle credenze religiose cristiane. Per quanto vi siano certamente stati periodi in cui il controllo sul comportamento sessuale era maggiore e altri in cui era minore, in generale e almeno a partire dal Medioevo la cultura occidentale è stata caratterizzata dal matrimonio monogamico, dalla genitorialità ad elevato investimento e da un tasso di divorzi molto basso, con pratiche sessuali non monogamiche relegate al mondo clandestino della prostituzione.

In generale, gli individui con un q. d. i. inferiore traggono maggior beneficio dai sostegni sociali tradizionali incorporati nella cultura occidentale, e in particolare da quelli che riguardano il matrimonio e i costumi atti a prevenire le gravidanze extramatrimoniali. Nel corso del precedente periodo della mia vita, nel quale ho insegnato psicologia dello sviluppo, il capitolo del libro di testo che trattava la famiglia aveva dei diagrammi che mostravano come a partire dagli anni 1960 si sia verificato un sensibile aumento delle nascite extramatrimoniali e dei divorzi, col risultato che molti più bambini sono stati allevati senza un padre. Questo fatto ha aperto nuovi orizzonti nella psicologia infantile, nella misura in cui gli psicologi hanno indagato gli effetti sui bambini di questi cambiamenti culturali. I risultati appaiono chiari: divorzi, famiglie monogenitoriali e nascite al di fuori del matrimonio rappresentano forti fattori di rischio per un’ampia gamma di problemi dei minori, come la delinquenza, la criminalità, gli scarsi risultati scolastici, le carenze nella salute fisica ed emotiva, la mortalità precoce4.

Uno dei temi principali del libro di Richard Herrnstein e Charles Murray, The Bell Curve [La curva a campana, n. d. t.] è che il divorzio e le altre forme di disfunzionalità familiare siano più frequenti tra gli individui che si collocano all’estremo inferiore della curva di distribuzione del q. d. i.5. La sola ragione per cui faccio uso del q. d. .i. è che questo parametro è stato studiato molto di più e può essere misurato con molta precisione; tuttavia utilizzando il controllo degli impulsi si possono ottenere risultati simili. Gli individui con q. d. i. più basso sono anche quelli che hanno maggiori difficoltà a controllare i loro impulsi, che tendono maggiormente alla gratificazione immediata piuttosto che ad una pianificazione a lungo termine e che probabilmente sono più inclini alla dipendenza da droghe6. Di conseguenza essi soffrono maggiormente a causa dell’erosione dei sostegni culturali alla genitorialità ad elevato investimento (che implicano rimandare nel tempo i rapporti sessuali, non rimanere incinta prima del matrimonio, ecc.). Nella scuola superiore che ho frequentato (una scuola cattolica nella quale l’ideologia tradizionale in materia sessuale era saldamente vigente) praticamente nessun alunno aveva rapporti sessuali. Ma ciò avveniva tra la fine degli anni 1950 e l’inizio degli anni 1960; dopo quel periodo, quella cultura ha subito un attacco che ha conseguito un notevole successo.

Il cristianesimo tradizionale era una delle componenti principali di quei sostegni culturali. Citando da La cultura della critica:

 

Come osserva [Norman] Podhoretz, «si dà il caso, infatti, che gli intellettuali ebrei, le organizzazioni ebraiche come l’American Jewish Congress ed altre organizzazioni a dominanza ebraica come la ACLU […] abbiano messo in ridicolo le credenze religiose cristiane, abbiano cercato di privare il cristianesimo del sostegno del pubblico e abbiano guidato la campagna per eliminare ogni restrizione alla pornografia7». Il fatto è che la psicanalisi, in quanto movimento intellettuale a dominanza ebraica, rappresenta una componente centrale di questa guerra contro i sostegni culturali alla genitorialità ad elevato investimento […]

Sebbene siano indubbiamente coinvolti altri fattori, è degno di nota il fatto che la crescente tendenza, negli

Stati Uniti, verso una genitorialità a basso investimento coincida ampiamente col trionfo delle critiche mosse

dalla psicanalisi e dai radicali alla cultura americana, trionfo rappresentato dal successo politico e culturale del movimento della controcultura degli anni Sessanta8.

 

Queste tendenze si sono manifestate in tutte le razze, ma interesano più i negri dei bianchi perché i negri, in media, si collocano all’incirca una deviazione standard più in basso sulla curva di distribuzione del q. d. i. rispetto ai bianchi e, come si è osservato nel capitolo 8, hanno un minore controllo degli impulsi (coscienziosità). I negri hanno sempre mostrato un’elevata percentuale di nascite extramatrimoniali, ma il divario è aumentato a partire dagli anni Sessanta.

Questi dati concordano con la classifica delle differenze evolutive razziali proposta da J. Philippe Rushton9. I comportamenti sessuali sono ereditari (ossia influenzati geneticamente): uno studio ha mostrato che prima della rivoluzione sessuale l’età del primo rapporto sessuale non era sostanzialmente influenzata dalle differenze genetiche, perché esistevano forti norme sociali contrarie al sesso prematrimoniale; se non c’è variazione, allora, per definizione, non può esserci neppure una variazione influenzata dalla genetica; ne consegue pertanto che l’età del primo rapporto sessuale non era ereditaria in misura significativa10. Nella scuola superiore da me frequentata dunque, dato che nessuno aveva rapporti sessuali, l’età del primo rapporto non era un aspetto ereditario. Essa tuttavia lo divenne dopo la rivoluzione sessuale; gli individui inclini ad un modello lento di storia di vita e ad un elevato controllo degli impulsi rimasero in ogni caso più inclini a procrastinare l’inizio della vita sessuale, ad evitare gravidanze extramatrimoniali e a restare uniti nel matrimonio. Come ci si può aspettare sulla base della teoria di Rushton, la rivoluzione sessuale si è invece dimostrata un disastro per la maggior parte dei negri. Nel 1965 il 24% dei bambini negri e il 3.1% dei bambini bianchi erano figli di ragazze madri, quote che oggi valgono rispettivamente il 72% e il 29% circa11. Nel suo libro Coming Apart [Dissoluzione / Disgregazione, n. d. t.] Charles Murray nota che tra i bianchi, a partire dagli anni Sessanta, si è osservato un aumento del crimine e una diminuzione della religiosità, dell’etica del lavoro e dei matrimoni12. Tra il 1960 e il 2000, nella classe medio-alta la quota di matrimoni è scesa dal 94% all’84%, ma per la classe lavoratrice bianca tale diminuzione è stata dall’82% al 48%. In quest’ultima classe il numero delle persone che non si sono mai sposate è aumentato dal 10% al 25%, fenomeno al quale i lavoratori di basso livello hanno fornito un considerevole contributo. Murray attribuisce tutto ciò a una perdita di “virtù”, ma non esamina le forze che stanno dietro a questo massiccio mutamento culturale.

E frequente, tra i critici di Murray, sostenere che tali cambiamenti siano il risultato delle condizioni economiche piuttosto che della cultura in senso più ampio. Sotto questo aspetto, nell’America dei primi anni Sessanta un diplomato di scuola superiore poteva aspettarsi di trovare un lavoro che gli avrebbe permesso di sposarsi, consentendo a sua moglie di restare a casa e di allevare i figli. Avrebbe potuto acquistare una casa e un’automobile e anche permettersi di portare in vacanza la famiglia, d’estate, per due settimane.

Il problema, dunque, è che le nuove tendenze riguardanti il matrimonio e la famiglia hanno cominciato a manifestarsi negli anni Sessanta, quando la classe lavoratrice bianca stava bene, per raggiungere il culmine nei primi anni Settanta e, successivamente, ristagnare13. La rapida impennata nelle nuove tendenze nell’ambito della famiglia e in altri aspetti disfunzionali della società ha avuto inizio intorno al 1960 e ha continuato fino al 1990 circa, quando ha subito un temporaneo arretramento prima di raggiungere nuovi picchi. Nel 1970, quando la classe lavoratrice bianca aveva raggiunto la massima prosperità economica, il numero delle nascite extramatrimoniali era già triplicato rispetto al 1960.

Non c’è dubbio sul fatto che il periodo compreso tra il 1948 e i primi anni Settanta sia stato l’età d’oro della classe lavoratrice (lavoratori senza mansioni di controllo) con la presenza di sindacati forti e senza il problema dell’esternalizzazione del lavoro. A partire dal 1973 il reddito di questo gruppo è aumentato, in termini reali, di circa il 9%14: molto meno che per i laureati, e tuttavia più un fenomeno di stagnazione che un disastro, che di per sé non avrebbe dovuto provocare un aumento della disfunzionalità familiare.

Né avrebbe dovuto provocare un aumento della mortalità, visti i progressi compiuti dalla medicina nella cura delle malattie cardiache e dei tumori. Angus Case e Anne Deaton fanno notare che qualsiasi spiegazione di tipo economico deve rendere conto del perché una stagnazione dei redditi provochi una mortalità precoce tra i bianchi americani, ma non tra i negri o in Europa. «Anche risalendo fino ai tardi anni Sessanta si osserva come i redditi familiari medi fossero simili per bianchi, negri e ispanici; questo fatto non può pertanto fornire alcuna base per spiegare le forti differenze nella mortalità tra questi gruppi dopo il 1998»15. Ciò esclude anche [dalle possibili cause, n. d. t.] l’aumento delle diseguaglianze di reddito (“il tuo reddito cresce più rapidamente del mio”) come pure un calo della “virtù” propiziato da un generoso sistema assistenziale e di sostegno ai disabili (anche l’Europa ha robusti programmi assistenziali).

In generale, stando a Case e Deaton, l’aumento della mortalità nella classe lavoratrice bianca comincia negli anni Novanta. Il primo gruppo nel quale il fenomeno è apparso chiaramente è quello degli individui nati nel 1950 (e che nel 1990 avevano 40 anni) che è stato anche la prima generazione e sperimentare, in età adolescenziale, la rivoluzione sessuale. Per ciascun gruppo di età successivo l’incremento di mortalità dovuto a droghe, malattie del fegato, alcol e suicidi inizia più precocemente ed è più ripido, ossia raggiunge più velocemente livelli più alti. Queste tendenze sono più pronunciate per gli uomini che per le donne e variano in funzione del livello di istruzione, dove i dati di gran lunga peggiori sono quelli dei bianchi che hanno un diploma di scuola superiore o un titolo inferiore.

Gina Kolata e Sarah Cohen hanno elaborato queste scoperte sulla base dell’esame di 60 milioni di certificati di morte datati tra il 1990 e il 2014, ma quanto alle cause puntano il dito sugli oppioidi e non sull’alcol o sui suicidi16:

Nel 2014 il tasso di mortalità per overdose da droghe legali e illegali tra i bianchi nella fascia d’età compresa tra i 25 e i 34 anni era quintuplicato rispetto al 1999, mentre quello per la fascia d’età tra i 35 e i 44 anni era triplicato nello stesso periodo […] Mentre il tasso di mortalità dei giovani bianchi è cresciuto per ogni gruppo d’età nel corso dei cinque anni precedenti il 2014, esso è aumentato più velocemente, sotto ogni aspetto, per quelli meno istruiti, e cioè del 24% per coloro che non hanno un’istruzione di scuola superiore rispetto al solo 4% di quelli che hanno un diploma universitario o un titolo più elevato.

Un altro studio ha rilevato come l’incremento di mortalità non fosse attribuibile all’alcolismo, bensì all’epidemia dell’abuso di oppioidi. Gli autori osservano che il tasso di mortalità «ha cominciato ad aumentare intorno all’epoca in cui le prescrizioni di oppioidi sono divenute facilmente ottenibili e da allora ha continuato a salire costantemente»17.

Dato che un analogo aumento di mortalità non si è verificato in Europa, il mutamento culturale introdotto dalla psicanalisi non rappresenta l’unica causa18. Il generale declino culturale è scollegato dall’incremento della mortalità; il fatto che le relazioni familiari siano disfunzionali non implica, da solo, un tale incremento. Tuttavia ho il sospetto che i due fattori interagiscano tra loro, nel senso che se i sostegni culturali che esistevano fino agli anni 1950 fossero rimasti integri, la classe lavoratrice bianca non sarebbe caduta vittima dell’epidemia degli oppioidi.

Ancora una volta, gli individui con un profilo di storia di vita più veloce sono i meno capaci a controllare i loro impulsi e pertanto sono i più inclini ad un comportamento maladattivo in un ambiente culturale permissivo inondato dalle droghe nel quale i vincoli al comportamento di tipo religioso e culturale si sono indeboliti. L’effetto combinato di questi due fattori (il mutamento culturale portato dal trionfo della rivoluzione controculturale e l’eccesso di droghe) è stato un disastro per la classe lavoratrice bianca19. Sotto questo aspetto è interessante notare che la prima generazione che ha mostrato un aumento di mortalità è stata quella che è entrata nell’adolescenza negli anni Sessanta.

Come si legge ne La cultura della critica, il movimento che ha promosso l’uso degli oppioidi ha avuto origine tra le élite e si è basato in ultima analisi su dottrine pseudoscientifiche prodotte ai massimi livelli del sistema medico universitario e motivate dal tornaconto economico di una schiera di soggetti che va dai professori delle facoltà di medicina fino ai rappresentanti delle aziende produttrici e ai medici di base.

Un problema fondamentale nel trattare questo argomento, oggi, sta nel fatto che la tendenza all’incremento della mortalità messa in moto dai processi di cui si è detto è destinata a persistere, a prescindere da quanto facciano in governi in materia di prescrizione degli oppioidi. L’introduzione di nuove restrizioni ha semplicemente l’effetto di spingere i tossicodipendenti verso l’eroina ed altre droghe illegali. Infatti, mentre nel 2002 i casi di morte provocati dalla prescrizione di oppioidi erano molto più numerosi rispetto alla somma di quelli dovuti all’eroina e alle droghe sintetiche, nel 2017 i casi di morte per questa seconda causa sono stati 43000 contro i soli 17000 dovuti alla prescrizione di oppioidi20.

Il fenomeno degli oppioidi riflette la cultura americana posteriore agli anni Sessanta. E’ il prodotto della culture dell’élite, dotata di mezzi finanziari cospicui e con accesso alle più prestigiose istituzioni della società. Grazie a questo prestigio, essa è stata in grado di presentare informazioni sostanzialmente false come dati scientifici e di farle accettare dalla classe dirigente medica. Analogamente, nel caso della campagna per l’attuazione della legge sull’immigrazione del 1965, i comitati pro-immigrazione sono stati finanziati da soggetti facoltosi, sono stati prodotti studi accademici fraudolenti in favore dell’immigrazione, sono apparsi nei mezzi di informazione articoli che davano dell’immigrazione un’immagine positiva, sono stati pagati dei lobbisti e reclutate persone di spicco. Un buon esempio di quest’ultimo aspetto è dato da John F. Kennedy (che era destinato a diventare presidente) reclutato per figurare come autore di un libro intitolato A Nation of Immigrants [Una nazione di immigrati, n. d. t.] scritto in realtà da Meyer Feldman e pubblicato dalla Anti Defamation League21.

Troviamo un’analogia anche nell’infrastruttura del movimento neoconservatore, con gruppi di esperti ben finanziati, portavoce illustri presso università prestigiose e una presenza nei media molto forte. I neocon possono essere certi che qualora dovessero perdere il loro lavoro presso il Dipartimento di Stato o quello della Difesa troverebbero ancora molte possibilità di impiego nel mondo universitario, nei centri di studio o nei gruppi lobbistici. Malgrado abbiano sostenuto politiche disastrose, come la guerra in Iraq, essi rappresentano ancora una componente molto potente del gruppo che gestisce la politica estera statunitense22.

Conclusione: l’effetto trasformativo della rivoluzione controculturale degli anni Sessanta.

La rivoluzione controculturale degli anni Sessanta ha avuto un effetto trasformativo sulla società americana altrettanto drammatico quanto quello prodotto dall’eclissi dell’aristocrazia e del modello indoeuropeo della cultura occidentale che ebbe inizio nel XVII secolo. Questa nuova cultura si basa fondamentalmente sull’importazione di non-occidentali con funzione di clienti della sinistra, fattore vitale per la permanenza della sua egemonia, come già si è visto in stati come la California, dove i conservatori anche moderati sono esclusi dal processo politico; tale fattore è anche considerato, da molti dei suoi sostenitori più convinti, come una garanzia contro l’ascesa dei movimenti identitari bianchi che si oppongono con forza agli interessi dei gruppi minoritari.

Se questo processo di trasformazione non verrà invertito, esso comporterà sostanzialmente la fine del nucleo etnico della civiltà occidentale e, molto probabilmente, di tutto l’insieme delle strutture culturali create dall’Occidente. E a causa dell’incremento delle politiche volte a tutelare le identità non-bianche, significherà probabilmente la fine dell’individualismo, nella misura in cui i bianchi si raccoglieranno in gruppi coesi in grado di affermare i loro interessi nel nuovo contesto multiculturale.


Note.

 

  • Eric P. KAUFMANN, The Rise and Fall of Anglo-America, Cambridge, Harvard University Press, 2004.
  • Kevin MACDONALD, The Culture of Critique: An Evolutionary Analysis of Jewish Involvement in

Twentieth-Century Intellectual and Political Movements, Bloomington, IN, AuthorHouse, 2002 (ed. orig.

Westport, CT, Praeger, 1998), cap. 3.

  • Ibid., cap. 4.
  • Questi risultati sono posti in evidenza da Anne CASE e Angus DEATON nel loro influente articolo Mortality and Morbidity in the 21st Century, “Brookings Papers on Economic Activity”, marzo 2017; https://www.brookings.edu/wp-content/uploads/2017/03/6_casedeaton.pdf
  • Richard J. HERRNSTEIN, Charles MURRAY, The Bell Curve: Intelligence and Class Structure in American Life, New York, Free Press, 1994.
  • FIGUEREDO et al., The Psychometric Assessment of Human Life History Strategy.
  • Norman PODHORETZ, In the Matter of Pat Robertson, “Commentary”, agosto 1995: 28-32, 30.
  • MACDONALD, The Culture of Critique.
  • , J. Philippe RUSHTON, Race, Evolution and Behavior: A Life History Perspective, Nwe Brunswick, NJ, Transaction Publishers, 1994.
  • Michael Patrick DUNNE, Nicholas G. MARTIN, Andrew C. HEATH, Genetic and Environmental

Contributions to Variance in Age at First Sexual Intercourse, “Psychological Science”, 8, n. 3, gennaio

1997: 211-216; https://journals.sagepub.com/doi/abs/10.1111/j.1467-9280.1997.tb00414.x

  • Sara MCLANAHAN, Christopher JENCKS, Was Moynihan Right?, “Education Next”, 15, n. 2, primavera 2015.
  • Charles MURRAY, Coming Apart: The State of White America, 1960-2010, New York, Crown Forum, 2012.
  • CASE, DEATON, Mortality and Morbidity in the 21st Century.
  • Lawrence MISHEL, Elise GOULD, Josh BIVENS, Wage Stagnation in Nine Charts, “Economic Policy Institute”, 6 gennaio 2015; https://www.epi.org/publication/charting-wage-stagnation/
  • CASE, DEATON, Mortality and Morbidity in the 21st Century. Come osserviamo più avanti, studi basati su dati più recenti rilevano un brusco incremento della mortalità tra i negri e gli ispanici provocato dagli oppioidi.
  • Gina KOLATA e Sarah COHEN, Drug Overdoses Propel Rise in Mortality Rates of Young Whites, “The New York Times”, 16 gennaio 2016; https://www.nytimes.com/2016/01/17/science/drug-overdoses-propelrise-in-mortality-rates-of-young-whites.html?_r=0
  • Opioids and Obesity, Not “Despair Deaths”, Raising Mortality Rates for White Americans, “Science Daily”, 20 luglio 2017:

https://www.sciencedaily.com/releases/2017/07/170720142334.htm

  • Mente gli studi precedenti avevano rilevato una mortalità più alta tra i bianchi, in particolare tra quelli appartenenti alla classe lavoratrice delle zone rurali, studi più recenti hanno osservato un aumento della mortalità nella popolazione negra e ispanica e nelle aree urbane; si veda ad esempio Marisa PEÑALOZA, The Opioid Crisis Is Surging in the Black, Urban Communities, “NPR”, 8 marzo 2018:

https://www.npr.org/2018/03/08/579193399/the-opioid-crisis-frightening-jump-to-black-urban-areas [19] Kevin MACDONALD, Opioids and the Crisis of The White Working Class, “The Occidental Quarterly”, 18, n. 1, primavera 2018: 41-56.

  • Sources and Burden of Opioids, National Institute for Health Care Management Foundation, dicembre 2018. Lo studio si basa su dati aggiornati al 2017: https://www.nihcm.org/categories/sources-and-burden-of-opioid-deaths
  • Jerry KAMMER, The Hart-Celler Immigration Act of 1965, Center for Immigration Studies, 30 settembre 2015; https://cis.org/Report/HartCeller-Immigration-Act-1965 [22] MACDONALD, Neoconservatism as a Jewish Movement.

 

 

INDIVIDUALISMO E TRADIZIONE PROGRESSISTA OCCIDENTAL: Capitolo 9, TRADIZIONE PROGRESSISTA E MULTICULTURALISMO.

INDIVIDUALISMO E
TRADIZIONE PROGRESSISTA OCCIDENTALE.
Origini evolutive, storia e prospettive future.
traduzione italiana di Marco Marchetti

TRADIZIONE PROGRESSISTA E MULTICULTURALISMO.

 

 

Questo libro ha messo in risalto il filone progressista della cultura occidentale che deriva, in ultima analisi, dall’individualismo europeo, a sua volta riconducibile alle origini stesse delle popolazioni europee occidentali. Come osservato in più luoghi, un aspetto fondamentale dell’individualismo consiste nel fatto che la coesione di gruppo non si basa sulla parentela, ma sulla reputazione, e in particolare su una reputazione morale di persona onesta, affidabile ed equa.

Queste tendenze culturali progressiste ed egualitarie contengono numerosi aspetti positivi. E’ facile intuire  come una guida intellettuale o religiosa possa trovare dei  difetti nella cultura aristocratica e sostanzialmente IE che ha dominato l’Europa per millenni. L’aristocrazia, originariamente composta da capi militari che si erano guadagnati la loro posizione sui campi di battaglia, si era in molti casi trasformata in una élite parassitaria e oppressiva sul piano politico e su quello economico, lontana dal popolo che essa governava e, assai spesso, dedita a un vistoso consumismo e a un comportamento sessuale degenerato, in particolare in Francia.

In una situazione del genere i movimenti sociali egualitari esercitavano un’ovvia attrattiva, e a partire dal XVIII secolo essi si impegnarono a migliorare le condizioni spesso terribili delle classi lavoratrici e a porre fine allo schiavismo.

Ciò nondimeno, la tradizione aristocratico-egualitaria ha avuto certamente, in sé, molte caratteristiche positive. Nel mondo antico, questa tradizione si basava saldamente sull’idea che la società dovesse essere dominata da coloro che possedevano una naturale superiorità. Theodor Mommsen, il grande storico di Roma, osservò che

 

l’aristocrazia senatoria aveva guidato lo stato non tanto in virtù di un diritto naturale, bensì in virtù del più alto di tutti i diritti di rappresentanza: il diritto di chi è superiore, in contrapposizione all’uomo semplicemente ordinario1.

 

Tutto quanto poteva essere richiesto ad un’assemblea di cittadini, come quelli romani, che non rappresentava la forza motrice del potere ma la solida struttura dell’intera sua macchina; una chiara percezione del bene comune, una perspicace deferenza nei confronti di un giusto capo, uno spirito saldo nei giorni prosperi come in quelli avversi e, soprattutto, la capacità di sacrificare l’individuo per il vantaggio generale e il benessere presente per quello futuro: tutte queste qualità erano presenti nella comunità romana a un livello così elevato che, se osserviamo la sua condotta nell’insieme, ogni critica si dissolve in riverente ammirazione2.

 

Si può certamente ammirare una tale aristocrazia, e negli ultimi tempi della storia europea vi furono certamente dei casi in cui le aristocrazie servirono gli interessi della comunità nel suo insieme. Viene in mente re Luigi IX di Francia (San Luigi) ricordato nel capitolo 5 come promotore degli interessi economici dell’intera comunità piuttosto che dell’incremento della propria ricchezza personale; si devono anche menzionare le numerose campagne militari condotte da eroi aristocratici come Carlo Martello contro gli invasori musulmani. Ma tutto ciò non vale come regola generale, e certamente non lo si può dire delle élite che attualmente dominano l’Occidente, nelle quali predominano la miopia, l’opportunismo, l’avidità e i meschini interessi individuali ed etnici. La prospettiva di creare un’aristocrazia come quella del passato appare, nella situazione attuale, semplicemente utopica.

Le tendenze egualitarie che nel XVII secolo iniziarono la loro ascesa verso l’egemonia liberarono una creatività e un’innovazione enormi, nella misura in cui lo status sociale ereditario perdeva importanza nel nuovo contesto meritocratico che consentiva una mobilità sociale ascendente e premiava l’iniziativa e il talento individuali. Si ebbe una straordinaria fioritura delle scienze, della tecnologia, delle invenzioni e delle arti, al punto che, a paragone con tutte le altre aree del mondo, quasi tutti (97%) i protagonisti in questi campi furono maschi di origine europea, e in particolare dell’Europa nordoccidentale. In effetti, la mappa proposta da Charles Murray del «Nucleo Europeo» che diede origine a questa capacità inventiva coincide in misura notevole con l’area geografica descritta nel capitolo 4 come quella dell’individualismo moderato, che comprende le aree germaniche dell’Italia settentrionale ma esclude la Scandinavia (con l’eccezione della Danimarca che, come osservato nel capitolo 1, presenta una maggior comunanza genetica con la Germania rispetto al resto della Scandinavia) e l’Europa del sud (incluse la Francia e l’Italia meridionali)3.

Inoltre, sebbene i risultati delle scienze occidentali nel mondo antico non abbiano paralleli altrove (a mio giudizio Aristotele fu il più grande intellettuale di ogni tempo) questa fioritura ebbe inizio nel XVII secolo e coincise con l’ascesa dell’individualismo egualitario (capitolo 6).

 

L’individualismo come fattore predisponente alla scienza e al capitalismo.

 

L’individualismo come fattore predisponente alla scienza. Le popolazioni occidentali, istruite, ricche e democratiche (WEIRD) di cui si è parlato nel capitolo 3 hanno creato nell’Occidente postmedievale delle associazioni scientifiche e culturali che concepiscono il gruppo come un’entità permeabile e fortemente soggetta alla defezione, cioè ammettono l’esistenza di un mercato delle idee in cui gli individui possono distaccarsi dalla visione scientifica corrente qualora ritengano che i dati in loro possesso sostengano prospettive differenti. Sull’altro versante, le culture collettiviste hanno prodotto movimenti intellettuali orientati al gruppo e basati sulle affermazioni dogmatiche, sulla fedeltà ai capi, sulle reti etniche e sull’espulsione dei dissidenti4.

Ricardo Duchesne evidenzia il ruolo della discussione come componente critica del dibattito culturale europeo, analizzandola nei termini di un retaggio culturale IE connesso alla personale ricerca della fama5. A cominciare dall’antica Grecia, il dibattito intellettuale fu intensamente competitivo, e gli individui erano liberi di abbandonare una particolare scuola se ne trovavano un’altra più attraente6. Gli intellettuali cercavano seguaci non sulla base di preesistenti legami parentali o etnici, bensì valendosi della loro capacità di attrarre un seguito in un liberto mercato delle idee nel quale gli individui erano liberi di cambiare il loro punto di vista. Come i membri di un Männerbund erano liberi di lasciare un gruppo per unirsi ad altri gruppi che presentavano oggettivamente migliori possibilità di successo, così il libero mercato delle idee ricorreva naturalmente ad argomenti e idee che potevano attrarre individui liberi di disertare da gruppi altamente permeabili. In un contesto sociale in cui tutti sono ugualmente liberi di disertare, gli argomenti logici e le teorie predittive sul mondo naturale acquisiscono una posizione di primo piano.

La discussione implica che gli individui siano liberi di dissentire. I movimenti scientifici sono gruppi fortemente permeabili cui membri sono inclini alla diserzione qualora trovino una teoria migliore o vengano alla luce nuovi dati. Una questione fondamentale nella filosofia della scienza consiste nel definire il tipo di comunità di discorso che promuove il pensiero scientifico in ogni area di ricerca. Per usare le parole di Donald Campbell, la questione è sapere «quale sistema sociale di esame e di conservazione delle credenze è quello che ha le migliori probabilità di far crescere la competenza di riferimento relativa a ciò che credono i suoi presunti referenti»7. Il progresso scientifico (la “competenza di riferimento” di Campbell) dipende da un universo di discorso individualista e atomizzato nel quale ciascun individuo vede se stesso non come un membro di una più ampia entità politica o culturale che propone un particolare punto di vista, bensì come un agente indipendente che tenta di valutare le prove e di scoprire la struttura della realtà.

Come osserva Campbell, un aspetto critico della scienza, così come essa si è sviluppata nel XVII secolo, fu che gli individui erano agenti indipendenti che potevano riprodurre le scoperte scientifiche per conto proprio8. Sicuramente, nella scienza concreta l’opinione scientifica si coagula attorno a certe proposizioni (p. es. la struttura del DNA o i meccanismi psicologici del rinforzo) ma questo consenso scientifico è fortemente soggetto ad essere abbandonato nell’eventualità in cui nuovi dati mettano in dubbio le teorie sostenute fino a quel momento. Arthur Jensen sintetizza bene questa idea osservando che «quando molti singoli scienziati […] sono tutti in grado di pensare come vogliono e svolgono le loro ricerche indipendentemente da vincoli collettivisti o totalitari, la scienza è un processo che si autocorregge»9.

Gli argomenti razionali fanno presa sugli osservatori disinteressati e sono passibili di confutazione. La loro efficacia non dipende dalla disciplina o dagli interessi di gruppo, perché nelle culture occidentali i gruppi sono permeabili e le defezioni individuali rappresentano la norma molto più che presso altre culture.

Inoltre, come si è osservato nel capitolo 3, le popolazioni WEIRD tendono maggiormente al ragionamento analitico (astraendo gli oggetti dal contesto, occupandosi delle loro caratteristiche e sviluppando regole atte a spiegare e a predire i fenomeni) che è opposto al ragionamento olistico (che si occupa delle relazioni tra l’oggetto e l’ambiente che lo circonda). Gli occidentali tendono a categorizzare gli oggetti sulla base di regole che sono indipendenti dalla loro funzione e pertanto più astratte, mentre i non occidentali sono più inclini a categorizzare in base alla funzione e alle relazioni col contesto. La scienza si occupa sostanzialmente di creare regole astratte indipendenti dal contesto e di sviluppare spiegazioni e previsioni dei fenomeni del mondo empirico. Tali caratteristiche, già visibili nel mondo antico greco-romano, predispongono al pensiero scientifico.

A questo riguardo, è interessante notare come avere un elevato livello di intelligenza generale (q. d. i.) faciliti la soluzione dei problemi tramite decontestualizzazione e astrazione. La decontestualizzazione è anche un aspetto del pensiero operatorio formale di Jean Piaget, «l’indipendenza della sua forma dal suo contenuto di realtà»10. Questo perché sia l’intelligenza generale che il pensiero operatorio formale di Piaget sono in grado di inibire la modalità predefinita della cognizione umana che consiste nell’elaborare l’informazione in una maniera che è fortemente sensibile al contesto ed è automatica. Noi possediamo una «euristica automatica», delle «regole del pollice» inconsce che ci permettono di elaborare velcemente le informazioni nel nostro ambiente, formulare deduzioni, giudizi e decisioni11.

Le persone tendono automaticamente a contestualizzare i problemi nei termini della loro esperienza personale e specialmente della loro esperienza sociale. Ad esempio, molte persone sono influenzate da esperienze personali forti ma non rappresentative (p. es. l’essere scampati per un soffio alla morte in un incidente aereo) molto più che da valide informazioni statistiche (che mostrano come viaggiare in aereo sia più sicuro che viaggiare in automobile). Di conseguenza, a meno che non inibiscano tali tendenze, esse compiono errori in problemi che sono del tutto formali, come i sillogismi logici, i problemi geometrici e matematici o quelli che si incontrano in un test di intelligenza culturalmente equo, come le matrici progressive non verbali di Raven12. La decontestualizzazione risulta dall’inibizione e dal conseguente controllo di questi processi automatici; essa perciò consente all’individuo di affrontare problemi di logica formale o di matematica che sono astratti da qualsiasi contesto sociale o personale.

Gli studiosi del q. d. i. sono ben consapevoli della centralità della decontestualizzazione per quanto riguarda l’intelligenza e il suo rapporto con la scienza. Così Arthur Jensen:

 

Uno dei ben noti sottoprodotti della scolarizzazione è un’accresciuta capacità di decontestualizzare i problemi. In quasi ogni materia […] gli allievi imparano a scoprire la regola generale che si applica ad una situazione molto specifica e ad applicare una regola generale a un’ampia varietà di contesti differenti. L’uso, nella lettura, di simboli che stanno al posto degli oggetti (e la notazione musicale); le operazioni aritmetiche di base; la coerenza nell’ortografia, nella grammatica e nella punteggiatura; le regolarità e le generalizzazioni nella storia; la categorizzazione, la serialità, l’enumerazione e la deduzione nelle scienze, e così via. Imparare a fare queste cose, che fanno tutte parte del curriculum scolastico, instilla abitudini cognitive che possono essere indicate come decontestualizzazione delle capacità cognitive. L’obiettivo di molti test non verbali o indipendenti dalla cultura non richiede una conoscenza scolastica in quanto tale, ma la capacità di decontestualizzare nuove situazione scoprendo regole o regolarità e utilizzandole per risolvere il problema13.

 

Il pensiero si è evoluto in un contesto sociale e i processi di contestualizzazione funzionano di solito in maniera molto efficace nelle situazioni quotidiane; tali processi sono automatici (cioè sono riflessi psicologici che non richiedono una ponderazione consapevole) e avvengono velocemente e senza sforzo, mentre il pensiero decontestualizzato è relativamente lento e richiede impegno (che è il motivo per cui i bambini, in un contesto educativo, devono concentrarsi e applicarsi per eseguire un compito). Comunque, a prescindere dai test di intelligenza, esistono molte situazioni della vita reale nelle quali è richiesta la decontestualizzazione, dove cioè gli individui devono risolvere problemi in situazioni nuove; e in generale, gli individui che possiedono una più elevata intelligenza generale riescono meglio a ragionare in modo logico su tali problemi14.

L’aver scoperto che le persone WEIRD tendono al ragionamento logico-scientifico spiega dunque l’origine della scienza quale fenomeno peculiare dell’Occidente. A cominciare dal mondo antico greco-romano, l’argomentazione logica ha caratterizzato le culture occidentali più di qualunque altra area culturale. Come ha evidenziato Ricardo Duchesne, per quanto i cinesi abbiano fatto molte scoperte pratiche, essi non hanno mai sviluppato l’idea di un universo razionale e ordinato, retto da leggi universali comprensibili all’uomo. Né hanno mai sviluppato un «metodo deduttivo di dimostrazione rigorosa in base al quale una conclusione o un teorema venissero provati tramite il ragionamento a partire da una serie di assiomi autoevidenti»15.

Queste leggi universali e generalizzate e questi teoremi geometrici o matematici derivati da assiomi sono regole decontestualizzate, cioè regole che pur concernendo triangoli perfetti o moti senza attrito hanno comunque numerose applicazioni nel mondo reale. Questa è l’essenza del ragionamento scientifico. Il concetto galileiano di moto senza attrito, ad esempio, non permette di predire in maniera accurata il moto di un oggetto lungo un piano inclinato, perché nel mondo reale l’attrito è sempre presente. Tuttavia, questo concetto è stato molto utile per effettuare previsioni della realtà e per concepire un’ampia serie di manufatti che vanno dai motori alle strade.

L’esame delle popolazioni WEIRD fatto nel capitolo 3 mette in risalto il radicamento sociale del ragionamento morale presso le culture collettiviste in contrasto con la tendenza occidentale a creare regole morali astratte che si applicano a chiunque. Per i collettivisti il ragionamento morale implica tener conto del contesto sociale, che ruota sostanzialmente attorno al problema di adattarsi ad un gruppo di parentela e di rafforzarlo. Per gli individualisti il mondo sociale comporta una maggior necessità di interagire con estranei e di considerare la loro reputazione per quanto attiene al rispetto di regole impersonali.

La mia proposta è che le culture individualiste e il retaggio genetico dell’Occidente predispongano gli occidentali ad astrarre il loro giudizio dal contesto sociale, e che ciò di conseguenza abbia predisposto l’Occidente al pensiero razionale e scientifico, come pure ad un peculiare metodo di ragionamento morale. Gli individui sono valutati in quanto tali, in base a tratti come l’onestà, l’intelligenza, il talento militare, la logicità ed utilità delle argomentazioni, facendo astrazione dai loro (relativamente deboli) legami di parentela. Le situazioni morali sono valutate in base ad un concetto astratto di giustizia che si applica a tutti gli individui, piuttosto che essere essenzialmente vincolate agli obblighi sociali verso un particolare gruppo costituito da una particolare rete di legami di parentela estesa. Di fronte al mondo reale, per gli individualisti è più facile astrarre dal contesto sociale e dall’esperienza personale, così come ricercare ed applicare leggi naturali  universali.

 

L’individualismo come fattore predisponente al capitalismo.

Oltre alla scienza, nella nuova cultura dell’individualismo egualitario sorta a partire dal XVII secolo è fiorito anche il capitalismo, che ha finito per minare le culture aristocratiche basate sullo status ereditario. Nel XX secolo, in Gran Bretagna, le antiche famiglie di proprietari terrieri con un albero genealogico che risaliva al Medioevo (e che guardavano con disprezzo al successo negli affari) stavano andando in bancarotta e vendevano le loro proprietà a facoltosi capitalisti i cui antenati erano contadini, sarti e piccoli commercianti; oppure facevano sposare i loro figli con quelli dei ricchi capitalisti, in modo da poter conservare le loro proprietà.

Il contesto sociale in cui la cultura aristocratica decadde e in cui le persone furono libere dagli obblighi verso i signori feudali lasciò libero spazio alle tendenze acquisitive individuali e ad una cultura capitalista. Ciò ebbe come conseguenza grosse differenze nel successo economico16. Come sostiene Gregory Clark nel suo libro Farewell to Alms, ciò a sua volta condusse ad una selezione naturale dell’industriosità e dell’intelligenza nel contesto precedente il XIX secolo in cui la ricchezza era positivamente correlata al numero dei figli17.

La trasformazione dell’Occidente era completa. E’ pur vero che la rivoluzione industriale ebbe un’enorme effetto perturbatore («le sofferenze e lo sconvolgimento che l’Inghilterra subì tra il 1790 e il 1850 sono stati tra i peggiori nel corso della sua storia»18) e lo stesso si può dire del processo di industrializzazione che ebbe luogo in alte aree dell’Occidente; tuttavia, in Inghilterra «il tenore di vita della maggior parte delle persone crebbe nettamente nella seconda metà del [XIX] secolo»19. Le società occidentali non soltanto divennero ricche come non lo erano mai state fino ad allora, ma crearono anche condizioni di vita più che adeguate per la classe lavoratrice e la possibilità di mobilità sociale ascendente per gli individui dotati e ambiziosi.

Nell’arco di tempo che va dalla metà del XVII secolo agli anni 1960 l’Occidente ha tratto beneficio da questi movimenti e si è incamminato lungo la strada della creazione di società non solo più ricche, ma anche più giuste e più eque. Negli Stati Uniti degli anni 1950 esistevano già forti tendenze verso un trattamento sempre più equo degli afroamericani. L’Occidente aveva perso le sue colonie lasciando in eredità l’autogoverno, consistenti infrastrutture e istituzioni educative a gran parte dell’Africa e dell’Asia20. Nel 1991 l’Unione Sovietica è crollata, lasciando l’Occidente in una condizione di egemonia senza rivali.

 

Cosa è andato storto? La nuova élite e la sua avversione per la nazione che essa governa.

 

Dunque, cos’è andato storto? Come mai poco più di mezzo secolo dopo la rivoluzione controculturale l’Occidente è sull’orlo del suicidio, ovunque inondato da altre popolazioni, da genti tipicamente molto più tribali e molto più inclini alla corruzione (un problema endemico in gran parte del terzo mondo, dove le relazioni si basano principalmente sui rapporti di parentela più che sui meriti individuali e sulla fiducia verso i non consanguinei) e spesso, palesemente, dotate di un’intelligenza inferiore? Le cose sono arrivate al punto in cui i popoli occidentali stanno per diventare minoranza in aree che hanno dominato per centinaia o, in Europa, migliaia di anni. Sostanzialmente, se le tendenze attuali continueranno, il loro peculiare patrimonio genetico andrà completamente perduto. Basta soltanto considerare le tendenze demografiche di tutti i paesi occidentali che mostrano un continuo declino della percentuale dei bianchi rispetto alla popolazione mondiale, con un tasso di natalità che è al di sotto del livello sostitutivo, nel contesto di una massiccia immigrazione di non-bianchi. L’estinzione, dopo tutto, costituisce una parte della storia della vita tanto quanto l’evoluzione di nuove forme viventi.

Questo disastro attualmente in corso, che riguarda la popolazione americana tradizionale, è la diretta conseguenza dell’ascesa di una nuova élite come risultato della controrivoluzione culturale degli anni 1960.

Questa nuova élite disprezza la popolazione e la cultura tradizionali americane. Così David Gelernter:

 

La vecchia élite era in buoni rapporti col paese ai cui vertici si collocava. I membri della vecchia classe sociale superiore erano più ricchi e meglio educati rispetto al grosso della popolazione, ma concepivano la vita sostanzialmente negli stessi termini. La gente comune andava in chiesa e lo stesso facevano loro. La gente comune entrava nell’esercito e lo stesso facevano loro. La gente comune organizzava matrimoni semplici e l’élite matrimoni più lussuosi, ma quasi tutti utilizzavano il medesimo linguaggio dignitoso e nessuno si metteva in mostra. Erano tutti concordi sul fatto che l’arte fosse uno spreco (quella era l’America) che degli scienziati si potesse dubitare, che l’ingegneria, le macchine, il progresso e la natura fossero cose buone. Alcuni aspetti della mentalità dei vecchi tempi avevano un senso, altri no; ma la manovalanza e i suoi capi erano fondamentalmente concordi […].

L’élite odierna detesta la nazione che essa governa. Niente di personale, solo una sostanziale differenza nella visione del mondo, e tuttavia il sentimento è inequivocabile. Occasionalmente, esso si manifesta come un geyser rovente. Così Michael Lewis scrive sul New Republic a proposito della campagna presidenziale di Dole dell’autunno 1996: «la gente fa gestacci col dito medio agli autobus carichi di giornalisti e rivolge loro cantilene offensive; i giornalisti, dal canto loro, portano distintivi con scritto “Sì, io sono nei Media. E tu vai a farti fottere!”». La gente odia i giornalisti e i giornalisti odiano la gente: siamo pari, eccetto per il fatto che i giornalisti detengono un potere e la gente (di fatto) non ne ha nessuno21.

 

Questa cultura ostile e antagonista è ora molto più diffusa e più esplicitamente affermata di quando, due decenni or sono, comparve l’articolo di Gelernter, come appare ad esempio dalle frequenti manifestazioni di astio contro i bianchi di cui si è detto nel capitolo 8. E’ stata sicuramente evidente nel corso delle elezioni [presidenziali americane, n. d. t.] del 2016 e in seguito, quando la stragrande maggioranza dei media ha dato mostra di un odio quasi furioso nei confronti di Donald Trump. Questi, durante i suoi comizi, è solito restituire il favore, spesso puntando il dito contro i media e riferendosi ad essi con espressioni come «le gente più corrotta del mondo» o simili, suscitando l’entusiastico applauso del suo uditorio.

Fondamentalmente, l’assuefazione della sinistra alle politiche identitarie ha distrutto la tradizionale base sociale e classista della politica occidentale, producendo uno scenario politico che si basa sull’identità etnicorazziale e sui vantaggi elettorali per i partiti di sinistra e per gli interessi affaristici (tramite il lavoro a basso costo) ottenuti importando milioni di non-bianchi nei paesi occidentali. Storicamente, ciò ha avuto inizio con un mutamento avvenuto tra gli intellettuali legati alla Scuola di Francoforte in risposta all’emergere del nazionalsocialismo in Germania nel corso degli anni 193022. Questi intellettuali erano stati marxisti ortodossi convinti che le fondamentali divisioni nella società fossero quelle basate sulle classi sociali, i quali tuttavia si resero conto del fatto che l’analisi marxista classica non poteva spiegare l’attrazione che il nazionalsocialismo esercitava nei confronti della classe lavoratrice tedesca.

Temi comuni negli scritti [della corrente legata alla Scuola di Francoforte, n. d. t.] sono l’ostilità verso il populismo americano, il bisogno di una guida rappresentata da un’élite di intellettuali e la patologizzazione dell’identità e del perseguimento degli interessi dei bianchi, che include un’ideologia secondo la quale la preoccupazione dei bianchi per il rischio di essere soppiantati e per la crescita del potere delle minoranze etniche è irrazionale e sintomo di una psiche disturbata.

Questi temi misero radici nei circoli intellettuali degli anni 1950 e divennero dominanti con il successo della rivoluzione controculturale degli anni 1960.

E siccome le società bianche omogenee erano considerate, alla lunga, inevitabilmente pericolose (come dimostrava il caso della Germania nel periodo tra il 1933 e il 1945) questa ideologia venne a saldarsi con lo sforzo di ribaltare la legge del 1924 che poneva dei limiti all’immigrazione favorendo quella che proveniva dall’Europa nordoccidentale23. Il risultato fu la legge Hart-Cellar del 1965 che aprì le porte all’immigrazione di tutti i popoli del mondo e che fu promulgata nello stesso periodo in cui si svolse la fase finale dell’ascesa al potere della nuova élite.

Nel corso degli anni l’immigrazione legale è cresciuta fino ad oltre un milione di unità l’anno, per un totale di 59 milioni di persone fino al 2015, epoca nella quale gli immigrati di prima e seconda generazione erano arrivati a costituire il 26% della popolazione e quasi 65 milioni di americani non parlavano inglese nell’ambito domestico24.

 

Gli americani nati all’estero e i loro discendenti hanno rappresentato la componente principale della crescita della popolazione degli Stati Uniti, come pure del mutamento razziale ed etnico della nazione, da quando la promulgazione della legge del 1965 ha ridefinito la politica nazionale sull’immigrazione. […] Senza l’immigrazione verificatasi a partire dal 1965, gli Stati Uniti […] avrebbero una popolazione bianca pari al 75% invece del 62% attuale. Gli ispanici sarebbero l’8% della popolazione e non il 18%. E gli asiatici sarebbero meno dell’1% degli americani, invece che il 6%25.

 

Il risultato è stata la polarizzazione della politica in senso razziale, nella misura in cui i bianchi si sono raggruppati sempre più attorno al Partito Repubblicano, mentre coloro che sono immigrati dopo il 1965 e i loro discendenti si sono raggruppati attorno al Partito Democratico, insieme ad altri gruppi già presenti in precedenza come i negri e gli ebrei. Nel 2016 oltre il 90% dei voti repubblicani proveniva dai bianchi, mentre il 40-44% dei voti democratici proveniva dai non-bianchi26. Questa tendenza alla polarizzazione razziale aumenterà probabilmente in futuro, anche nel caso in cui l’immigrazione dovesse essere improvvisamente bloccata, perché coloro che sono già immigrati e i loro figli tendono ad essere più giovani rispetto alla popolazione autoctona.

Se la tendenza attuale continuerà, il Partito Democratico e la sinistra in generale domineranno la politica americana a cominciare da un futuro molto prossimo, assai probabilmente dalle elezioni del 2020. Malgrado la retorica anti-immigrazione del presidente Trump, nulla ha sostanzialmente cambiato la linea della politica immigratoria americana, col risultato che, salvo il caso in cui si verifichi un qualche tipo di cataclisma, la sinistra otterrà presto la presidenza ed entrambe le camere del Congresso. La sinistra ha già dato prova delle sue tendenze autoritarie, in particolare per quanto concerne la libertà di parola. I campus universitari sono divenuti il bastione dell’intolleranza progressista o di sinistra verso qualunque posizione conservatrice, anche moderata27. Una o due nomine di giudici della Corte Suprema fatte da un presidente progressista faranno sostanzialmente piazza pulita del Primo e del Secondo Emendamento. E la retorica anti-bianca di cui si è parlato nel capitolo 8 si inasprirà assai oltre l’attuale livello.

La frattura su base razziale, che va facendosi più profonda, segnerà la fine dell’individualismo per la popolazione bianca americana, nella misura in cui questa si concentrerà in gruppi coesi in un ambiente antibianco sempre più ostile. Un’impennata di etnocentrismo da parte della maggioranza della popolazione americana di origine europea è un esito probabile del panorama politico e sociale contemporaneo, sempre più strutturato in gruppi, probabilmente perché i meccanismi psicologici umani, prodotti dall’evoluzione, funzionano attribuendo un maggiore risalto alla distinzione tra il proprio gruppo d’appartenenza e i gruppi estranei in situazioni di competizione per le risorse e di ostilità tra gruppi (si veda il capitolo 8). I principali esempi di collettivismo in Occidente (la cristianità medievale e il nazionalsocialismo tedesco) sono stati caratterizzati da atteggiamenti di gruppo fortemente negativi e da nette divisioni sociali.

 

I movimenti intellettuali di sinistra hanno approfittato della tradizione progressista occidentale.

 

Gli intellettuali che sono arrivati a dominare il dibattito culturale americano e il mondo accademico erano ben consapevoli della necessità di fare appello alle tendenze occidentali all’individualismo, all’egualitarismo e all’universalismo morale che sono state prese in esame in questo volume. Un tema de La cultura della critica è che le accuse morali rivolte ai loro oppositori hanno avuto un ruolo di primo piano negli scritti di questi intellettuali attivisti, inclusi i radicali e coloro che rifiutano il punto di vista biologico circa le differenze di quoziente intellettivo tra gli individui e i gruppi. Un senso di superiorità morale era altresì prevalente nel movimento psicanalitico, e la Scuola di Francoforte ha sviluppato l’idea che le scienze sociali dovessero essere giudicate in base a criteri morali.

Il trionfo di questi movimenti intellettuali fino ad ottenere il consenso in Occidente ha prodotto una comunità morale in cui coloro che non ne accettano le credenze sono visti non soltanto come deficienti sul piano intellettuale, ma anche come moralmente riprovevoli.

Israel Zangwill rappresenta un buon esempio di attivista intellettuale che ha sottolineato come gli ideali occidentali di moralità e di equità potessero essere utilizzati contro le restrizioni poste all’immigrazione.

 

Dovete condurre una battaglia contro [la legge limitativa dell’immigrazione del 1924]; dite loro che stanno distruggendo gli ideali americani. La maggior parte delle fortezze è fatta di cartone, e se farete pressione contro di esse, cederanno28.

 

L’America ha un ampio spazio per tutti i sei milioni della Zona di Residenza [il territorio in cui viveva la maggior parte degli ebrei russi]; ciascuno dei suoi cinquanta stati potrebbe assorbirli. E a parte l’avere un paese tutto per loro, non potrebbero avere un destino migliore di quello di ritrovarsi assieme in una terra di libertà religiosa e civile della cui costituzione il cristianesimo non fa parte e dove il loro voto collettivo li garantirebbe in pratica da ogni persecuzione futura29.

 

E’ stato osservato come durante il periodo della difesa etnica, negli anni 1920, il pensiero darwinista sulla razza fosse diffuso in tutta la cultura occidentale e avesse un ruolo importante per molti americani fautori delle restrizioni all’immigrazione, stimolati dal mutamento degli equilibri etnici negli Stati Uniti (cfr. il capitolo 6). Un tema de La cultura della critica è che gli intellettuali che acquisirono influenza a partire dagli anni 1930 (in particolare la scuola antropologica boasiana) presero di mira le teorie darwiniane sulla razza come pure le singole identità basate sulla coscienza razziale del gruppo bianco. Ad esempio, l’attacco rivolto alle identità razziali con l’obiettivo di promuovere un individualismo atomizzato degli americani di origine europea rappresentò una strategia centrale della Scuola di Francoforte. Le identità di gruppo fondate sulla razza e addirittura sulla famiglia vennero presentate come indicatori di patologia psichica. L’individualismo radicale venne dunque proposto da intellettuali che mantenevano un forte legame col proprio gruppo e ne promuovevano consapevolmente gli interessi.

Queste ideologie caddero su un suolo particolarmente fertile, perché si inserirono nelle tendenze individualiste dell’Europa occidentale. E se l’individualismo ha rappresentato la caratteristica chiave dei popoli occidentali nella loro ascesa verso il dominio mondiale, queste ideologie e la loro interiorizzazione da parte di un così gran numero di europei giocano ora un ruolo di primo piano nel facilitare l’espropriazione dell’Occidente.

In particolare, l’ideologia secondo la quale possedere un senso dell’identità bianca e degli interessi dei bianchi è sintomo di patologia mentale ha reso impossibile sostenere, nei mezzi di informazione maggioritari e nelle università, il legittimo interesse della popolazione bianca ad avere una propria terra e ad evitare di trasformarsi in minoranza all’interno delle società che essa ha dominato per centinaia e di anni, nel caso dell’Europa, per migliaia. Ideologie del genere sono diffuse dai mezzi di informazione maggioritari (che comprendono tanto quelli conservatori quanto quelli progressisti) e dal sistema educativo, dalle scuole elementari fino all’università.

Esse di fatto hanno prodotto una comunità morale che si oppone radicalmente agli interessi dei bianchi. E come nel caso dei puritani, la nuova élite è stata capace di creare una cultura di punizione altruistica nella quale i bianchi puniscono i loro simili che dissentono dai dogmi della comunità morale creata dalla nuova élite, anche a costo di compromettere i propri interessi a lungo termine e quelli dei loro discendenti.

Queste ideologie sono state rafforzate in misura crescente dai controlli sociali. Come si è detto nel capitolo 8, in gran parte dell’Occidente tali controlli includono una legislazione formale che punisce chi critica l’immigrazione e l’espropriazione dell’Occidente. Negli Stati Uniti, grazie al Primo Emendamento, questi controlli legali sono in una fase embrionale, ma è probabile che acquistino forza negli anni a venire qualora la sinistra vada al potere.

In ogni caso, i controlli informali sono molto efficaci sia negli Stati Uniti che nel resto dell’Occidente. Molte persone, ad esempio, sono state licenziate grazie ad una semplice telefonata fatta ai loro datori di lavoro da parte di organizzazioni attiviste. Queste organizzazioni approfittano dalla comunità morale creata dalle élite dei media e del mondo accademico nel corso degli ultimi  cinquant’anni per limitare l’influenza dei soggetti dissidenti e per esporli al pubblico giudizio, portandoli così all’ostracismo e alla perdita del lavoro. L’efficacia di queste tattiche si fonda sul consenso delle élite e sugli atteggiamenti conformisti della popolazione. Idee scientifiche che meno di un secolo fa erano del tutto rispettabili portano ora all’emarginazione e al licenziamento.

 

L’argomento morale a sostegno degli interessi dei bianchi.

 

In ultima analisi, l’efficacia della comunità morale della sinistra contemporanea dipende dalle tendenze occidentali all’individualismo e al progressismo, così come sono state esposte in questo volume. Gli attivisti bianchi che tentano di opporsi a questa comunità morale devono essere consapevoli della fortissima tendenza dei suoi componenti a voler essere parte di tale comunità. In particolare, essi devono porre l’accento sul fatto che i bianchi sono portatori di interessi moralmente legittimi. Per quanto i sentimenti morali degli abolizionisti del XVIII e del XIX secolo fossero certamente lodevoli, adottare un’ideologia di universalismo morale significa il suicidio in condizioni come quelle attuali, nelle quali la migrazione attraverso lunghe distanze è diventata facilissima. Chi definisce “razzisti” i bianchi che affermano i loro legittimi interessi tenta di porre i suoi avversari su un piano di illegittimità morale. Campagne del genere sono efficaci soltanto in Occidente. Ad esempio, Israele e i suoi sostenitori occidentali sono straordinariamente immuni all’accusa, malgrado abbiano edificato una società fondata su una politica immigratoria definita su basi etniche, sulla pulizia etnica, su politiche di apartheid nei confronti dei palestinesi e sull’espulsione dei migranti africani. Per uno psicologo evoluzionista l’aggressione moralistica nei confronti di coloro che dissentono dagli atteggiamenti del gruppo appare come un ovvio adattamento all’esigenza di mantenere i confini di un gruppo fortemente coeso e di sorvegliarne il comportamento.

I gruppi degli angli, degli juti e i loro discendenti puritani trassero senza dubbio un grande vantaggio dall’aggressione moralistica, per la capacità che essa ha di rafforzare le norme del gruppo e di punire opportunisti e disertori creando in tal modo dei gruppi efficaci. L’aggressione moralistica non è in sé sbagliata. La chiave sta nel convincere i bianchi a modificarla in una direzione più adattiva da un punto di vista darwinista. Dopo tutto, l’oggetto dell’aggressione moralistica è piuttosto malleabile.

Un comportamento adeguato in senso darwinista sarebbe dirigere l’aggressione moralistica verso gli appartenenti a qualunque etnia che hanno concepito o tengono in piedi i controlli culturali che stanno attualmente espropriando i bianchi dei loro territori storici. La base morale di tale proposta è piuttosto chiara:

 

  • Esistono differenze genetiche tra i popoli, così che, da un punto di vista evoluzionista, popoli differenti hanno legittimi conflitti di interessi30.
  • L’etnocentrismo ha profonde radici psicologiche che fanno sì che anche i bianchi, che sono relativamente poco etnocentrici, provino una maggiore attrazione verso coloro che sono geneticamente simili a loro e di costoro si fidino31. Tra gli occidentali l’etnocentrismo ha aperto la strada alla creazione di società omogenee e fortemente basate sulla fiducia, che sono state tradizionalmente più comuni in Occidente che altrove. Come si è osservato nel capitolo 8, gli studi hanno dimostrato che le aree in cui è presente una maggiore diversità culturale ed etnica tendono ad avere una minore partecipazione politica e una minore fiducia sociale, che include quella nei confronti dei membri del proprio gruppo razziale o etnico32.
  • Come osserva Frank Salter, le società in cui è presente un gruppo etnico predominante unito da vincoli di parentela e di cultura sono più inclini alle politiche redistributive (come la previdenza sociale) e a contribuire al bene comune (come ad esempio alla sanità pubblica)33.
  • Le società con una predominante maggioranza occidentale di origine europea sono predisposte verso sistemi politici caratterizzati dalla democrazia e dal governo delle leggi34. Vi sono già dei segnali che tali caratteristiche delle società occidentali europee siano minacciate, a causa dell’ascesa di forme di progressismo radicali basate sulla coercizione, sullo sradicamento delle libertà individuali e su modifiche radicali alla Costituzione. Una condizione necessaria per questa trasformazione è il nuovo elettorato che viene importato nei paesi occidentali in conseguenza delle politiche immigratorie generate, in ultima analisi, dall’approvazione della legge sull’immigrazione del 1965 e diffusesi negli altri paesi occidentali poco tempo dopo35.
  • L’accusa di corruzione morale che attualmente viene mossa ai bianchi in quanto gruppo, per via della loro storia di conquiste e dello schiavismo, si applica anche ai gruppi non-bianchi. Grandi gruppi umani (arabi, cinesi Han, bantu) sono stati in grado di monopolizzare sul piano etnico vaste aree in conseguenza delle conquiste dei loro antenati, e tuttavia non li si sente mai esprimere sensi di colpa per quelle loro conquiste o per il trattamento riservato ai popoli soggiogati; né sono destinatari di messaggi da parte delle loro élite che presentino come un imperativo morale l’accoglienza di milioni di non-bianchi.
  • A patire almeno dal XVIII secolo, le società occidentali sono state non soltanto più prospere, ma anche più giuste ed eque di quelle non occidentali, col risultato che una gran parte dell’umanità vorrebbe trasferirsi in Occidente. Un esempio notevole sta nel fatto che lo schiavismo ha continuato ad esistere in molte parti del mondo per molto tempo rispetto a quando fu abolito in Occidente, e continua ad esistervi anche oggi, in particolare in Africa36.
  • Poiché la gran maggioranza degli immigrati dopo il 1965 possiede un q. d. i. inferiore alla media dei bianchi, essi rappresenteranno per molto tempo un peso per la società, per via del loro scarso successo accademico in un’economia altamente tecnologica37, per l’elevato consumo di servizi sociali38 e per la tendenza alla criminalità39, specialmente dopo la prima generazione40. Ciò costituisce un costo a lungo termine per i contribuenti bianchi come pure un generale abbassamento del livello culturale.
  • Una consistente immigrazione ha come conseguenza una pressione verso il basso degli stipendi della classe lavoratrice41 e in misura crescente anche per i settori altamente tecnologici, con il proliferare dei visti di ingresso per i lavoratori del settore informatico provenienti dall’India e dalla Cina.
  • L’immigrazione ha avuto come conseguenza una radicalizzazione in senso razziale della politica e un aumento della polarizzazione politica e del conflitto sociale che possono in definitiva dimostrarsi catastrofici. Malgrado le guerre presentate come crociate morali contro crudeli dittatori (Iraq, Libia) le intromissioni occidentali in queste culture non ne hanno modificato la dinamica basata sulla parentela, cosa che rappresenta il segnale di un futuro sempre più frammentato per l’Occidente, a meno che il processo di trasformazione della società occidentale non venga invertito.
  • Ho già espresso i miei commenti sul crescente odio anti-bianco che promana dalla cultura dell’élite e dalla società occidentale in senso lato. Esso non farà che diventare più intenso man mano che i bianchi perderanno il potere politico, e potrà sicuramente potare ad un aumento della violenza nei loro confronti. Già si verifica che la probabilità che i bianchi siano vittime di crimini violenti perpetrati dai negri risulti molto più alta che nel caso opposto42.
  • A causa del livello di vita relativamente più alto dei paesi occidentali, l’importazione di milioni di poveri dal Terzo Modo ha effetti ambientali negativi.

 

E non è il caso di dire che i sostenitori entusiasti dell’immigrazione ignorano gli interessi etnici e genetici dei bianchi. Essi inoltre non si preoccupano della coerenza razionale: sarebbero infatti terrorizzati al solo pensiero che paesi come la Corea, la Nigeria o Israele dovessero subire un’immigrazione di entità paragonabile ad una sostituzione etnica.

Un buon segnale è che la gran maggioranza degli attivisti e dei simpatizzanti pro-bianchi considerano un forte imperativo morale la conservazione del nostro popolo e della nostra cultura. Spesso senza che dietro vi sia un pensiero consapevole, c’è la sensazione di formare una comunità morale, che ci porta a respingere e ad evitare coloro che odiano noi e le nostre idee. C’è un senso di rettitudine morale e di consapevolezza dell’ipocrisia e della corruzione dei nostri nemici, in particolare delle élite globaliste che oggi controllano il destino dell’Occidente. C’è una forte fiducia di essere nel giusto sul piano morale e su quello intellettuale. E questo è, in effetti, un punto di partenza molto buono. E’ un messaggio che incontrerà una risonanza crescente nell’ampia massa della popolazione bianca, man mano che l’Occidente si polarizzerà sempre di più lungo le linee di frattura etniche e si farà sempre più ostile nei confronti dei bianchi.

 

Conclusione: l’incerto futuro dell’Occidente.

 

Nel libro La cultura della critica scrivevo che «segmenti delle popolazioni del mondo di derivazione europea finiranno per rendersi conto di non aver ricevuto alcun beneficio dall’ideologia del multiculturalismo e da quella dell’individualismo de-etnicizzato». Prevedevo crescenti conflitti tra gruppi, così come un intensificarsi dei controlli sociali che tentano di puntellare il progetto multiculturale:

 

L’importanza del conflitto tra gruppi è qualcosa che non si sottolineerà mai abbastanza. Ritengo sia altamente improbabile che le società occidentali basate sull’individualismo e sulla democrazia possano sopravvivere a lungo alla legittimazione della competizione tra gruppi impermeabili l’appartenenza ai quali è definita in base all’etnicità. L’analisi fatta in Separation and Its Discontents [La separazione e i suoi inconvenienti, n. d. t.] suggerisce decisamente che, in ultima analisi, le strategie di gruppo provocano altre strategie di gruppo, e che le società si organizzano attorno a gruppi coesi e mutuamente esclusivi43. In effetti, i recenti movimenti multiculturali possono essere considerati come tendenti ad una forma di organizzazione sociale profondamente non occidentale che storicamente è stata assai più tipica delle società segmentarie del Medio Oriente basate su gruppi omogenei e separati […]

Esiste dunque una significativa possibilità che le società individualiste possano non sopravvivere alla competizione interna basata sui gruppi, sempre più diffusa e intellettualmente rispettabile negli Stati Uniti. Credo che, negli Stati Uniti, si stia percorrendo un pericoloso sentiero in discesa che porta al conflitto interetnico e alla creazione di enclavi collettiviste, autoritarie e razziste. Sebbene in America le idee e i comportamenti etnocentrici siano considerati legittimi sul piano morale e intellettuale soltanto quando vengono manifestati da parte di minoranze etniche, la teoria e i dati che vengono presentati in Separation and Its Discontents indicano come probabile risultato delle attuali tendenze lo sviluppo di un etnocentrismo più forte nella popolazione di origine europea […]

Ci si può aspettare che nella misura in cui il conflitto etnico negli Stati Uniti continuerà ad inasprirsi, verranno fatti tentativi sempre più disperati di imporre l’ideologia del multiculturalismo attraverso sofisticate teorie che postulano la natura psicopatologica dell’etnocentrismo dei gruppi maggioritari, come pure attraverso la creazione di controlli statali polizieschi su pensieri e comportamenti non conformi.

 

Come si è detto nel capitolo 8, molto di tutto ciò sta già accadendo. L’ideologia secondo cui l’etnocentrismo bianco non ha una fondamento intellettuale ed è un sintomo di patologia psichica viene promossa più vigorosamente che mai dai media come dal sistema educativo, mentre vengono incoraggiati l’identità e gli interessi etnici dei non-bianchi. L’odio anti-bianco da parte dei non-bianchi, e specialmente quello nei confronti dei maschi bianchi, è palesemente in crescita: una situazione che inevitabilmente rende i bianchi più consapevoli di sé in quanto gruppo. E constatiamo anche la presenza di controlli sociali sempre più severi che tentano di fornire un sostegno allo stato multiculturale, siano essi controlli informali basati sul consenso dell’élite (licenziamenti, ostracismo) siano anche, in molte parti dell’Occidente, condanne penali per soggetti che esprimono una visione pro-bianca od opinioni dissenzienti in materia di razza, di immigrazione o sull’importanza dell’influenza ebraica.

Molti commentatori, nell’attuale scenario americano, hanno osservato la crescente polarizzazione e l’incapacità di comunicare al di là della linea di divisione politica (che è sempre più etnica). I gruppi contrapposti sono portatori di visioni del mondo inconciliabili e vedono l’altra parte come l’incarnazione del male, aspetto che ricorda molto il pensiero millenarista di cui si è parlato, nel capitolo 6, come di una forte tendenza nella storia americana. Come ha scritto E. M. Bradford, «siamo già bene incamminati sulla strada di una retorica puritana in piena regola di guerra perpetua contro i “poteri dell’oscurità”: andiamo “verso due schieramenti universali armati, impegnati in una lotta mortale l’uno contro l’altro”»44.

Questo fenomeno continua ad inasprirsi, e il conflitto è visto, da tutte le parti, come irreconciliabile. Ciò si traduce in uno scontro esistenziale, nel quale sono in gioco valori fondamentali. Commentando l’atmosfera velenosa della politica americana del 2018, Hillary Clinton ha dichiarato che la civiltà nella politica americana può essere ristabilita qualora la sua parte, i democratici, vinca: «Non si può essere civili con un partito politico che vuole distruggere ciò per cui vi battete, quello che vi sta a cuore»45.

Questo suggerisce la possibilità di una guerra civile. In effetti, un sondaggio Rasmussen del 2018 indica che il 31% degli americani pensa che una guerra civile sia probabilmente vicina46.

Un possibile scenario di guerra civile è stato proposto da Michael Vlahos, che osserva come le guerre civili scoppino quando la popolazione di divide in campi contrapposti47.

 

Proprio a partire dalle elezioni del 2016 abbiamo assistito a un bombardamento di retorica d’èlite blu e rossa47a: affollamento della Corte Suprema, abolizione del collegio elettorale, revoca del Secondo Emendamento, invalidamento totale della legge federale, incatenamento dei diritti degli elettori e invocazione del Venticinquesimo Emendamento da parte dello “stato profondo”47b. Queste sono tutte azioni potenzialmente estreme che non soltanto smantellerebbero il nostro ordinamento costituzionale, ma lo distorcerebbero per adattarlo al concetto giuridico di virtù di una parte, cancellando così ogni parvenza di legalità dell’altra parte. Nel corso del tempo ciascun partito è stato emotivamente investito dalla bramosia di smantellare il vecchio per creare qualcosa di  nuovo.

Perciò le norme costituzionali esistono soltanto nominalmente fino a quando non verranno demolite e soltanto fino a quando un precario equilibrio elettorale  resterà in piedi. Un grande capovolgimento storico in favore di un partito e a svantaggio dell’altro spingerebbe molto velocemente la nazione verso una crisi, perché il partito vincente si precipiterebbe a mettere in atto il suo programma. Proprio la minaccia di una simile demolizione costituzionale verrebbe ad essere un sicuro casus belli. Capovolgimenti del genere, come quello degli anni 1770 contro la Gran Bretagna e quello degli anni 1850 contro i sostenitori dello schiavismo, sono stati gli autentici punti di svolta. La sentenza “Dred Scott contro Stanford” del 185747c non fu soltanto un punto di svolta: a livello inconscio la sua eredità grava ancora molto sugli americani odierni, nel momento in cui essi prendono in considerazione (spesso con passionalità isterica) le paurose conseguenze della nomina di [Brett] Kavanaugh [alla Corte Suprema] […].

La cosa chiara è che due partiti in guerra tra loro non accetteranno nulla di meno, ciascuno dall’altro, che la sottomissione, anche quando il perdente non intenda in alcun modo sottomettersi. Inoltre, l’ethos di ciascuna fazione è tale da renderla incapace di provare empatia per l’altra.

 

Vlahos suggerisce che «ciò che potrebbe derivarne sarebbe una riorganizzazione nazionale, una separazione de facto nella quale le regioni blu e quelle rosse procederebbero (e si governerebbero) ciascuna a modo suo, pur mantenendo la facciata formale di “Stati Uniti”».

 

  • La divisione non avverrebbe intermini propriamente regionali, quanto piuttosto tra realtà urbane e realtà rurali e tra bianchi e non-bianchi, per quanto com’è ovvio tali dicotomie si compenetrino in una certa misura. In tutti gli stati blu esiste una divisione tra le zone rurali e i grandi centri urbani che ha un ruolo dominante in politica e che rende vana una ripartizione in termini regionali. Inoltre, una frattura di tipo regionale sulla base di motivi ideologici chiaramente definiti, come quella verificatasi

nel caso della Guerra Civile, sarebbe più facile di una suddivisione in base a criteri artificiali, che creerebbe enormi problemi logistici.

  • Diversi analisti hanno suggerito vari modelli di divisione degli Stati Uniti al fine di rendere possibile uno stato etnico bianco. Ciò comporterebbe trasferimenti di popolazione analoghi a quelli verificatisi in occasione dell’espulsione dei tedeschi dall’Europa Orientale dopo la Seconda Guerra Mondiale e della divisione tra India e Pakistan nel 194848. In entrambi i casi si trasferirono milioni di persone, portando a un incremento dell’omogeneità etnica e religiosa di entrambe le aree. Un modello del genere, negli Stati Uniti odierni, comporterebbe enormi difficoltà logistiche, ma sarebbe certamente possibile se vi fosse una sufficiente volontà politica.
  • Una difficoltà considerevole nel caso di una divisione su basi razziali sta nel fatto che la sinistra è sul punto di diventare una maggioranza permanente all’interno dell’attuale sistema, grazie al suo elettorato d’importazione. La sinistra ha mostrato crescenti tendenze autoritarie, che verrebbero indirizzate ad impedire uno stato etnico bianco. La sinistra non ha mostrato alcuna tolleranza per le voci dissenzienti. In effetti, coloro che dissentono sono visti come la personificazione del male, esattamente come avvenne nel periodo che precedette la Guerra Civile. Se infatti la sinistra otterrà il potere, bisognerà aspettarsi un aumento della repressione politica, la fine della protezione della libertà di parola garantita dal Primo Emendamento, cambiamenti radicali alla Costituzione, una retorica anti-bianca più o meno ufficiale, un’ulteriore rimozione di monumenti storici e un aumento dell’indottrinamento tramite il sistema educativo.

 

Se ciò è corretto, allora dovremo aspettarci che la violenza sia un elemento dell’equazione. Che aspetto avrà questa guerra? Attualmente la parte bianca e rurale avrebbe diversi vantaggi, in termini di possesso di armi e di rappresentanza nelle forze di polizia e militari, soprattutto ai livelli più alti49, ma questo non è una garanzia di vittoria.

Concordo con Enoch Powell: «se guardo al futuro, sono pieno di inquietudine; come i romani, mi pare di vedere “il fiume Tevere schiumante di sangue”»50. Tutte le utopie immaginate dalla sinistra hanno inevitabilmente condotto allo spargimento di sangue, perché erano in contrasto con la natura umana. La classica visione utopica marxista di una società senza classi dell’Unione Sovietica si è autodistrutta, ma solo dopo aver mandato a morte milioni dei suoi cittadini. Ora la versione utopica multiculturale divenuta dominante in tutto l’Occidente mostra di aver prodotto una forte opposizione e una polarizzazione inconciliabile.

Ripensando un giorno all’epoca attuale, non vorremmo dover dire di aver fatto troppo poco e troppo tardi, come avvenne nel 1924 con la legge sull’immigrazione che mirava a creare uno status quo etnico. Tutti i numeri della rappresentanza dei bianchi nelle forze di controllo sociale continueranno a diminuire negli anni a venire per via del continuo deterioramento della situazione demografica. A questo punto, neppure un blocco immediato dell’immigrazione e una deportazione degli immigrati illegali sarebbero sufficienti per preservare a lungo un’America bianca.

La sinistra e i suoi alleati nel mondo degli affari hanno creato un mostro. I bianchi devono rendersi conto del fatto che se non faranno nulla, i decenni futuri li vedranno sempre più perseguitati e denigrati, nella misura in cui il mostro continuerà ad acquisire potere.


Note.

 

  • Theodor MOMMSEN, The History of Rome, vol. 2, trad. W. P. Dickson New York, Charles Scribner’s Sons, 1894: 386.
  • Ibid., 403-404.
  • Charles MURRAY, Human Accomplishment: The Pursuit of Excellence in the Arts and Sciences, New York, Harper Perennial, 2004.
  • Kevin MACDONALD, The Culture of Critique: An Evolutionary Analysis of Jewish Involvement in Twentieth-Century Intellectual and Political Movements, Bloomington, IN, AuthorHouse, 2002, ed. orig.

Westport, CT, Praeger, 1998; capitolo 6.

  • Ricardo DUCHESNE, The Uniqueness of Western Civilization, Leiden, Olanda, Brill, 2011.
  • Questa inclinazione alla discussione propria dell’Occidente non si accorda bene con l’individualismo egualitario e con l’enfasi che questo pone sulla conformità e sulla punizione di coloro che, per le loro capacità, si distinguono dagli altri. Come in molti altri ambiti, anche in quello culturale l’Occidente è una complessa miscela di individualismo egualitario e individualismo aristocratico. Tuttavia, come si è osservato nel capitolo 6, dopo che i forti controlli di gruppo dei puritani si sono dissolti, alcuni individui di origine puritana come Benjamin Tucker sono diventati degli individualisti radicali (si veda la sezione intitolata “Anarchismo libertario”). Inoltre, prima che (in tempi recenti) la sinistra radicale cominciasse a esercitare la sua egemonia su aree di studio come il q. d. i. e le differenze razziali, i campi di indagine scientifici non venivano affrontati dal punto di vista delle comunità morali, e gli individui erano pertanto liberi di dissentire senza dover subire penose conseguenze per la loro reputazione, senza cioè venire automaticamente accusati di incompetenza o di immoralità. I dissidenti potevano essere considerati eccentrici o poco brillanti, ma non denigrati come individui malvagi.
  • Donald T. CAMPBELL, Plausible Coselection of Belief by Referent: All the “Objectivity” that Is Possible, “Perspectives on Science”, 1, 1993: 88-108, 93.
  • Donald T. CAMPBELL, Science’s Social System of Validity-enhancing Collective Belief Change and the Problems of the Social Sciences, in Donald W. FISKE, Richard A. SHWEDER (eds.), Metatheory in Social Science: Pluralisms and Subjectivities, Chicago, University of Chicago Press, 1986: 108-135, 121-122. [9] Arthur JENSEN, The Debunking of Scientific Fossils and Straw Persons, Contemporary Education Review, 1, 1982: 121-135.
  • Jean PIAGET, Intellectual Evolution from Adolescence to Adulthood, “Human Development”, 15, 1972:

1-12.

  • Keith E. STANOVICH, Richard E. WEST, Individual Differences in Rational Thought, “Journal of Experimental Psychology: General 127”, 1998: 161-188.
  • Keith E. STANOVICH, Richard E. WEST, Individual Differences in Reasoning: Implications for the Rationality Debate, “Behavioral and Brain Sciences”, 23, 2000:645-665.
  • Arthur JENSEN, The g Factor: The Science of Mental Ability, Westport, CT, Praeger, 1998:_ 325.
  • STANOVICH, WEST, Individual Differences in Reasoning.
  • DUCHESNE, The Uniqueness of Western Civilization.
  • Ibid., 239.
  • Gregory CLARK, A Farewell to Alms, Princeton, NJ, Princeton University Press, 2007.
  • Thomas TOMBS, The English and Their History, London, Penguin Books, 2015, ed. orig. London, Allen Lane, 2014: 453.
  • Ibid., 482.
  • Riguardo ai benefici del colonialismo, si veda Jeremy BLACK, Imperial Legacies: The British Empire Around the World, New York, Encounter Books, 2019.
  • David GELERNTER, How the Intellectuals Took Over (And What to Do About It), “Commentary”, marzo 1997; https://www.commentarymagazine.com/articles/how-the-intellectuals-took-over-and-what-to-doabout-it/
  • Si veda MACDONALD, The Culture of Critique, cap. 5.
  • Ibid., cap. 7.
  • Steven A. CAMAROTA, Karen ZEIGLER, Nearly 65 Million U. S. Resident Spoke a Foreign Language at Home in 2015, “Center for ImmigrationStudies”, 18 ottobre 2016; https://cis.org/Report/Nearly-65-Million-US-Residents-Spoke-Foreign-Language-Home-2015
  • Modern Immigration Wave Brings 59 Million to U. S., Driving Population Growth and Change

Through 2065, cap. 2: Immigration’s Impact on Past and Future U. S. Population Change, Pew Research Center, 28 settembre 2015; http://www.pewhispanic.org/2015/09/28/Ch.-2-immigrations-impact-on-pastand-future-u-s-population-change/

  • Ezra KLEIN, How Democracies Die, Explained, 2 febbraio 2018, https://www.vox.com/policy-andpolitics/2018/2/2/16929764/how-democracies-die-trump-book-levitsky-ziblatt;

David LAUTER, Democratic, Republican Voters Bases Are More Different Than Ever, “Los Angeles Times”,

20 marzo 2018, https://www.latimes.com/politics/la-na-pol-voter-groups-20180320-story.html

  • Si veda ad esempio Samuel J. ABRAMS, The Dangerous Silence in Higher Education, “Spectator USA”, 10 novembre 2018, https://spectator.us/dangerous-silence-higher-education/
  • Israel ZANGWILL, citato nel Rapporto di Maggioranza della Camera dei Rappresentanti sul progetto di legge del 1924 riguardante le limitazioni all’immigrazione, House Report No. 350, 1924: 16.
  • Israel ZANGWILL, citato in Edward A. ROSS, The Old World and the New: The Significance of Past and Present Immigration to the American People, New York, The Century Co. 1914: 144.
  • Frank K. SALTER, On Genetic Interests: Family, Ethnicity and Humanity in an Age o Mass Migration, New Brunswick, NJ, Transaction, 2006.
  • Philippe RUSHTON, Ethnic Nationalism, Evolutionary Psychology and Genetic Similarity Theory, “Nations and Nationalism”, 11, 2005: 489-507; si veda anche il cap. 8.
  • Robert PUTNAM, E Pluribus Unum: Diversity and Community in the Twenty-first Century,

“Scandinavian Journal of Political Studies”, 30, 2007: 137-74; Frank K. SALTER, The Biosocial Study of Ethnicity, in Rosemary HOPCROFT (ed.), The Oxford Handbook of Evolution, Biology and Society, Oxford, Oxford University Press, 2018: 543-568.

  • Frank K. SALTER, Welfare, Ethnicity and Altruism: New Data and Evolutionary Theory, London, Routledge, 2005.
  • Jerry Z. MULLER, Us and Them: The Enduring Power of Ethnic Nationalism, “Foreign Affairs”, marzo – aprile 2008.
  • Si vedano i capitoli 8 e 9.
  • Global Slavery Index, https://www.globalslaveryindex.org/2018/findings/global-findings/
  • Kevin MACDONALD, Jason Richwine on IQ and Immigration, “The Occidental Observer”, 16 maggio

2013, https://www.theoccidentalobserver.net/2013/05/16/jason-richwine-on-iq-and-immigration/

  • Steven A. CAMAROTA, Karen ZEIGLER, 63% of Non-Citizen Households Access Welfare Programs,

Center for Immigration Studies, 20 novembre 2018, https://cis.org/Report/63-NonCitizen-HouseholdsAccess-Welfare-Programs

  • Steven A. CAMAROTA, Non-Citizens Committed a Disproportionate Share of Federal Crimes, 2011-16, Center for Immigration Studies, 10 gennaio 2018.
  • Frank SALTER, Germany’s Jeopardy, You Tube, 5 gennaio 2016, https://youtu.be/R8qcK-jx6_8
  • George J. BORJAS, The Wage Impact of the Marielitos: A Reappraisal, National Bureau of Economic

Research, luglio 2016, https://www.nber.org/papers/w21588

  • Edwin S. RUBINSTEIN, The Color of Crime, 2016, https://www.amren.com/archives/reports/the-color-of-crime-2016-revised-edition/
  • Kevin MACDONALD, Separation and Its Discontents: Toward an Evolutionary Theory of Anti-Semitism, Bloomington, IN, AuthorHouse, 2003 (ed. orig. Westport, CT, Praeger, 1998), capitoli 3-5.
  • E. BRADFORD, Dividing the House: The Gnosticism of Lincoln’s Political Rhetoric, “Modern Age”, inverno 1979: 10-24, 18.
  • Jack CROWE, Hillary Clinton: “Civility Can Start Again” When Democrats Take Congress, “National Review”, 9 ottobre 2018, https://www.nationalreview.com/news/hillary-clinton-civility-can-start-againwhen-democrats-take-congress/
  • 31% Think a U. S. Civil War Likely Soon, Rasmussen Report, 27 giugno 2018, https://www.rasmussenreports.com/public_content/politics/general_politics/june_2018/31_think_u_s_civil_ war_likely_soon
  • Michael VLAHOS, We Were Made for Civil War, “The American Conservative”, 29 ottobre 2018, https://www.theamericanconservative.com/articles/we-were-made-for-civil-war/

[47a] N. d. t.: Il blu e il rosso sono i colori che rappresentano rispettivamente il Partito Democratico e il Partito Repubblicano statunitensi.

[47b] N. d. t.: Il Venticinquesimo Emendamento della Costituzione americana prevede la possibilità di rimuovere e sostituire il presidente quando questi si dimostri incapace di assolvere il proprio compito. Con l’espressione “stato profondo” (deep state) si designano quegli apparati statali (e non) che condizionano la politica di uno stato e l’azione dei suoi rappresentanti ufficiali (in pratica i “poteri forti” che stanno “dietro le quinte”).

[47c] Il caso giudiziario “Dred Scott contro Stanford”, discusso presso la Corte Suprema degli Stati Uniti tra il 1856 e il 1857, stabilì che gli schiavi, non essendo cittadini americani, non erano tutelati dalla Costituzione. Gli effetti di questa sentenza vennero vanificati dal Quattordicesimo Emendamento (1868).

  • Richard MCCULLOCH, Visions of the Ethnostate, The Occidental Quarterly, 18, n. 2, estate 2018: 29-46. [49] Kevin MACDONALD, Thinking about Civil War II, The Occidental Observer, 4 luglio 2018, https://www.theoccidentalobserver.net/2018/07/04/thinking-about-civil-war-ii/

[50]      Enoch   Powell’s           “Rivers             of         Blood” Speech,             “The Telegraph”,       6          novembre         2007, https://www.telegraph.co.uk/comment/3643823/Enoch-Powells-Rivers-of-Blood-speech.html

 

 

 

French Translation: La cultura de la critique

Capitolo 3 di La cultura della critica: Gli ebrei e la sinistra

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Gli ebrei e la sinistra

Non sono mai riuscito a comprendere cosa avesse a che fare il giudaismo con il marxismo, e perché mettere in dubbio quest’ultimo equivalesse ad essere sleale al Dio di Abramo, Isacco, e Giacobbe. (Ralph de Toledano [1996, 50] discute delle sue esperienze con gli intellettuali ebrei dell’Europa dell’Est)

Il socialismo, per molti immigrati ebrei, non significava meramente la politica o un’idea, era una cultura onnicomprensiva, un modo di percepire e di valutare attraverso cui costruire la loro vita. (Irving Howe 1982, 9)

L’associazione tra gli ebrei e la sinistra è stata ampiamente notata e commentata a partire dal XIX secolo. “Qualunque fosse la loro situazione… in quasi ogni Paese su cui abbiamo informazioni, una parte della comunità ebraica giocava un ruolo cruciale nell’ambito dei movimenti mirati a sovvertire l’ordine esistente” (Rothman & Lichter 1982, 110).

Quantomeno in apparenza, il coinvolgimento ebraico nell’attività politica radicale può destare sorpresa. Il marxismo, almeno nella visione di Marx, è l’esatta antitesi del giudaismo. Il marxismo è un esemplare di un’ideologia universalista in cui le barriere etniche e nazionaliste all’interno della società, e addirittura tra le società, vengono infine abbattute nell’interesse dell’armonia sociale e di una percepita utilità comune. Lo stesso Marx, inoltre, sebbene nato da genitori di etnia ebraica, è stato considerato da molti un antisemita.71 La sua critica (Sulla questione ebraica [Marx 1843/1975]) concettualizzava il giudaismo essenzialmente come un’egoistica brama di arricchimento: era arrivato a dominare il mondo trasformando l’uomo e la natura in oggetti smerciabili. Marx vedeva il giudaismo come un astratto principio dell’avidità umana che avrebbe portato alla società comunista del futuro. Tuttavia, Marx respingeva l’idea che gli ebrei dovessero rinunciare alla loro ebraicità per essere cittadini tedeschi, e immaginava che il giudaismo, liberato dal principio dell’avidità, avrebbe continuato a esistere nella società trasformata dopo la rivoluzione (Katz 1986, 113).

A prescindere dalle idee di Marx a riguardo, una domanda cruciale da porsi qui di seguito è se l’accettazione di ideologie radicali e universaliste e la partecipazione a movimenti radicali e universalisti siano compatibili con l’identificazione ebraica.

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L’adozione di una tale ideologia comporta necessariamente l’esclusione dalla comunità ebraica e dal tradizionale impegno a favore del separatismo e dell’autonomia del popolo ebraico? Oppure, riformulando la domanda dal mio punto di vista, la promozione di ideologie e azioni radicali e universaliste sarebbe compatibile con una partecipazione continuativa al giudaismo come strategia evolutiva di gruppo?

Si noti bene che ciò si differenzia dalla domanda sul se gli ebrei come gruppo possano essere opportunamente caratterizzati come promotori di soluzioni politiche radicali per le società gentili. Non significa che il giudaismo costituisca un movimento unificato o che tutti i segmenti della comunità ebraica abbiano le stesse idee o gli stessi atteggiamenti verso la comunità gentile (si veda cap. 1). È possibile che gli ebrei costituiscano un elemento predominante o necessario nei movimenti politici radicali, e che l’identificazione ebraica sia fortemente compatibile con o persino faciliti il coinvolgimento ebraico in movimenti politici radicali senza una partecipazione maggioritaria degli ebrei, e perfino nel caso in cui gli ebrei costituiscano una minoranza numerica all’interno di tali movimenti.

RADICALISMO E IDENTIFICAZIONE EBRAICA

 

L’ipotesi che il radicalismo ebraico sia compatibile con il giudaismo come strategia evolutiva di gruppo implica che gli ebrei radicali continuino a identificarsi come ebrei. Ci sono ben pochi dubbi sul fatto che la stragrande maggioranza degli ebrei che promuoveva le cause di sinistra a partire dal tardo XIX secolo si identificava fortemente come ebraica e non vedesse alcun conflitto tra il giudaismo e il radicalismo (Marcus 1983, 280 segg.; Levin 1977, 65, 1988, I, 4-5; Mishkinsky 1968, 290, 291; Rothman & Lichter 1982, 92-93; Sorin 1985, passim). Infatti, i maggiori movimenti radicali ebraici sia in Russia che in Polonia erano i Bund ebraici, caratterizzati da una composizione esclusivamente ebraica e da un programma ben definito teso a perseguire obiettivi specificamente ebraici. Il proletarismo del Bund polacco in realtà era parte del tentativo di preservare la loro l’identità nazionale come ebrei (Marcus 1983, 282). La fratellanza con la classe operaia non ebraica era intesa a facilitare i loro obiettivi specificamente ebraici, e lo stesso si può dire per il Bund russo ebraico (Liebman 1979, 111 segg.). Giacché i Bund comprendevano la maggior parte del movimento radicale ebraico in queste zone, la stragrande maggioranza degli ebrei che militava nei movimenti radicali in questo periodo aveva una forte identità ebraica.

Per di più, molti membri ebrei del partito comunista dell’Unione Sovietica sembravano intenti a creare una forma di giudaismo laico piuttosto che a porre fine alla continuità di gruppo ebraica. Il governo sovietico postrivoluzionario e i movimenti socialisti ebraici si arrovellavano sulla questione della conservazione dell’identità nazionale (Levin 1988; Pinkus 1988). Malgrado un’ideologia ufficiale in cui il nazionalismo e il separatismo etnico venivano considerati reazionari, il governo sovietico

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era costretto ad affrontare la realtà di fortissime identificazioni etniche e nazionali all’interno dell’Unione Sovietica. Di conseguenza, venne creata una sezione ebraica (Evsektsiya) del partito comunista. Questa sezione “lottava duramente contro i partiti sionisti socialisti, le comunità ebraiche democratiche, la fede e la cultura ebraiche. Riuscì, tuttavia, a formare uno stile di vita laico basato sullo yiddish come lingua nazionale riconosciuta della nazionalità ebraica; a lottare per la sopravvivenza nazionale ebraica negli anni ’20; a lavorare durante gli anni ’30 per rallentare il processo assimilativo della sovietizzazione della lingua e cultura ebraiche” (Pinkus 1988, 62).72

Il risultato di questi sforzi fu la creazione di una subcultura separatista yiddish, di sponsorizzazione statale, che comprendeva scuole e perfino soviet yiddish. Questa cultura separatista era sostenuta in maniera molto aggressiva dall’Evsektsiya. I genitori ebrei ricalcitranti venivano costretti “con il terrore” a mandare i figli a queste scuole separatiste anziché a scuole in cui i bambini non sarebbero stati costretti a studiare nuovamente le materie in russo per superare gli esami di ammissione (Gitelman 1991, 12). I temi trattati dagli scrittori sovietici ebrei prominenti e ufficialmente riconosciuti negli anni ’30 evidenziano ulteriormente l’importanza dell’identità etnica: “L’essenza della loro prosa, poesia e opera teatrale si riduceva a una sola idea – le limitazioni ai loro diritti sotto lo zarismo e il fiorire degli ebrei, un tempo oppressi, sotto il sole della costituzione Lenin-Stalin” (Vaksberg 1994, 115).

Per di più, dal 1942 fino al secondo dopoguerra il Jewish Anti-Fascist Committee [Comitato ebraico antifascista, N.d.T.] (JAC) serviva a promuovere gli interessi culturali e politici ebraici (compreso il tentativo di fondare una repubblica ebraica in Crimea) fino al suo scioglimento da parte del governo nel 1948 tra accuse di nazionalismo ebraico, resistenza all’assimilazione e simpatie sioniste (Kostyrchenko 1995, 30 segg.; Vaksberg 1994, 112 segg.). I leader del JAC si identificavano fortemente come ebrei. I seguenti commenti di Itsik Fefer, leader del JAC, circa le sue opinioni durante la guerra indicano un forte senso di appartenenza al popolo ebraico, popolo risalente a tempi antichi:

Ho dichiarato che amo il mio popolo. Ma chi non ama il proprio popolo?… Il mio interesse relativo alla Crimea e a Birobidzhan [zona dell’Unione Sovietica designata per l’insediamento ebraico] è stato dettato da ciò. Ero del parere che solo Stalin potesse riparare l’ingiustizia storica creata dagli imperatori romani. Mi sembrava che solo il governo sovietico potesse riparare questa ingiustizia, attraverso la creazione di una nazione ebraica. (In Kostyrchenko 1995, 39)

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Nonostante la loro totale mancanza di identificazione con il giudaismo come religione e le loro battaglie contro alcuni dei segni più salienti del separatismo ebraico di gruppo, l’iscrizione al partito comunista di questi attivisti ebrei non era incompatibile con l’elaborazione di meccanismi ideati per garantire la continuità di gruppo ebraica come entità laica. Di fatto, a parte la prole di matrimoni interetnici, ben pochi ebrei persero l’identità ebraica nel corso dell’intera epoca sovietica (Gitelman 1991, 5),73 e gli anni del secondo dopoguerra videro un forte rafforzamento della cultura ebraica e del sionismo nell’Unione Sovietica. A cominciare dallo scioglimento del JAC, il governo sovietico diede inizio a una campagna di repressione contro qualsiasi manifestazione di nazionalismo ebraico e di cultura ebraica, inclusi la chiusura dei teatri e musei ebraici e lo scioglimento dei sindacati degli scrittori ebrei.

La questione dell’identificazione ebraica dei bolscevichi ebrei di nascita è complessa. Pipes (1993, 102-104) asserisce che durante il periodo zarista i bolscevichi di discendenza ebraica non si identificavano come ebrei, nonostante fossero percepiti dai gentili come impegnati a favore degli interessi ebraici e nonostante fossero vittime dell’antisemitismo. Per esempio, Leon Trotsky, il secondo bolscevico più importante dopo Lenin, faceva di tutto per evitare l’impressione di avere la pur minima identità ebraica o qualsiasi interesse nelle questioni ebraiche.74

È difficile credere che questi radicali fossero totalmente privi di un’identità ebraica, visto che erano considerati ebrei dagli altri e presi di mira dagli antisemiti. In generale, l’antisemitismo aumenta l’identificazione ebraica (SAID, cap.6). Tuttavia, è possibile che in questi casi l’identità ebraica fosse principalmente imposta dall’esterno. Per esempio, il contrasto negli anni ’20 tra Stalin e l’opposizione di sinistra, capeggiata da Trotsky, Grigory Zinoviev, Lev Kamenev e Grigory Solkolnikov (tutti di etnia ebraica), aveva forti connotazioni di un conflitto di gruppo ebreo-gentile: “L’ovvia condizione di ‘estranei’, che si presumeva unisse un intero blocco di candidati, era una circostanza lampante” (Vaksberg 1994, 19; si vedano anche Ginsberg 1993, 53; Lindemann 1997, 452; Pinkus 1988, 85-86; Rapoport 1990, 38; Rothman & Lichter 1982, 94). Per tutti i partecipanti, il background ebraico o gentile dei loro avversari era molto saliente, e infatti Sidney Hook (1949, 464) fa notare che gli stalinisti non ebrei si servivano di argomenti antisemitici contro i trotzkisti. Vaksberg cita Vyacheslav Molotov (ministro degli affari esteri e il secondo più importante leader sovietico), il quale asserisce che Stalin aveva scartato Kamenev perché voleva un non ebreo a capo del governo. Per di più, l’internazionalismo del blocco ebraico, paragonato al nazionalismo implicito nella posizione stalinista (Lindemann 1997, 450), è più coerente con gli interessi ebraici e riflette sicuramente un tema ricorrente degli atteggiamenti ebraici nelle società postilluministiche in generale. Durante questo periodo fino agli anni ’30 “per il Cremlino e la Lubyanka [sede della polizia segreta russa] non era la religione ma il sangue a determinare l’essere ebrei” (Vaksberg 1994, 64). Infatti, la polizia segreta

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faceva uso di outsider etnici (p. es. ebrei in Ucraina, tradizionalmente antisemitica) come agenti poiché erano meno solidali nei confronti dei nativi (Lindemann 1997, 443) – una politica perfettamente sensata in termini evoluzionistici.

L’essere di etnia ebraica era pertanto importante non solo per i gentili ma anche, soggettivamente, per gli ebrei. Quando intendeva indagare su un agente ebreo, la polizia segreta reclutava una “fanciulla ebrea di etnia pura” per stabilire una relazione intima con l’indagato – presumendo implicitamente che il rapporto intraetnico avrebbe portato a un’operazione più fruttuosa (Vaksberg 1994, 44n). In modo analogo, si è registrata una marcata tendenza da parte degli ebrei a venerare altri ebrei quali Trotsky e Rosa Luxemburg piuttosto che gentili di sinistra, come avveniva in Polonia (Shatz 1991, 62, 89), sebbene alcuni studiosi nutrano seri dubbi sull’identificazione ebraica di questi due rivoluzionari. Tra l’altro, Hook (1949, 465) rileva la percezione all’interno della sinistra che l’attrazione degli intellettuali ebrei verso Trotsky avesse una base etnica. A detta di un simpatizzante, “Non è un caso che tre quarti dei leader trotzkisti siano ebrei.”

Numerosi elementi, pertanto, indicano che, in linea di massima, i bolscevichi ebrei conservavano almeno in parte una residua identità ebraica. In alcuni casi è ben possibile che questa identità ebraica fosse “reattiva” (ovvero risultante dalla percezione altrui). Per esempio, è possibile che Rosa Luxemburg avesse un’identità ebraica reattiva, poiché era percepita come ebrea nonostante “fosse la più aspra critica del proprio popolo, abbassandosi talvolta a insultare spietatamente gli altri ebrei” (Shepherd 1933, 118). Ciononostante, la sua unica relazione sessuale fu con un ebreo, e continuò a mantenere i legami con la propria famiglia. Lindemann (1997, 178) osserva che il conflitto tra la sinistra rivoluzionaria di Luxemburg e i riformatori socialdemocratici in Germania risentiva del conflitto etnico ebreo-gentile, considerando l’alta percentuale e la prominenza degli ebrei tra i primi. Giunti alla prima guerra mondiale, “le sempre più esigue amicizie della Luxemburg all’interno del partito erano diventate sempre più ebraiche, mentre il suo disprezzo per i leader del partito (prevalentemente non ebrei) si faceva sempre più manifesto e caustico. Le sue allusioni alla dirigenza erano spesso costellate di frasi caratteristicamente ebraiche: i leader del partito erano gli ‘shabbesgoyim della borghesia’. Agli occhi di molti tedeschi di destra, Luxemburg era diventata la più odiata tra tutti i rivoluzionari, la personificazione dello straniero ebreo distruttivo” (p. 402). Considerati questi fatti, la possibilità che Luxemburg fosse in realtà una cripto-ebrea o che fosse in preda all’autoinganno riguardo alla sua identità ebraica – fenomeno, quest’ultimo, piuttosto frequente tra i radicali ebrei (si veda sotto) – sembra almeno altrettanto probabile quanto la supposizione che non si identificasse affatto come ebrea.

In termini della teoria dell’identità sociale, l’antisemitismo renderebbe difficile l’adozione dell’identità della cultura circostante. Le pratiche separatiste ebraiche tradizionali unite alla concorrenza economica tendono a sfociare nell’antisemitismo, ma l’antisemitismo a sua volta rende l’assimilazione ebraica più difficile perché

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diventa più difficile per gli ebrei accettare un’identità non ebraica. Nella Polonia del periodo interbellico, pertanto, l’assimilazione culturale ebraica subì un incremento notevole; nel 1939 la metà degli studenti ebrei delle superiori considerava il polacco la propria madrelingua. Tuttavia, la permanenza della cultura ebraica tradizionale tra una percentuale significativa di ebrei e il correlato antisemitismo rappresentavano una barriera che impediva agli ebrei di adottare un’identificazione polacca (Schatz 1991, 34-35).

Dal punto di vista dei gentili, tuttavia, le reazioni antisemitiche nei confronti di individui quali Luxemburg e altri ebrei esteriormente assimilati possono essere interpretate come derivanti da un tentativo di prevenire l’inganno attraverso un’eccessiva esagerazione della misura in cui le persone di etnia ebraica si identifichino come ebrei e cerchino coscientemente di promuovere interessi specificamente ebraici (si veda SAID, cap.1). Simili percezioni degli ebrei laici e degli ebrei convertiti al cristianesimo sono una caratteristica ricorrente dell’antisemitismo nel mondo postilluministico e, in realtà, questi ebrei spesso mantenevano reti sociali e commerciali informali che portavano a matrimoni con altri ebrei battezzati e con altre famiglie ebree che non avevano cambiato la loro religione professata (si veda SAID, capp. 5, 6).75

Ritengo che non sia possibile stabilire in via definitiva l’identificazione ebraica o l’assenza di tale identificazione da parte dei bolscevichi ebrei prima della rivoluzione e nel periodo postrivoluzionario, quando gli ebrei etnici godevano di grande potere nell’Unione Sovietica. Diversi elementi sembrano suffragare la supposizione che l’identificazione ebraica interessasse una percentuale sostanziale degli ebrei etnici: (1) le persone erano classificate come ebrei in base all’appartenenza etnica a causa – almeno in parte – dell’antisemitismo residuo; ciò tenderebbe a imporre un’identità ebraica a questi individui e renderebbe più difficile assumere un’identità esclusiva come membro di un gruppo politico più grande e inclusivo. (2) Molti bolscevichi ebrei, come quelli nell’Evsektsiya e nel JAC, cercavano accanitamente di stabilire una subcultura ebraica laica. (3) Pochissimi ebrei di sinistra immaginavano una società postrivoluzionaria senza la continuazione del giudaismo come gruppo; infatti, l’ideologia predominante tra gli ebrei di sinistra sosteneva che la società postrivoluzionaria avrebbe posto fine all’antisemitismo poiché avrebbe posto fine al conflitto di classe e al peculiare profilo occupazionale ebraico. (4) Il comportamento dei comunisti americani dimostra che l’identità ebraica e il predominio degli interessi ebraici su quelli comunisti erano diffusi tra gli individui che erano comunisti etnicamente ebrei (si veda qui di seguito). (5) L’esistenza del criptismo ebraico in altri tempi e luoghi si associa alla possibilità che l’autoinganno, la flessibilità e l’ambivalenza identificatorie siano componenti importanti del giudaismo come strategia evolutiva di gruppo (si veda SAID, cap. 8).

Quest’ultima possibilità è particolarmente interessante e verrà elaborata qui di seguito. La migliore dimostrazione che un individuo abbia realmente cessato di avere un’identità ebraica è quella di optare per una scelta politica percepita dallo stesso come chiaramente non vantaggiosa per

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gli ebrei come gruppo. In assenza di un evidente conflitto con gli interessi ebraici, resta probabile che le scelte politiche diverse tra gli ebrei etnici non siano altro che tattiche differenti per come meglio perseguire obiettivi ebraici. Nel caso dei membri ebrei del Partito comunista americano (CPUSA) esaminato qui di seguito, la prova più convincente che i membri ebrei etnici continuassero ad avere un’identità ebraica è che in generale il loro sostegno al CPUSA aumentava e diminuiva a seconda che le politiche sovietiche fossero percepite o meno come una violazione di specifici interessi ebraici come il sostegno a favore di Israele o l’opposizione alla Germania nazista.

L’identificazione ebraica è un argomento complesso nell’ambito del quale le dichiarazioni superficiali possono trarre in inganno. In realtà, è possibile che gli ebrei non siano effettivamente consapevoli di quanto sia forte la loro identificazione con il giudaismo. Silberman (1985, 184), per esempio, fa notare che nel periodo della guerra arabo-israeliana molti ebrei potevano immedesimarsi nella dichiarazione del rabbino Abraham Joshua Heschel “Non sapevo quanto fossi ebreo” (in Silberman 1985, 184; corsivo nel testo). Silberman osserva: “Questa è la riposta data non da un nuovo proselito del giudaismo o da un fedele occasionale, bensì dall’uomo considerato da molti, me incluso, il più grande leader spirituale ebreo dei nostri tempi.” Tanti altri arrivarono alla stessa sorprendente scoperta su se stessi: Arthur Hertzberg (1979, 210) scrisse: “L’immediata reazione della comunità ebraica americana alla crisi fu molto più intensa e diffusa di quanto si potesse immaginare. Molti ebrei non avrebbero mai creduto che un grave pericolo per Israele potesse dominare i loro pensieri e le loro emozioni ad esclusione di tutto il resto.”

Si consideri anche il caso di Polina Zhemchuzhina, moglie di Vyacheslav Mikhailovich Molotov (premier dell’URSS negli anni ’30) e rivoluzionaria di spicco che aderì al Partito comunista nel 1918. (Tra le varie sue conquiste, divenne membro del Comitato centrale del Partito.) Quando Golda Meir, in occasione della sua visita nell’Unione Sovietica nel 1948, domandò a Zhemchuzhina come mai parlasse così bene lo yiddish, ella rispose più volte “Ich bin a Yiddishe tochter” (Sono una donna ebrea) (Rubenstein 1996, 262). “Si congedò [dalla delegazione israeliana] con le lacrime agli occhi, dicendo ‘Spero che vi vada tutto bene lì e così andrà bene a tutti gli ebrei’” (Rubenstein 1996, 262). Vaksberg  (1994, 192) la descrive come “una stalinista di ferro”, ma il suo fanatismo non le impediva di essere una “buona figlia ebrea”.

Si consideri inoltre il caso di Ilya Ehrenburg, noto giornalista sovietico e propagandista antifascista per l’Unione Sovietica, la vita del quale è raccontata in un libro il cui titolo, Tangled Loyalties [Lealtà aggrovigliate, N.d.T] (Rubenstein 1996), illustra le complessità dell’identità ebraica nell’Unione Sovietica. Ehrenburg era un fedele stalinista che sosteneva la linea sovietica sul sionismo e si rifiutava di condannare le misure sovietiche contro gli ebrei (Rubenstein 1996). Ciò malgrado, Ehrenburg aveva opinioni sioniste, manteneva pratiche associative ebraiche, credeva nell’unicità del popolo ebraico e nutriva una profonda preoccupazione per l’antisemitismo e l’Olocausto. Ehrenburg era un organizzatore del JAC, che promuoveva il risveglio culturale ebraico

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e maggiori contatti con gli ebrei all’estero. Un suo amico scrittore lo descriveva “innanzitutto un ebreo… Ehrenburg aveva respinto le sue origini con tutto il suo essere, travestendosi da occidentale, fumando tabacco olandese e pianificando i suoi viaggi presso la Cook… Ma non aveva cancellato l’ebreo” (p. 204). “Ehrenburg non negava mai le sue origini ebraiche e verso la fine della sua vita ripeteva spesso l’indomita convinzione che si sarebbe considerato ebreo ‘fino a quando non sarà rimasto sulla Terra un solo antisemita’” (Rubenstein 1996, 13). In un famoso articolo, citò un’affermazione secondo cui “il sangue esiste in due forme: il sangue che scorre dentro le vene e il sangue che scorre fuori delle vene… Perché dico ‘Noi ebrei’? Per via del sangue” (p. 259). Infatti è possibile che la sua intensa fedeltà al regime stalinista e il suo silenzio sulle brutalità sovietiche inclusa l’uccisione di milioni di cittadini negli anni ’30 fossero motivati essenzialmente dalla sua idea che l’Unione Sovietica costituisse un baluardo contro il fascismo (pp. 143-145). “Nessuna trasgressione suscitava la sua ira quanto l’antisemitismo” (p. 313).

La forte identità ebraica residua di una nota bolscevica si palesa anche nel seguente commento sulla reazione degli ebrei etnici alla nascita di Israele:

Sembrava che tutti gli ebrei, a prescindere dall’età, dalla professione o dalla condizione sociale, si sentissero responsabili del piccolo stato lontano diventato simbolo del risveglio nazionale. Anche gli ebrei sovietici, in apparenza assimilati in modo irrevocabile, erano ora sotto l’incantesimo del miracolo mediorientale. Yekaterina Davidovna (Golda Gorbman) era una bolscevica fanatica, un’internazionalista nonché moglie del maresciallo Kliment Voroshilov, e nella sua gioventù era stata scomunicata come miscredente; ma adesso lasciava a bocca aperta i parenti dicendo: “Finalmente ora anche noi abbiamo la nostra patria.” (Kostyrchenko 1995, 102)

Il punto è che anche l’identità ebraica di un ebreo altamente assimilato, e perfino di uno che l’ha soggettivamente respinta, può riemergere in momenti di crisi del gruppo o quando l’identificazione ebraica entra in conflitto con qualsiasi altra identità che un ebreo possa avere, inclusa l’identificazione come radicale politico. In linea con la teoria dell’identità sociale, Elazar (1980) fa notare che nei momenti in cui si percepisce una minaccia per il giudaismo, l’identificazione di gruppo aumenta notevolmente perfino tra gli ebrei aventi un’identità ebraica “molto trascurabile”, come durante la guerra di Yom Kippur. Di conseguenza, le affermazioni sull’identificazione ebraica che non tengono conto delle percepite minacce per il giudaismo possono seriamente sottovalutare l’entità dell’impegno ebraico. Le dichiarazioni superficiali di mancanza di un’identità ebraica possono essere molto fuorvianti.76 E, come vedremo in seguito, ci sono prove valide del diffuso autoinganno sull’identità ebraica tra i radicali ebrei.

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Per di più esistono prove convincenti che, sia nell’epoca zarista sia in quella postrivoluzionaria, i bolscevichi ebrei percepivano le loro attività come pienamente congruenti con gli interessi ebraici. La rivoluzione pose fine al governo zarista, ufficialmente antisemitico, e sebbene l’antisemitismo popolare persistesse nel periodo postrivoluzionario, esso fu ufficialmente bandito dal governo. Gli ebrei erano altamente sovrarappresentati nelle posizioni di potere economico e politico, come pure di influenza culturale, almeno fino agli anni ’40. Lo stesso governo tentava anche di cancellare qualsiasi traccia del cristianesimo come forza sociale unificatrice nell’Unione Sovietica e simultaneamente creava una subcultura ebraica laica in modo che il  giudaismo non perdesse la sua continuità di gruppo o i suoi meccanismi unificatori come la lingua yiddish.

C’è da dubitare, perciò, che i bolscevichi sovietici ebraici fossero mai stati costretti a scegliere tra un’identità ebraica e una bolscevica, almeno nel periodo postrivoluzionario e negli anni ’30. Data la congruenza di quanto potrebbe essere definito “auto-interesse identificatorio,” è assai plausibile che dei singoli bolscevichi ebrei negassero o ignorassero la propria identità ebraica – forse facilitati da meccanismi di autoinganno – mantenendo allo stesso tempo un’identità ebraica che sarebbe riemersa soltanto nel caso di netto conflitto tra gli interessi ebraici e le politiche comuniste.

COMUNISMO E IDENTIFICAZIONE EBRAICA IN POLONIA

 

L’opera di Schatz (1991) sul gruppo di comunisti ebrei saliti al potere in Polonia nel secondo dopoguerra (definiti da Schatz “la Generazione”) è importante perché fa luce sui processi identificatori di un’intera generazione di ebrei comunisti nell’Europa dell’Est. A differenza della situazione nell’Unione Sovietica, dove la fazione prevalentemente ebraica guidata da Trotsky fu sconfitta, qui si possono tracciare le attività e le identificazioni di un’élite comunista ebraica che effettivamente conquistò il potere politico e riuscì a detenerlo per un periodo di tempo significativo.

La stragrande maggioranza di questo gruppo era stata socializzata in famiglie ebraiche molto tradizionali

la cui vita interiore, abitudini e folclore, tradizioni religiose, tempo libero, contatti tra le generazioni, e modi di socializzare erano essenzialmente pervasi, nonostante alcune variazioni, da valori e norme di comportamento ebraici tradizionali… I fondamenti del patrimonio culturale erano stati tramandati loro attraverso

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l’istruzione e la pratica religiosa formale, la celebrazione delle festività, i racconti e le canzoni, le storie raccontate dai genitori e nonni, attraverso l’ascolto delle discussioni tra gli anziani… Ne risultava un profondo nucleo di identità, valori, norme e atteggiamenti con cui entravano nel turbolento periodo della loro gioventù e della maturità. Questo nucleo si sarebbe poi trasformato nei processi di acculturazione, secolarizzazione e radicalizzazione, talvolta fino ad arrivare a un rifiuto esplicito. Ciò nonostante, è attraverso questo strato profondo che sarebbero state filtrate tutte le successive percezioni. (Schatz 1991, 37-38; mia l’enfasi)

Si noti l’implicita entrata in gioco di processi di autoinganno: i membri de “la generazione” negavano gli effetti di quella pervasiva esperienza di socializzazione che ha poi condizionato tutte le loro percezioni successive, cosicché in termini molto reali, non si rendevano conto di quanto fossero ebrei. La maggior parte di questi individui parlava yiddish nella vita quotidiana e aveva una scarsa padronanza del polacco anche dopo l’iscrizione al partito (p. 54). Socializzavano esclusivamente con altri ebrei conosciuti nel mondo ebraico del lavoro, nella comunità, e nelle organizzazioni sociali e politiche ebraiche. Una volta diventati comunisti, uscivano e si sposavano solo tra loro, e gli eventi sociali si svolgevano in lingua yiddish (p. 116). Come nel caso di tutti i movimenti intellettuali e politici ebraici esaminati in questo volume, i loro mentori e coloro che li influenzarono maggiormente erano altri ebrei etnici, inclusi in modo particolare Luxemburg e Trotsky (pp. 62, 89), e quando ricordavano i propri eroi personali, questi ultimi erano prevalentemente ebrei le cui imprese assumevano proporzioni quasi mitiche (p. 112).

Prima di unirsi al movimento comunista, gli ebrei non rinnegavano la loro identità ebraica, e molti “facevano tesoro della cultura ebraica… [e] sognavano una società in cui gli ebrei sarebbero stati al pari degli altri come ebrei” (p. 48). Infatti, era piuttosto normale nutrire una forte identità ebraica accompagnata dal marxismo nonché da svariate combinazioni di sionismo e bundismo. Inoltre, il richiamo esercitato dal comunismo sugli ebrei polacchi era notevolmente facilitato dalla consapevolezza che gli ebrei avevano raggiunto alte posizioni di potere e influenza nell’Unione Sovietica e che il governo sovietico aveva creato un sistema di istruzione e cultura ebraiche (p. 60). Sia nell’Unione Sovietica che in Polonia, il comunismo era visto come opposto all’antisemitismo. In netto contrasto, il governo polacco degli anni ’30 aveva istituito politiche con cui gli ebrei venivano esclusi dall’impiego statale, la loro rappresentanza nelle università e nelle professioni era soggetta a quote, e le attività commerciali e gli artigiani ebrei erano soggetti a boicottaggi sponsorizzati dallo Stato (Hagen 1996). Chiaramente, gli ebrei percepivano il comunismo come positivo per ebrei: era un movimento che non minacciava la continuità di gruppo ebraica,

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e offriva la speranza di potere e influenza per gli ebrei e la fine dell’antisemitismo di sponsorizzazione statale.

A un estremo dello spettro dell’identificazione ebraica si trovavano i comunisti che iniziavano la loro carriera nel Bund o nelle organizzazioni ebraiche, parlavano yiddish e lavoravano esclusivamente all’interno di un milieu ebraico. L’identità ebraica e quella comunista erano entrambe sincere, prive di qualsiasi ambivalenza o percepito conflitto tra le due fonti di identità. All’altro estremo dello spettro dell’identificazione ebraica, alcuni comunisti ebrei forse avrebbero voluto fondare uno stato de-etnicizzato senza continuità ebraica di gruppo, ma le prove a riguardo sono ben poco convincenti. Nel periodo prebellico, perfino gli ebrei più “de-etnicizzati” si assimilavano solo esteriormente, vestendosi da gentili, assumendo nomi simil-gentili (il che suggerisce inganno) e imparando le loro lingue. Tentavano di reclutare gentili nel movimento, eppure loro non si assimilavano alla cultura polacca né tentavano di farlo; conservavano gli “atteggiamenti sprezzanti e altezzosi” tradizionalmente ebraici verso quanto, da marxisti,  consideravano una cultura contadina polacca “retrograda” (p. 119). Perfino i comunisti ebrei più assimilati che lavoravano nelle aree urbane a contatto con non ebrei erano turbati dal Patto di non aggressione tedesco-sovietico, e si sentirono sollevati quando finalmente scoppiò la guerra tedesco-sovietica (p. 121) – chiaro segno che l’identità personale ebraica rimaneva appena sotto la superficie. Il Partito comunista di Polonia (KPP) inoltre aveva sempre una tendenza a promuovere gli interessi specificamente ebraici anziché una cieca lealtà all’Unione Sovietica. Infatti, Schatz (p. 102) afferma che Stalin sciolse il KPP nel 1938 a causa della presenza di trotzkisti all’interno del partito e perché la dirigenza sovietica prevedeva che il KPP si sarebbe opposto all’alleanza con la Germania nazista.

In SAID (cap. 8) si è osservato che dall’illuminismo in poi l’ambivalenza identificatoria è stata una caratteristica ricorrente del giudaismo. È interessante che gli attivisti polacchi ebrei mostrassero una notevole ambivalenza identificatoria derivante in ultima analisi dalla contraddizione tra “il credere in qualche sorta di esistenza collettiva ebraica e, al tempo stesso, un rifiuto di una tale comunione etnica, in quanto ritenuta incompatibile con le divisioni di classe e dannosa alla lotta politica complessiva; gli sforzi per conservare uno specifico tipo di cultura ebraica e, al tempo stesso, considerare ciò una mera forma etnica del messaggio comunista, strumentale nell’integrare gli ebrei nella comunità socialista polacca; il mantenimento di istituzioni ebraiche distinte e al tempo stesso il desiderio di eliminare la separatezza ebraica di per sé” (p. 234). Più avanti sarà evidente che gli ebrei, inclusi quelli comunisti ai più alti livelli del governo, andavano avanti come gruppo identificabile e coeso. Tuttavia, sebbene essi stessi non sembrassero rendersi conto della natura collettiva ebraica della loro esperienza (p. 240), ciò era percepibile dagli altri – un chiaro esempio di autoinganno evidente anche nel caso dei progressisti americani ebrei, come osservato qui di seguito.

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Questi comunisti ebrei erano anch’essi impegnati in elaborate razionalizzazioni e autoinganni sul ruolo del movimento comunista in Polonia, pertanto l’assenza di prove di una manifesta identità etnica ebraica non può essere interpretata come chiara prova della mancanza di un’identità ebraica. “Anomalie cognitive ed emotive – pensieri ed emozioni non liberi, mutilati e distorti – diventarono il prezzo per aver conservato inalterate le loro idee… L’adattamento delle proprie esperienze alle proprie credenze veniva conseguito tramite meccanismi di interpretazione, soppressione, giustificazione o motivazione” (p. 191). “Per quanto sapessero applicare abilmente il loro pensiero critico a penetranti analisi del sistema sociopolitico da essi respinto, erano altrettanto bloccati quando si trattava di applicare le stesse regole di analisi critica al sistema da essi considerato il futuro dell’umanità intera” (p. 192).

Questo insieme di razionalizzazioni autoingannatrici, come pure le numerose prove di un’identità ebraica, si evincono dai commenti di Jacub Berman, uno dei leader più prominenti del dopoguerra. (Tutti e tre i leader comunisti che dominarono la Polonia tra il 1948 e il 1956, ovvero Berman, Boleslaw Bierut e Hilary Minc, erano ebrei.) In merito alle epurazioni e all’uccisione di migliaia di comunisti, inclusi molti ebrei, nell’Unione Sovietica durante anni ’30, Berman commenta:

Cercavo come meglio potevo di spiegare ciò che stava accadendo; di chiarire il retroscena, le situazioni piene di conflitto e contraddizioni interne in cui Stalin probabilmente si era trovato e che lo avevano spinto ad agire come fece; di esagerare gli errori dell’opposizione, i quali assunsero proporzioni grottesche nelle successive accuse nei loro confronti e furono ulteriormente ingranditi dalla propaganda sovietica. Al tempo ci voleva grande resistenza e dedizione alla causa per accettare ciò che stava accadendo malgrado tutte le distorsioni, le ferite e i tormenti. (In Toranska 1987, 207)

Per quanto riguarda la sua identità ebraica, quando gli fu chiesto quali fossero i suoi progetti dopo la guerra, Berman rispose:

Non avevo nessun progetto in particolare. Ma ero consapevole del fatto che, in quanto ebreo, non avrei dovuto né potuto ricoprire massime cariche. D’altronde non mi dispiaceva non essere in prima fila: non perché sono particolarmente umile di natura, ma perché non è affatto vero che per esercitare un vero potere occorre porsi in una posizione di prominenza. Per me, l’importante era esercitare la mia influenza, lasciare la mia impronta sulla complicata formazione del governo

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che si stava creando, ma senza espormi. Naturalmente ciò richiedeva una certa destrezza. (In Toranska 1987, 237)

Chiaramente Berman si identifica come ebreo ed è ben consapevole del fatto di essere percepito dagli altri come tale, e per questa ragione sente di dover assumere ingannevolmente un profilo pubblico più basso. Berman fa inoltre notare il fatto di essere stato oggetto di sospetto in quanto ebreo durante la campagna contro i “cosmopoliti” iniziata alla fine degli anni ’40. Suo fratello, attivista nel Comitato centrale degli ebrei polacchi (organizzazione mirata a creare una cultura ebraica laica nella Polonia comunista), emigrò in Israele nel 1950 per evitare le conseguenze delle politiche antisemitiche di ispirazione sovietica in Polonia. Berman precisa che non seguì il fratello in Israele sebbene questi glielo avesse vivamente consigliato: “Naturalmente, mi interessava ciò che succedeva in Israele, specialmente perché conoscevo piuttosto bene la gente da quelle parti” (in Toranska 1987, 322). Ovviamente, Berman era visto dal fratello non come un non ebreo, ma piuttosto come un ebreo che avrebbe dovuto emigrare a causa dell’antisemitismo incipiente. Gli stretti legami di famiglia e amicizia tra un ufficiale al vertice del governo comunista polacco e un attivista nell’organizzazione dedicata alla promozione della cultura ebraica laica in Polonia evidenziano ulteriormente che non veniva percepita alcuna incompatibilità nell’identificarsi come ebrei e come comunisti, nemmeno tra i comunisti polacchi ebrei più assimilati dell’epoca.

Mentre i membri ebrei vedevano il KPP come favorevole agli interessi ebraici, il partito era visto dai polacchi gentili come “filosovietico, antipatriottico ed etnicamente ‘non realmente polacco’” (Schatz 1991, 82). Questa percepita mancanza di patriottismo era alla base dell’ostilità pubblica verso il KPP (Schatz 1991, 91).

Da un lato, per gran parte della sua esistenza il KPP era stato ai ferri corti non solo con lo Stato polacco ma con l’intera nazione, inclusi i partiti dell’opposizione legale della sinistra. Dall’altro, agli occhi della stragrande maggioranza dei polacchi, il KPP era una sovversiva agenzia straniera di Mosca, intenzionata a distruggere l’indipendenza della Polonia, conquistata a fatica, e a integrare la Polonia nell’Unione Sovietica. Bollato come “agenzia sovietica” o “comune ebraica”, esso era considerato un complotto pericoloso e fondamentalmente anti-polacco volto a minare la sovranità nazionale e a restaurare, sotto nuove vesti, la dominazione russa. (Coutouvidis & Reynolds 1986, 115)

Il KPP appoggiò l’Unione Sovietica nella guerra polacco-sovietica del 1919-1920 e nell’invasione sovietica del 1939. Durante la seconda guerra mondiale, inoltre, accettò il confine con l’URSS e si mostrò relativamente indifferente verso il massacro sovietico di prigionieri polacchi,

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mentre il governo polacco in esilio a Londra aveva opinioni nazionaliste a riguardo. L’esercito sovietico e i suoi alleati polacchi, “spinti dal freddo calcolo politico, dalle necessità militari, o da entrambi”, lasciarono che la rivolta dell’Esercito nazionale polacco, fedele al governo non comunista in esilio, venisse sconfitta dai tedeschi, causando 200 000 morti e spazzando via così “il fior fiore dell’élite attivista non comunista e anticomunista” (Schatz 1991, 188). Appena finita la guerra, i sovietici arrestarono anche i leader della resistenza non comunista sopravvissuti.

Per di più, così come accadeva nel caso del CPUSA, la dirigenza ebraica e il coinvolgimento ebraico nel comunismo polacco erano in realtà ben più forti di quanto apparissero in superficie: venivano reclutati polacchi etnici e promossi ad alte cariche per minimizzare l’impressione che il KPP fosse un movimento ebraico (Schatz 1991, 97). Questo calcolato tentativo di sminuire la presenza ebraica del movimento comunista era presente anche nello ZPP. (Lo ZPP si riferisce all’Unione dei patrioti polacchi – nome orwelliano di un’organizzazione di facciata comunista, creata dall’Unione Sovietica per occupare la Polonia dopo la guerra.) A parte i membri de “la generazione” sulla cui lealtà politica si poteva contare e che formavano il nucleo dirigenziale del gruppo, gli ebrei erano spesso dissuasi dall’unirsi al movimento per paura che quest’ultimo apparisse troppo ebraico. Tuttavia, gli ebrei che fisionomicamente potevano spacciarsi per polacchi venivano autorizzati a iscriversi ed erano incoraggiati a dichiararsi polacchi etnici e ad assumere nomi tipicamente polacchi. “Non tutti erano invitati [a ricorrere all’inganno], e ad alcuni venivano risparmiate tali proposte perché nel loro caso non si sarebbe potuto far nulla: avevano un aspetto fin troppo ebraico” (Schatz 1991, 185).

Salito al potere al termine della guerra, questo gruppo favoriva gli interessi politici, economici e culturali sovietici in Polonia, e al tempo stesso perseguiva interessi specificamente ebraici, inclusa la distruzione dell’opposizione politica nazionalista, il cui aperto antisemitismo derivava in parte dal fatto che gli ebrei erano percepiti come sostenitori della dominazione sovietica.77 L’epurazione del gruppo di Wladyslaw Gomulka subito dopo la guerra portò alla promozione degli ebrei e al divieto assoluto dell’antisemitismo. Per di più, il contrasto generale tra il governo comunista polacco prevalentemente ebreo appoggiato dai sovietici e l’opposizione clandestina, nazionalista e antisemitica contribuiva ad alimentare la fedeltà della stragrande maggioranza della popolazione ebraica verso il governo comunista, mentre la stragrande maggioranza dei polacchi non ebrei appoggiava i partiti antisovietici (Schatz 1991, 204-205). Tutto ciò portò a un diffuso antisemitismo: nell’estate del 1947, erano già stati uccisi circa 1 500 ebrei in incidenti avvenuti in 155 località. Nelle parole del cardinale Hlond, espresse nel 1946 riguardo a un incidente in cui furono uccisi 41 ebrei, il pogrom era “dovuto agli ebrei che oggi occupano i gradi più alti nel governo della Polonia e che cercano di

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introdurre una struttura governativa non voluta dalla maggioranza dei polacchi” (in Schatz 1991, 107).

Il governo comunista dominato dagli ebrei cercava attivamente di rianimare e perpetuare la vita ebraica in Polonia (Schatz 1991, 208) cosicché, come nel caso dell’Unione Sovietica, non ci aspettava che il giudaismo sarebbe svanito sotto un regime comunista. Gli attivisti ebrei avevano una “visione etnopolitica” secondo cui la cultura ebraica laica sarebbe andata avanti in Polonia con la collaborazione e l’approvazione del governo (Schatz 1991, 230). Mentre il governo lottava attivamente contro il potere politico e culturale della chiesa cattolica, la vita collettiva ebraica prosperava nel periodo postbellico. Si fondarono scuole di lingua yiddish ed ebraica, nonché un’ampia gamma di organizzazioni culturali e di assistenza sociale per gli ebrei. Una percentuale significativa della popolazione ebraica lavorava presso le cooperative economiche ebraiche.

Inoltre, il governo dominato dagli ebrei considerava la popolazione ebraica, tra cui molti non erano mai stati comunisti, come “una riserva degna di fiducia e arruolabile negli sforzi per ricostruire il paese. Benché non fossero vecchi compagni ‘collaudati’, non erano radicati nelle reti della società anticomunista, erano estranei alle sue tradizioni storiche, non avevano legami con la chiesa cattolica ed erano odiati da chi odiava il regime.78 Erano perciò affidabili e utilizzabili per ricoprire gli incarichi necessari ” (Schatz 1991, 212-213).

L’etnicità ebraica era particolarmente importante nel reclutamento per il servizio di sicurezza interna: “la generazione” di ebrei comunisti sapeva che il proprio potere derivava interamente dall’Unione Sovietica e che sarebbe dovuto ricorrere alla coercizione per controllare una società non comunista essenzialmente ostile (p. 262). I più importanti membri del servizio di sicurezza erano reclutati tra ebrei che erano comunisti da prima ancora che si instaurasse il governo comunista polacco, ma a questi si univano altri ebrei simpatizzanti del governo e alienati dalla società più ampia. Ciò a sua volta rafforzava l’immagine popolare degli ebrei come servitori degli interessi stranieri e nemici dei polacchi etnici (Schatz 1991, 225).

I membri ebrei della forza di sicurezza interna spesso sembravano essere motivati dalla rabbia personale e dal desiderio di vendetta legati alla loro identità ebraica:

Le loro famiglie erano rimaste uccise e l’opposizione clandestina anticomunista era essenzialmente, nella loro percezione, una continuazione della stessa tradizione antisemitica e anticomunista. Odiavano chi aveva collaborato con i nazisti e chi si opponeva al nuovo ordine con quasi la stessa intensità e,

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essendo comunisti, ovvero essendo comunisti ed ebrei, sapevano di essere odiati con almeno pari intensità. Ai loro occhi si trattava essenzialmente del medesimo nemico. Bisognava punire le vecchie malefatte e prevenirne delle nuove, ed era necessaria una lotta impietosa prima di poter creare un mondo migliore. (Schatz 1991, 226)

Come nel caso dell’Ungheria del secondo dopoguerra (si veda qui di seguito), la Polonia si polarizzava tra una classe dirigente e amministrativa prevalentemente ebraica, appoggiata dal resto della comunità ebraica e dal potere militare sovietico, e la stragrande maggioranza della popolazione autoctona gentile. La situazione era esattamente analoga ai molti esempi delle società tradizionali in cui gli ebrei costituivano uno strato intermedio tra un’élite regnante straniera, nella fattispecie i sovietici, e la popolazione autoctona gentile (si veda PTSDA, cap. 5). Tuttavia, questo ruolo di intermediario trasformò coloro che erano stati fino ad allora degli outsider in un gruppo di élite in Polonia, e gli ex campioni della giustizia sociale facevano di tutto per difendere le loro prerogative personali, abbondante razionalizzazione e autoinganno compresi (p. 261). Infatti, quando nel 1954 divennero noti i racconti di un disertore sullo stile di vita lussuoso dell’élite (p. es., Boleslaw Bierut possedeva quattro ville e ne aveva a disposizione altre cinque [Toranska 1987, 28]), sulla loro corruzione, nonché sul loro ruolo di agenti sovietici, i ranghi più bassi del partito rimasero sconvolti (p. 266). È evidente che il senso di superiorità morale e le motivazioni altruistiche di questo gruppo rientravano interamente nei loro autoinganni.

Sebbene si cercasse di dare un volto polacco a quello che in realtà era un governo dominato dagli ebrei, questi tentativi erano vanificati dalla mancanza di polacchi affidabili in grado di ricoprire incarichi nel partito comunista, nell’amministrazione statale, nelle forze militari e nelle forze dell’ordine interne. Negli avanzamenti di carriera, erano privilegiati gli ebrei che avevano reciso i legami formali con la comunità ebraica, o che avevano assunto nomi tipicamente polacchi, o che potevano sembrare polacchi per fisionomia o mancanza di un accento ebraico (p. 214).

Qualunque fossero le soggettive identità personali degli individui reclutati per queste posizioni statali, chi li reclutava lo faceva chiaramente considerando l’estrazione etnica dell’individuo come indicatore di affidabilità, e di conseguenza la situazione era simile ai tanti esempi nelle società tradizionali in cui gli ebrei e i cripto-ebrei formavano reti economiche e politiche di correligiosi: “Oltre a un gruppo di politici influenti, troppo piccolo per essere definito una categoria, c’erano i soldati; gli apparatčik e gli amministratori; gli intellettuali e gli ideologi; i poliziotti; i diplomatici; e infine, gli attivisti nel settore ebraico. C’era anche la massa della gente comune – funzionari, artigiani e operai – il cui comune denominatore era una visione ideologica condivisa, una storia pregressa, e aspirazioni etniche essenzialmente simili” (p. 226).

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È significativo che man mano che la dominazione ebraica diminuiva gradualmente nella seconda metà degli anni ’50, molti di questi individui cominciavano a lavorare nelle cooperative economiche ebraiche, e gli ebrei estromessi dal servizio di sicurezza interno ricevevano assistenza da organizzazioni finanziate in ultima analisi dagli ebrei americani. Possono esserci ben pochi dubbi sulla loro ininterrotta identità ebraica e sulla continuazione del separatismo economico e culturale ebraico. Infatti, dopo il crollo del regime comunista in Polonia, “numerosi ebrei, tra cui figli e nipoti di ex-comunisti, uscirono allo scoperto” (Anti-Semitism Worldwide 1994, 115), adottando apertamente un’identità ebraica e rafforzando l’idea che molti comunisti ebrei fossero in realtà cripto-ebrei.

Quando, in seguito al cambiamento nella politica sovietica nei confronti di Israele, il movimento antisionista-antisemita nell’Unione Sovietica penetrò anche in Polonia alla fine degli anni ’40, si ebbe un’altra crisi di identità scaturita dall’idea che l’antisemitismo e il comunismo fossero tra loro incompatibili. Una delle reazioni era costituita dal ricorso alla “auto-abnegazione etnica” con dichiarazioni che negavano l’esistenza di un’identità ebraica; un’altra era quella di raccomandare agli ebrei di non esporsi troppo. A causa della fortissima identificazione con il sistema diffusa tra gli ebrei, la tendenza generale era quella di razionalizzare anche la propria persecuzione durante il periodo in cui gli ebrei venivano gradualmente estromessi da posizioni importanti: “Anche quando i metodi diventavano inaspettatamente dolorosi e duri, quando diventava palese l’obiettivo di ricorrere alla forza per ottenere un’ammissione di reati non commessi e per incastrare altre persone, e quando emergeva la percezione di essere trattati ingiustamente con metodi che contraddicevano l’etica comunista, le fondamentali convinzioni ideologiche rimanevano immutate. Trionfò, perciò, la santa follia, perfino nelle celle del carcere” (p. 260). Infine, un importante elemento nella campagna antiebraica degli anni ’60 era l’asserzione che gli ebrei comunisti della Generazione si opponevano alla politica mediorientale dell’Unione Sovietica che favoriva gli arabi.

Come per i gruppi ebraici nel corso della storia (si veda PTSDA, cap. 3), le epurazioni antiebraiche non portarono all’abbandono della lealtà di gruppo anche quando ne seguivano persecuzioni ingiuste. Invece, ne conseguì un aumentato impegno, una “disciplina ideologica incrollabile, e un’obbedienza che rasentava l’autoinganno… Consideravano il partito la personificazione collettiva delle forze progressiste della storia e, ritenendosi suoi servitori, esprimevano un tipo particolare di dogmatismo teleologico-deduttivo, arroganza rivoluzionaria e ambiguità morale” (pp. 260-261). Infatti, ci sono elementi per credere che questa coesione di gruppo diventasse più accentuata man mano che le sorti della generazione volgevano al peggio (p. 301).  Man mano che la loro posizione veniva gradualmente erosa da un nascente nazionalismo polacco antisemita, diventavano sempre più consapevoli di costituire un gruppo. Dopo la loro sconfitta finale, persero rapidamente qualsiasi traccia di identità polacca avessero e assumevano senza indugio un’aperta identità ebraica, particolarmente in Israele, destinazione della maggior parte degli ebrei polacchi.

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Arrivarono a vedere il loro precedente antisionismo come un errore e ora diventavano forti sostenitori di Israele (p. 314).

In conclusione, l’opera di Shatz dimostra che ‘la generazione’ di comunisti ebrei e i loro sostenitori di etnia ebraica devono essere considerati come un gruppo ebraico storico. I fatti riscontrati indicano che questo gruppo perseguiva interessi specificamente ebraici, compreso l’interesse a garantire la continuità di gruppo ebraica e al tempo stesso a distruggere istituzioni quali la Chiesa cattolica e altre manifestazioni di nazionalismo polacco che promuovevano la coesione sociale tra polacchi. Il governo comunista, inoltre, lottava contro l’antisemitismo e tutelava gli interessi politici ed economici ebraici. Sebbene il grado di identità ebraica soggettiva all’interno di questo gruppo fosse certamente variabile, gli elementi riscontrati indicano livelli di identità ebraica sommersi e autoingannatori perfino tra i più assimilati del gruppo. L’intero episodio illustra la complessità dell’identificazione ebraica ed esemplifica l’importanza dell’autoinganno e della razionalizzazione quali aspetti fondamentali del giudaismo come strategia evolutiva di gruppo (si veda SAID, capp. 7, 8). Si assisteva a un massiccio ricorso all’autoinganno e alla razionalizzazione sul ruolo svolto dal governo dominati dagli ebrei e dai suoi sostenitori ebrei nell’eliminazione delle élite nazionaliste gentili, sul suo ruolo nell’opporsi alla cultura nazionale polacca e alla Chiesa cattolica man mano che si costruiva una cultura ebraica laica, sul suo ruolo di agente nella dominazione sovietica della Polonia, e sul suo successo alla guida dell’economia polacca, che veniva sfruttata per soddisfare interessi sovietici al costo di ristrettezze e sacrifici per il resto del popolo.

RADICALISMO E IDENTIFICAZIONE EBRAICA NEGLI STATI UNITI E IN INGHILTERRA

 

Dagli inizi del movimento nel tardo XIX secolo, un forte senso di identificazione ebraica contraddistingueva anche i radicali ebrei americani (p.es., l’Union of Hebrew Trades [Sindacato dei mestieri ebraici, N.d.T.] e la Jewish Socialist Federation [Federazione socialista operaia, N.d.T.]; si vedano Levin 1977; Liebman 1979). Nello studio di Sorin (1985) sui radicali ebrei immigrati negli Uniti Stati nel primo XX secolo, solo il 7 percento era avverso a qualsiasi forma di separatismo ebraico. Oltre il 70 percento “era intriso di positiva coscienza ebraica. La grande maggioranza era fortemente invischiata in un groviglio di istituzioni, associazioni e formazioni sociali ebraiche che si sovrapponevano le une alle altre” (p. 119). Per di più, dei 95 radicali, “al massimo” 26 rientravano nelle categorie “ostile, ambivalente, o assimilazionista” di Soren, ma “in alcuni, se non tutti i casi, queste erano persone che si sforzavano, spesso in maniera creativa, di formare nuove identità” (p. 115)

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Un tema importante di questo capitolo è che un gran numero dei radicali ebrei dichiaratamente “sradicati” manteneva percezioni autoingannatrici riguardo alla propria mancanza di identificazione ebraica. La tendenza generale è illustrata dal seguente commento su una ben nota radicale ebrea americana:

Le pagine della Mother Earth, rivista di cui Emma Goldman era la redattrice dal 1906 al 1917, sono piene di storie yiddish, racconti dal Talmud e traduzioni delle poesie di Morris Rosenfeld. Per di più, il suo impegno verso l’anarchismo non le impediva di parlare e scrivere, sovente e apertamente, in merito agli oneri particolari che gli ebrei dovevano affrontare in un mondo in cui l’antisemitismo era un nemico vivente. A quanto pare, la fede di Emma Goldman nell’anarchismo, con enfasi sull’universalismo, non derivava né dipendeva dall’abbandono dell’identità ebraica. (Sorin 1985, 8; corsivo nel testo)

Il radicalismo ebraico del XX secolo era una subcultura specificamente ebraica, o una “controcultura”, per usare il termine di Arthur Liebman (1979, 37). La sinistra ebraica americana non si si è mai separata dalla più ampia comunità ebraica, e anzi, la partecipazione degli ebrei nel movimento fluttuava in base agli eventuali conflitti tra questi movimenti e gli interessi specificamente ebraici.79

Fondamentalmente, la vecchia sinistra ebraica, compresi i sindacati, la stampa di sinistra e le confraternite di sinistra (spesso legate a una sinagoga [Liebman 1979, 284]), faceva parte della comunità ebraica più ampia, e quando la classe operaia ebraica entrò in declino, l’importanza delle credenze politiche radicali diminuiva in concomitanza con una crescente rilevanza dell’identità e delle questioni specificamente ebraiche.

Questa tendenza dei membri ebrei delle organizzazioni di sinistra a occuparsi specificamente di questioni ebraiche aumentò dopo il 1930, essenzialmente per via delle ricorrenti divergenze tra gli interessi specificamente ebraici e le cause universaliste di sinistra all’epoca. Questo fenomeno si verificava nell’intera gamma delle organizzazioni di sinistra, incluse organizzazioni quali il partito comunista e quello socialista, tra i cui iscritti figuravano anche gentili (Liebman 1979, 267 segg.).

Il separatismo nei movimenti di sinistra era agevolato da un aspetto molto tradizionale del separatismo ebraico – l’uso di una lingua ingroup. Lo yiddish divenne infine molto apprezzato per il suo effetto unificatore sul movimento operaio ebraico e per la capacità di forgiare legami con la comunità ebraica più ampia (Levin 1977, 210; Liebman 1979, 259-260). “I landsmanshaften [club sociali ebraici], la stampa e il teatro yiddish, i caffè socialisti dell’East Side, le società letterarie e fereyns [associazioni, N.d.T.], che costituivano una parte così caratteristica della cultura socialista ebraica, creavano un milieu inequivocabilmente ebraico che né il negozio, né il sindacato, né il partito socialista potevano sperare di replicare.

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Perfino il nemico di classe – il datore di lavoro ebreo – parlava yiddish” (Levin 1977, 210).

Infatti, il programma di istruzione socialista del Workman’s Circle [Circolo operaio, N.d.T.] (la più grande confraternita operaia agli inizi del XX secolo) andò in fallimento in un primo momento (prima del 1916) a causa della mancanza di contenuto yiddish ed ebraico: “Perfino i genitori ebrei radicali volevano che i propri figli imparassero lo yiddish e conoscessero qualcosa del loro popolo” (Liebman 1979, 292). Queste scuole cominciarono a prosperare quando introdussero un curriculum ebraico con un’enfasi sull’identità storica ebraica. Perdurarono negli anni ’40 come scuole ebraiche con un’ideologia socialista che enfatizzava l’idea che l’impegno per la giustizia sociale fosse la chiave per la sopravvivenza ebraica nel mondo moderno. Chiaramente, il socialismo e la politica progressista erano diventati una forma di giudaismo laico. L’organizzazione era stata trasformata nel corso della sua storia da “una confraternita operaia radicale con membri ebrei in una confraternita ebraica dai sentimenti progressisti e dal passato socialista” (Liebman 1979, 295).

Analogamente, la subcultura ebraica di orientamento comunista, incluse organizzazioni quale l’International Workers Order [Ordine operaio internazionale, N.d.T.] (IWO), comprendeva sezioni di lingua yiddish. Una di queste sezioni, la Jewish Peoples Fraternal Order (JPFO) [Confraternita dei popoli ebrei, N.d.T.], era un’associazione affiliata dell’American Jewish Congress (AJCongress) ed era segnalata dal Procuratore generale degli Stati Uniti come organizzazione sovversiva. La JPFO contava 50 000 iscritti ed era il “baluardo” finanziario e organizzativo del CPUSA nel secondo dopoguerra; inoltre, contribuiva in modo determinante al finanziamento del Daily Worker e del Morning Freiheit (Svonkin 1997, 166). In linea con l’enfasi di allora circa la compatibilità del comunismo-radicalismo con l’identità ebraica, essa finanziava programmi di educazione infantile che promulgavano un forte legame tra l’identità ebraica e le cause radicali. Le scuole yiddish e i campi estivi dell’IWO, che continuarono fino agli anni ’60, mettevano in primo piano la cultura ebraica, reinterpretando perfino il marxismo non come teoria di lotta di classe ma piuttosto come teoria di lotta per la libertà degli ebrei oppressi. Sebbene alla fine l’AJCongress abbia tagliato i ponti con la JPFO all’epoca della guerra fredda e proclamato il comunismo una minaccia, era “a dir poco, una partecipante riluttante e poco entusiasta” (Svonkin 1977, 132) allo sforzo ebraico per creare un’immagine pubblica di anticomunismo – un atteggiamento conforme alle simpatie di molti dei suoi membri, prevalentemente immigrati dell’Europa dell’Est di seconda e terza generazione.

David Horowitz (1997, 42) descrive il mondo dei suoi genitori, che si erano iscritti a una “shul” gestita dal CPUSA dove si dava un’interpretazione politica alle festività ebraiche. Dal punto di vista psicologico, era come se questi individui si trovassero nella Polonia del XVIII secolo:

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Ciò che fecero i miei genitori iscrivendosi al partito comunista e trasferendosi a Sunnyside era un ritornare al ghetto. C’era lo stesso linguaggio privato condiviso, lo stesso universo ermeticamente sigillato, la stessa duplice postura che mostrava un volto al mondo esterno e un altro alla tribù. Sopratutto, c’era la stessa convinzione di essere bollati per la persecuzione e di essere specialmente predestinati, il senso di superiorità morale verso i goyim fuori, più potenti e numerosi. E c’era la stessa paura di espulsione per pensieri eretici, paura che legava gli eletti alla fede.

Un forte senso dell’identità storica ebraica era caratteristico della stampa yiddish di sinistra. In una lettera al radicale Jewish Daily Forward, un lettore si lamentava che i suoi genitori non religiosi fossero dispiaciuti perché egli voleva sposare una non ebrea. “Egli scrisse al Forward nella presunzione di trovarvi empatia, solo per scoprire che i direttori socialisti e liberali del giornale insistettero… che fosse imperativo che egli sposasse un’ebrea e che continuasse a identificarsi con la comunità ebraica… coloro che leggevano il Forward sapevano che la determinazione degli ebrei a rimanere ebrei era fuori dubbio e discussione” (Hertzberg 1989, 211-212). Il Forward era il periodico ebraico più diffuso al mondo fino agli anni ’30 e manteneva stretti legami con il partito socialista.

Werner Cohn (1958, 621) descrive il milieu generale della comunità ebraica immigrata dal 1886 al 1920 come “un grande circolo di discussione”:

Nel 1886 la comunità ebraica a New York era diventata cospicua per il suo sostegno al candidato del terzo partito (United Labor Party [Partito unito del lavoro, N.d.T.]), Henry George, teorico dell’Imposta unica. Da allora in poi, i quartieri ebraici a New York e altrove sarebbero diventati famosi per le loro abitudini radicali di voto. Il Lower East Side scelse ripetutamente Meyer London come deputato, l’unico socialista di New York a essere eletto al Congresso. Inoltre, molti socialisti di quartieri ebraici furono eletti all’assemblea legislativa ad Albany. Nella campagna del 1917 per l’elezione del sindaco di New York City, la candidatura socialista e pacifista di Morris Hillquit era appoggiata dai più importanti organi di rappresentanza del Lower East Side ebraico: l’United Hebrew Trades [Unione ebraica del lavoro, N.d.T.], l’International Ladies Garment Workers’ Union [Sindacato per le lavoratrici dell’abbigliamento, N.d.T.], e soprattutto, il popolarissimo yiddish Daily Forward. Si tratta dello stesso periodo in cui gli ultra-radicali – come Alexander Berkman ed Emma Goldman – erano colossi della comunità ebraica, e quando

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quasi tutti i colossi ebrei – tra cui Abraham Cahan, Morris Hillquit, e il giovane Morris R. Cohen – erano radicali. Perfino Samuel Gompers, nei suoi discorsi davanti a un pubblico ebraico, giudicava necessario l’uso di frasi radicali.

In più, The Freiheit, organo ufficioso del partito comunista tra gli anni ’20 e ’50, “si collocava al centro delle istituzioni proletarie e della subcultura yiddish… [le quali] offrivano identità, significato, amicizia e comprensione” (Liebman 1979, 349-350). Il giornale perse molto del sostegno della comunità ebraica nel 1929 quando abbracciò la posizione del partito comunista contro il sionismo, e negli anni ’50 fu costretto essenzialmente a scegliere tra soddisfare la sua anima ebraica o il suo status di organo comunista. Avendo scelto la prima opzione, già alla fine degli anni ’60 si trovava in opposizione alla linea del CPUSA sulla restituzione dei territori occupati da Israele.

La relazione tra gli ebrei e il CPUSA è particolarmente interessante dal momento che il partito abbracciava spesso posizioni antiebraiche, specialmente alla luce dei suoi stretti rapporti con l’Unione Sovietica. A partire dalla fine degli anni ’20 gli ebrei giocavano un ruolo di primissimo piano nel CPUSA (Klehr 1978, 37 segg.). La semplice valutazione delle percentuali di leader ebrei, tuttavia, non è un’indicazione adeguata della portata dell’influenza ebraica, dato che non tiene conto né delle caratteristiche personali dei radicali ebrei come gruppo colto, ambizioso e talentuoso (si vedano pp. 5, 95-96), né profusi sforzi per reclutare gentili come “facciata” al fine di nascondere la portata della dominazione ebraica (Klehr 1978, 40; Rothman & Lichter 1982, 99). Lyons (1982, 81) cita un comunista gentile secondo cui molti gentili della classe operaia credevano di essere stati reclutati per “diversificare la composizione etnica del partito.” Questo testimone racconta la sua esperienza come rappresentante gentile a una conferenza della gioventù di sponsorizzazione comunista:

Diventava sempre più evidente alla maggior parte dei partecipanti che praticamente tutti gli oratori erano ebrei di New York. Oratori dai marcati accenti newyorkesi si presentavano come “il delegato del Lower East Side” o “il compagno di Brownsville.” Infine la dirigenza nazionale ordinò un’interruzione per discutere di ciò che stava diventando imbarazzante. Com’era possibile che un’organizzazione che si ostentava nazionale fosse talmente dominata da ebrei newyorkesi? Alla fine, decisero di intervenire e di rimediare alla situazione chiedendo al caucus di New York di dare a “chi veniva da fuori città [New York, N.d.T.]” l’opportunità di parlare. Il convegno si tenne nel Wisconsin.

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Klehr (1978, 40) stima che dal 1921 al 1961 gli ebrei costituissero il 33,5 percento dei membri del Comitato centrale, e la rappresentanza di ebrei superasse spesso il 40 percento (Klehr 1978, 46). Gli ebrei erano l’unico gruppo etnico autoctono dal quale il partito poteva attingere per reclutare membri. Glazer (1969, 129) afferma che fino agli anni ’50 almeno la metà dei 50 000 iscritti al CPUSA era costituita da ebrei e che il tasso di ricambio era molto alto; pertanto, forse un numero dieci volte superiore di individui erano coinvolti nel partito e c’era “un numero altrettanto elevato se non superiore di socialisti di qualche tipo.” Negli anni ’20, Buhle (1980, 89) osserva che “la maggior parte di quanti erano favorevoli al partito e al Freiheit semplicemente non si iscriveva – non più di qualche migliaio su un seguito cento volte superiore.”

Ethel e Julius Rosenberg, condannati per spionaggio a favore dell’Unione Sovietica, incarnano il forte senso di identificazione ebraica tra molti ebrei di sinistra. Svonkin (1997, 158) fa notare che si consideravano martiri ebrei. Così come tanti altri ebrei di sinistra, percepivano un forte legame tra il giudaismo e le loro simpatie comuniste. La loro corrispondenza in prigione, a detta di un critico, era intrisa di “una continua manifestazione di ebraismo e di ebraicità,” incluso il commento: “fra qualche giorno arriverà la Pasqua ebraica, celebrazione della ricerca di libertà del nostro popolo. Questa eredità culturale ha un significato addizionale per noi che siamo incarcerati, lontani l’uno dall’altro e dai nostri cari, dai moderni faraoni” (pp. 158-159). Imbarazzata dalle autopercezioni dei Rosenberg come martiri ebrei, l’Anti-Defamation League [ADL] interpretò le dichiarazioni di Julius Rosenberg sul suo essere ebreo come un tentativo di ottenere “ogni possibile briciolo di vantaggio dalla fede da egli ripudiata” [Svonkin 1997, 159] – un altro esempio dei tanti tentativi revisionistici, alcuni dei quali esaminati in questo capitolo, di rendere incompatibile l’identificazione ebraica con il radicalismo politico e nascondere pertanto un importante capitolo della storia ebraica.)

Come nel caso dell’Unione Sovietica nei primi tempi, il CPUSA aveva diverse sezioni per diversi gruppi etnici, inclusa una federazione ebraica di lingua yiddish.80 Quando queste furono abolite nel 1925 al fine di formare un partito che piacesse  agli americani nati nel Paese (che tendevano ad avere un ridotto livello di coscienza etnica), ci fu un esodo di massa di ebrei dal partito, e molti di quanti vi rimanevano continuavano a prendere parte a un’ufficiosa subcultura yiddish nel partito.

Negli anni che seguirono, il sostegno ebraico cresceva e calava a seconda dell’appoggio del partito a questioni specificamente ebraiche. Durante gli anni ’30 il CPUSA cambiò posizione e fece di tutto per interessarsi a specifici interessi ebraici, inclusi un’enfasi primaria sull’antisemitismo, il sostegno a favore del sionismo e alla fine di Israele, e la promozione dell’importanza di mantenere le tradizioni culturali ebraiche. Come nella Polonia di questo periodo, “Il movimento radicale americano

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lodava la crescita della vita ebraica nell’Unione Sovietica… L’Unione Sovietica era la prova vivente che sotto il socialismo la questione ebraica poteva essere risolta” (Kann 1981, 152-153). Il comunismo pertanto era percepito come “favorevole agli ebrei”. Nonostante i problemi passeggeri causati dal Patto tedesco-sovietico di non aggressione del 1939, il risultato fu la fine dell’isolamento del CPUSA dalla comunità ebraica durante la seconda guerra mondiale e nei primi anni del dopoguerra.

Curiosamente, gli ebrei rimasti nel partito durante il periodo del Patto di non aggressione dovevano affrontare un difficile conflitto tra lealtà divise, segno che l’identità ebraica continuava ad essere importante per questi individui. Il Patto di non aggressione provocò non poca razionalizzazione da parte dei membri ebrei del CPUSA, spesso con un tentativo di interpretare le azioni dell’Unione Sovietica come effettivamente favorevoli agli interessi ebraici – una chiara indicazione che questi individui non avevano rinnegato la loro identità ebraica.81 Altri rimanevano iscritti ma si opponevano silenziosamente alla linea del partito per via delle proprie lealtà ebraiche. Il fatto che il Patto di non aggressione stava rovinando il loro rapporto con la più ampia comunità ebraica era per loro causa di grande preoccupazione.

Al tempo della fondazione di Israele nel 1948, parte dell’attrattiva del CPUSA per gli ebrei era dovuta al suo sostegno a Israele in un periodo in cui Truman si mostrava tentennante sulla questione. Nel 1946 il CPUSA adottò perfino una risoluzione che promuoveva la continuazione del popolo ebraico come entità etnica all’interno delle società socialiste. Arthur Liebman descrive l’euforia dei membri del CPUSA per la congruenza tra gli interessi ebraici e l’iscrizione al partito. Si esprimevano sentimenti di comunanza con la più ampia comunità ebraica e si riscontrava un accentuato senso di ebraicità derivato dalle interazioni con altri ebrei all’interno del CPUSA: durante il periodo postbellico “ci si aspettava e si incoraggiava che gli ebrei comunisti si comportassero da ebrei, si relazionassero con ebrei e guardassero il popolo ebraico e la cultura ebraica in una luce positiva. Al tempo stesso, gli ebrei non comunisti, salvo alcune notevoli eccezioni [nella sinistra ebraica non comunista]… accettarono le loro credenziali ebraiche e decisero di collaborare con loro in un contesto esclusivamente ebraico” (Liebman 1979, 514). Come si è verificato tante volte nella storia ebraica, questa impennata di identità ebraica era facilitata dalla persecuzione degli ebrei, nella fattispecie l’Olocausto.

Questo periodo di facile compatibilità degli interessi ebraici con quelli del CPUSA svanì dopo il 1948, soprattutto a causa della mutata posizione sovietica riguardo a Israele e delle rivelazioni di antisemitismo di stampo statale nell’Unione Sovietica e nell’Europa dell’Est. Di conseguenza, molti ebrei abbandonarono il partito. Ancora una volta, chi rimase nel CPUSA tendeva a razionalizzare l’antisemitismo sovietico in una maniera che consentiva di mantenere la propria identificazione ebraica. Alcuni consideravano le persecuzioni come un’aberrazione e il risultato di una patologia individuale anziché una colpa del sistema sovietico. Oppure si biasimava l’Occidente come indirettamente responsabile. Per di più, sembra che i motivi per rimanere nel CPUSA

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solitamente comportassero un desiderio di restare nell’autonoma subcultura comunista yiddish. Liebman (1979, 522) descrive un individuo che infine diede le dimissioni quando le prove dell’antisemitismo sovietico diventarono schiaccianti: “Nel 1958, dopo più di 25 anni nel partito comunista, questo leader diede le dimissioni e sviluppò una forte identità ebraica che comprendeva una feroce lealtà verso Israele.” Alternativamente, i membri ebrei del CPUSA semplicemente si astenevano dall’adottare la linea del partito sovietico, come avvenne per la questione dell’appoggio a Israele durante le guerre del 1967 e 1973. Alla fine, ci fu una scissione quasi totale tra gli ebrei e il CPUSA.

La descrizione di Lyons (1982, 180) di un club ebreo-comunista a Philadelphia rivela l’ambivalenza e l’autoinganno che emergevano nei casi di conflitto tra gli interessi ebraici e le simpatie comuniste:

Il club… doveva far fronte alla crescente tensione sull’ebraicità, soprattutto per quanto riguardava Israele. A metà degli anni sessanta scoppiò un contrasto sulla decisione del club di criticare il trattamento sovietico degli ebrei. Alcuni membri ortodossi filosovietici diedero le dimissioni; altri si trovavano in disaccordo, ma restarono. Nel frattempo il club continuava a trasformarsi, diventando sempre meno marxista e sempre più sionista. Durante la guerra del 1967 nel Medio Oriente, a detta di Ben Green, uno dei leader del club, “diventammo dogmatici, per una settimana.” Non consentirono nessuna discussione sull’opportunità di appoggiare Israele, si limitarono invece a raccogliere fondi per dimostrare il loro pieno sostegno. Cionondimeno, alcuni membri del club ribadiscono che il club non è sionista e che quello a Israele è un “appoggio condizionato”.

Come nel caso della Polonia, è del tutto giustificato presumere che i comunisti ebrei americani ritenessero l’URSS generalmente disposta a soddisfare gli interessi ebraici almeno fino al tardo secondo dopoguerra. A partire dagli anni ’20 il CPUSA godeva del sostegno finanziario dell’Unione Sovietica, seguiva fedelmente le sue posizioni, e conduceva un’efficace campagna di spionaggio contro gli Stati Uniti per conto dell’Unione Sovietica, incluso il furto di segreti atomici (Klehr, Haynes & Firsov 1995).82 Negli anni ’30 gli ebrei “costituivano una sostanziale maggioranza dei membri noti del movimento clandestino sovietico negli Stati Uniti” e quasi la metà degli individui incriminati ai sensi della Smith Act of 1947 [legge Smith del 1947, N.d.T.] (Rothman & Lichter 1982, 100).

Sebbene non tutti i funzionari del partito saranno stati a conoscenza dei dettagli del rapporto speciale con l’Unione Sovietica, il ‘lavoro speciale’ [cioè lo spionaggio] era parte integrante della missione comunista negli Stati Uniti, e questo era risaputo e discusso apertamente nell’ufficio politico del CPUSA… Erano

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questi comunisti comuni, le cui vite dimostrano che alcuni dei membri ordinari erano disposti a servire l’URSS facendo spionaggio contro il loro proprio paese. Altri comunisti americani avrebbero fatto altrettanto se lo avessero chiesto a loro. Il CPUSA osannava l’URSS come la terra promessa. Nella propaganda comunista la sopravvivenza dell’Unione Sovietica come unica stella luminosa dell’umanità era un costante ritornello, come nella poesia comunista americana del 1934 che descrive l’Unione Sovietica come “un paradiso… portato sulla Terra in Russia.” (Klehr et al. 1995, 324)

Klehr et al. (1995, 325) ipotizzano che il CPUSA abbia inciso in modo significativo sulla storia americana. Senza giustificare gli eccessi del movimento anticomunista, fanno notare che “non si può scindere la peculiare e singolare efficacia del movimento anticomunista americano dalla lealtà del CPUSA all’Unione Sovietica; era proprio l’idea che i comunisti americani fossero sleali a rendere la questione comunista tanto potente e talvolta velenosa.”

I comunisti ingannavano e mentivano ai New Dealer con i quali si erano alleati. Quei progressisti che avevano creduto alle smentite accusavano quindi di calunnia gli anticomunisti che denunciavano l’attività comunista nascosta. Furiosi per le smentite di ciò che sapevano veritiero, gli anticomunisti allora sospettavano che quanti avevano negato la presenza comunista fossero anch’essi disonesti. La doppiezza dei comunisti avvelenò le normali relazioni politiche e contribuì all’asprezza della reazione anticomunista nei tardi anni ’40 e negli anni ’50. (Klehr et al. 1995, 106)

La difesa progressista del comunismo durante la guerra fredda solleva inoltre delle questioni pertinenti a questo volume. Nicholas von Hoffman (1996) osserva il ruolo dei difensori progressisti del comunismo durante questo periodo, come per esempio i direttori del settimanale The New Republic e lo storico di Harvard Richard Hofstadter (1965), i quali attribuirono la preoccupazione contemporanea per l’infiltrazione comunista del governo statunitense allo “stile paranoico della politica americana.” (Rothman e Lichter [1982, 105] includono The New Republic in un gruppo di pubblicazioni progressiste e radicali con un’ampia presenza di scrittori ed editori ebrei.) Secondo la versione ufficiale progressista, i comunisti americani erano sui generis e non legati all’Unione Sovietica, perciò non c’era alcuna minaccia comunista domestica. Durante questo periodo i progressisti si ammantavano della superiorità morale e intellettuale. I sostenitori di McCarthy erano considerati dei primitivi intellettuali e culturali: “Nel continuo Kulturkampf che divideva la società, le élite di Hollywood, di Cambridge [Massachusetts, N.d.T.] e

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dei think tank progressisti nutrivano poca simpatia per gli uomini con le gambe arcuate, i cappellini American Legion [associazione di mutua assistenza per i veterani delle forze armate americane, N.d.T.] e le mogli grasse, e il loro blaterare su Yalta e sulla foresta di Katyn. Cattolici e pacchiani, intenti a contemplare la loro collezione di fenicotteri di plastica rosa dalla finestra panoramica, i piccolo-borghesi e la loro angoscia per la politica estera erano troppo infra dignitatem per essere presi sul serio” (von Hoffman 1996, C2).

Tuttavia, oltre ad avvelenare l’atmosfera della politica domestica, lo spionaggio comunista si ripercuoteva anche sulla politica estera:

È difficile esagerare l’importanza dello spionaggio atomico sovietico nel plasmare la storia della guerra fredda. La seconda guerra mondiale era finita con gli americani fiduciosi che la bomba atomica assicurasse loro il monopolio sulla più formidabile delle armi, monopolio la cui durata prevista era da dieci a venti anni. La detonazione sovietica di una bomba nucleare nel 1949 distrusse questo senso di sicurezza fisica. L’America aveva combattuto due guerre mondiali senza subire pesanti perdite di civili o grave distruzione. Adesso doveva affrontare un nemico il cui capo era uno spietato dittatore capace di annientare qualsiasi città americana con una sola bomba.

Se il monopolio nucleare americano fosse durato più a lungo, Stalin forse non avrebbe permesso ai comunisti della Corea del Nord di scatenare la guerra di Corea, o forse i comunisti cinesi avrebbero esitato a intervenire nella guerra. Se il monopolio nucleare americano fosse durato fino alla morte di Stalin, il freno sull’aggressività sovietica avrebbe forse temperato gli anni più pericolosi della guerra fredda. (Klehr et al. 1995, 106)

La “controcultura” ebraica continuava a sostenere una subcultura radicale specificamente ebraica durante gli anni ’50 – molto tempo dopo che la stragrande maggioranza degli ebrei aveva cessato di appartenere alla classe operaia (Liebman 1979, 206, 289 segg.). Le istituzioni e le famiglie ebraiche che costituivano la vecchia sinistra si trasformarono poi nella nuova sinistra (Liebman 1979, 536 pagg.). L’impulso originario del movimento della protesta studentesca degli anni ’60 “cominciò quasi necessariamente con i rampolli dell’intellighenzia relativamente benestante, progressista-sinistroide e sproporzionatamente ebraica – la fonte maggiore, tra la popolazione, di quanti erano ideologicamente disposti a simpatizzare con l’azione radicale studentesca” (Lipset 1971, 83; si veda anche Glazer 1969). Flacks (1967, 64) rilevò che il 45 percento degli studenti che avevano partecipato a una protesta alla University of  Chicago era composto da ebrei, ma il suo campione originario venne “‘aggiustato’ al fine di ottenere maggiore equilibrio” (Rothman & Lichter 1982, 82). Gli ebrei costituivano l’80 percento degli studenti firmatari di una petizione per chiudere il ROTC [Reserve Officers’ Training Corps, Corpo di addestramento per ufficiali della Riserva, N.d.T.] a Harvard e il 30-50 percento degli Students for a Democratic Society [Studenti per una società democratica, N.d.T.] (SDS), la principale organizzazione di studenti radicali.

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Adelson (1972) constatò che il 90 percento del suo campione di studenti radicali della University of Michigan era composto da ebrei, e pare probabile che la percentuale di partecipazione fosse simile in altre università quali Wisconsin e Minnesota.83 Braungart (1979) constatò che il 43 percento degli iscritti alla SDS nel suo campione di dieci università aveva almeno un genitore ebreo e un altro 20 percento non aveva nessuna affiliazione religiosa. È probabile che questi ultimi fossero prevalentemente ebrei: Rothman e Lichter (1982, 82) constatarono che la “stragrande maggioranza” degli studenti radicali che professavano di avere genitori atei erano di estrazione ebraica.

Inoltre, i più noti leader delle proteste universitarie tendevano a essere ebrei (Sachar 1992, 804). Abbie Hoffman, Jerry Rubin e Rennie Davis acquistarono fama nazionale come membri del gruppo “Chicago Seven”, condannato per avere oltrepassato il confine statale con l’intento di istigare una rivolta al congresso annuale dei democratici del 1968. Cuddihy (1974, 804) fa notare il carattere apertamente etnico della trama secondaria del processo, particolarmente i battibecchi tra l’imputata Abbie Hoffman e il giudice Julius Hoffman, di cui la prima rappresentava i figli della generazione di immigrati dell’Europa dell’Est tendenti al radicalismo politico, e l’ultimo rappresentava l’establishment ebreo-tedesco più vecchio e maggiormente assimilato. Durante il processo, Abbie Hoffman derise il giudice Hoffman in yiddish come “Shande fur de Goyim” (una vergogna davanti ai goyim) – tradotto da Abbie Hoffman come “Lacchè dell’élite del potere WASP.” Chiaramente Hoffman e Rubin (che avevano trascorso del tempo in un kibbutz in Israele) nutrivano una forte identificazione ebraica e antipatia nei confronti dell’establishment bianco protestante. Cuddihy (974, 191-192) inoltre attribuisce le origini del movimento Yippie alle attività del giornalista clandestino Paul Krassner (direttore del The Realist, periodico “audace, scatologico, curiosamente apolitico” di “satira irreverente e reportage sgarbato”) e la sensibilità controculturale del cabarettista Lenny Bruce.

Come gruppo, gli studenti radicali provenivano da famiglie relativamente benestanti, mentre era più probabile che gli studenti conservatori provenissero da famiglie meno agiate (Gottfried 1993, 53).84 Il movimento fu pertanto concepito e guidato da un’élite, ma non mirava a favorire gli interessi della piccola borghesia sindacalizzata. Infatti, la nuova sinistra considerava la classe operaia come “grassa, compiaciuta, e conservatrice, e i suoi sindacati la rispecchiavano” (Glazer 1969, 123).

In aggiunta, sebbene tra i radicali ebrei della nuova sinistra esistessero lievi forme di antisemitismo ebraico e di ribellione contro l’ipocrisia dei genitori, lo schema predominante era quello di una continuità dell’ideologia genitoriale (Flacks 1967; Glazer 1969, 12; Lipset 1988, 393; Rothman & Lichter 1982, 82). (In modo analogo, durante l’epoca di Weimar i radicali della Scuola di Francoforte rinnegarono i valori commerciali dei loro genitori ma non disconobbero personalmente le proprie famiglie. Infatti, in linea di massima, le famiglie fornivano loro sostegno morale e finanziario nelle attività radicali [Cuddihy 1974, 154].) Molti di questi “bambini dal pannolino rosso” provenivano

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da “famiglie che, intorno al tavolo della prima colazione, giorno dopo giorno, a Scarsdale, Newton, Great Neck e Beverly Hills, discutevano di quanto orribile, corrotta, immorale, poco democratica e razzista fosse la società americana. Molti genitori ebrei abitano nei quartieri esclusivamente bianchi, vanno a Miami Beach l’inverno, sono iscritti a costosi country club, organizzano bar mitzvah da migliaia di dollari – e nel contempo abbracciano un’ideologia progressista” (Lipset 1988, 393). Come sopra indicato, Glazer (1969) stima che circa un milione di ebrei fosse iscritto al CPUSA o che fosse socialista prima del 1950. Ne consegue che tra gli ebrei c’era “una fonte sostanziosa di genitori odierni per i quali avere figli radicali non è né scandaloso né strano, e anzi potrebbe essere considerato un modo per soddisfare i migliori impulsi dei genitori” (Glazer 1969, 129).

Per di più, “l’establishment ebraico americano non prese mai davvero le distanze da questi giovani ebrei” (Hertzberg 1989, 369). Infatti, organizzazioni dell’establishment ebraico quali l’AJCongress, l’Unione of American Hebrew Congregations [Unione delle congregazioni ebraiche americane, N.d.T.] (un gruppo laico riformista) e il Synagogue Council of America [Consiglio delle sinagoghe di America, N.d.T.] (Winston 1978), erano tra i primi noti oppositori alla guerra in Vietnam. È possibile che gli atteggiamenti pacifisti delle organizzazioni ebraiche ufficiali abbiano suscitato dell’antisemitismo. Il presidente Lyndon Johnson è stato descritto come “sconvolto per la mancanza di sostegno alla guerra in Vietnam da parte della comunità ebraica americana in un momento in cui egli prende nuovi provvedimenti per aiutare Israele” (in Winston 1978, 198), e l’ADL adottò precauzioni contro una reazione anti-ebraica che prevedeva si sarebbe verificata a causa del fatto che gli ebrei tendevano a essere falchi per le questioni militari riguardanti Israele e colombe per le questioni militari riguardanti il Vietnam (Winston 1978).

Come nella vecchia sinistra, molti della nuova sinistra ebraica si identificavano fortemente come ebrei (Liebman 1979, 536 segg.). Durante un’importante occupazione a Berkeley (Rothman & Lichter 1982, 81) si celebrò la Chanukkah e si cantò l’“Hatikvah” (l’inno nazionale israeliano). La nuova sinistra perdeva iscritti ebrei ogniqualvolta appoggiava posizioni incompatibili con interessi specificamente ebraici (particolarmente riguardanti Israele) e attirava iscritti quando le sue posizioni coincidevano con questi interessi (Liebman 1979, 527 segg.). Spesso i leader passavano tempo nei kibbutzim in Israele, e c’è motivo di credere che quelli della nuova sinistra cercassero consapevolmente di minimizzare i segni più evidenti dell’identità ebraica e di minimizzare il dibattito su questioni che avrebbero creato divisioni tra iscritti ebrei e non ebrei, in modo particolare Israele. Alla fine l’incompatibilità degli interessi ebraici con la nuova sinistra portò all’abbandono del partito da parte della maggioranza degli ebrei, molti dei quali si trasferivano in Israele per unirsi ai kibbutzim, partecipavano alle tradizionali celebrazioni religiose ebraiche, o si interessavano a organizzazioni di sinistra dall’identità specificamente ebraica. Dopo la guerra di Sei Giorni nel 1967, la questione più importante per la nuova sinistra ebraica diventò Israele, ma il movimento operava anche a favore degli ebrei sovietici e rivendicava programmi di studi ebraici nelle università (Shapiro 1992, 225). Come affermò l’attivista della SDS Jay Rosenberg, “D’ora in poi non parteciperò ad alcun movimento

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che non accetti e sostenga la lotta del mio popolo. Se devo scegliere tra la causa ebraica e un SDS ‘progressista’ anti-israeliano, sceglierò la causa ebraica. Se saranno alzate le barricate, combatterò da ebreo” (in Sachar 1992, 808).

Gli ebrei inoltre costituivano una componente determinante nel far accettare la nuova sinistra al pubblico. Gli ebrei erano sovrarappresentati tra i radicali e i loro sostenitori nei media, nelle università e nella più ampia comunità intellettuale, come pure gli scienziati sociali ebrei di sinistra, erano determinanti a svolgere ricerche che presentassero il radicalismo studentesco in una luce positiva (Rothman & Lichter 1982, 104). Tuttavia, nella loro recente rassegna della letteratura sulla nuova sinistra, Rothman e Lichter (1996, ix, xiii) osservano una continua tendenza a tralasciare il ruolo degli ebrei nel movimento e che, laddove menzionato, il ruolo ebraico è attribuito all’idealismo ebraico o ad altre caratteristiche giudicate positive. Cuddihy (1974, 194n) fa notare che i media tralasciarono completamente la conflittualità interna ebraica verificatasi nel processo dei Chicago Seven. Egli descrive inoltre diverse valutazioni del processo, redatte da ebrei nei media (New York  Times, New York Post, Village Voice), le quali scusavano il comportamento degli imputati e lodavano il loro avvocato ebreo radicale, William Kunstler.

Infine, anche in Inghilterra si è registrato un simile flusso e riflusso dell’attrazione che il comunismo esercitava sugli ebrei a seconda della sua convergenza con interessi specificamente ebraici. Durante gli anni ’30 il partito comunista era gradito agli ebrei in parte perché era l’unico movimento politico violentemente antifascista. Non sussisteva contraddizione tra l’essere iscritti al partito comunista e l’avere una forte identità etnica ebraica: “La simpatia per il comunismo tra gli ebrei di quella generazione aveva alcune delle qualità dell’identificazione di gruppo, un mezzo, forse, per l’autoaffermazione etnica” (Alderman 1992, 317-318). Nel secondo dopoguerra, quasi tutti i candidati comunisti vincitori provenivano da distretti elettorali ebraici. Ciò detto, il sostegno ebraico al comunismo subì un calo dopo le rivelazioni dell’antisemitismo di Stalin, e molti ebrei lasciarono il partito comunista dopo la crisi mediorientale del 1967 quando l’URSS tagliò le relazioni diplomatiche con Israele (Alderman 1983, 162).

Bisogna necessariamente concludere che l’identità ebraica era generalmente percepita come altamente compatibile con la politica radicale. Quando la politica radicale entrava in contrasto con interessi specificamente ebraici, gli ebrei cessavano di fare i radicali, sebbene fossero frequenti i casi di ambivalenza e razionalizzazione.

PROCESSI DI IDENTITÀ SOCIALE, PERCEPITI INTERESSI DI GRUPPO EBRAICI

E RADICALISMO EBRAICO

 

Una prospettiva del radicalismo ebraico pone enfasi sulla base morale del giudaismo. Questo è un altro esempio del tentativo di presentare il giudaismo come un movimento universalista,

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moralmente superiore – il tema della “luce delle nazioni”, apparso ripetutamente come aspetto dell’autoidentità ebraica dai tempi antichi e particolarmente dall’Illuminismo (SAID, cap. 7). Da qui l’ipotesi di Fuchs (1956, 190-191), secondo cui il coinvolgimento nelle cause progressiste deriverebbe dalla singolare natura morale del giudaismo nell’inculcare la carità verso i poveri e i bisognosi. Il coinvolgimento in queste cause viene semplicemente visto come un ampliamento delle tradizionali pratiche religiose ebraiche. In modo analogo, Hertzberg (1985, 22) parla di “eco di una sensibilità morale unica, una disponibilità ad agire a discapito dell’interesse economico quando la causa sembra giusta.”

Come fatto notare in PTSDA (capp. 5,6), sembra ben probabile che il tradizionale interessamento ebraico nei confronti dei poveri e dei bisognosi fosse circoscritto ai gruppi ebraici, e infatti gli ebrei hanno spesso servito le oppressive élite dirigenti nelle società tradizionali e nell’Europa dell’Est del secondo dopoguerra.85 Ginsberg (1993, 140) descrive queste motivazioni umanistiche come “un po’ illusori,” e osserva che in altri contesti (specialmente nell’Unione Sovietica postrivoluzionaria) gli ebrei hanno organizzato “spietate agenzie di coercizione e di terrore,” incluso in modo particolare un coinvolgimento molto rilevante nella polizia segreta dal periodo postrivoluzionario fino agli anni ’30 inoltrati (si vedano anche Baron 1975, 170; Lincoln 1989; Rapoport 1990, 30-31). Similmente, si è visto che gli ebrei erano molto prominenti nelle forze di sicurezza interne in Polonia (si veda Schatz 1991, 223-228) e in Ungheria (Rothman & Lichter 1982, 89).

Pipes (1993, 112) ipotizza che sebbene sia “innegabile” che gli ebrei fossero sovrarappresentati nel partito bolscevico e nel primo governo sovietico nonché in attività comuniste rivoluzionarie in Ungheria, Germania e Austria tra il 1918 e il 1923, gli ebrei erano sovrarappresentati anche in diversi altri campi, compresi il commercio, l’arte, la letteratura e le scienze. Di conseguenza, Pipes sostiene che la loro sproporzionata rappresentanza nei movimenti politici comunisti non dovrebbe costituire un problema. Pipes accosta questo argomento all’asserzione che i bolscevichi ebrei non si identificavano come ebrei – un ragionamento a dir poco discutibile, come si è visto.

Tuttavia, pur presupponendo che questi comunisti etnicamente ebrei non si identificassero come ebrei, un tale ragionamento non spiega perché questi ebrei “de-etnicizzati” (nonché imprenditori, artisti, scrittori e scienziati ebrei) fossero sovrarappresentati nei movimenti di sinistra e sottorappresentati nei movimenti politici nazionalisti, populisti o di altro genere di destra.86 Anche se i movimenti nazionalisti sono antisemitici, come è spesso il caso, l’antisemitismo dovrebbe essere irrilevante se questi individui fossero davvero completamente de-etnicizzati come afferma Pipes. La prominenza ebraica in professioni che richiedono una spiccata intelligenza non offre nessuna chiave per comprendere il loro ruolo di rilievo nei movimenti comunisti e in altri movimenti di sinistra e la loro relativa sottorappresentazione nei movimenti nazionalisti.

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La teoria dell’identità sociale offre tutta un’altra prospettiva sul radicalismo ebraico. Essa pone enfasi sul fatto che i percepiti interessi di gruppo ebraici sono fondamentali per il comportamento politico ebraico, e che questi percepiti interessi di gruppo sono condizionati in modo significativo da processi di identità sociale. Se la politica radicale crea davvero un forte senso di identificazione con un ingroup ebraico, allora il coinvolgimento ebraico in questi movimenti sarebbe associato a concezioni molto negative ed esagerate della più ampia società gentile, e particolarmente degli elementi più potenti di quella società, in quanto outgroup. Conformemente a questa aspettativa, Liebman (1979, 26) usa il termine “controcultura” per descrivere la sinistra americana ebraica perché “il conflitto o l’antagonismo verso la società è una caratteristica fondamentale di questa subcultura e … molti dei suoi valori e schemi culturali sono una contraddizione di quelli esistenti nella società circostante.” Per esempio, la nuova sinistra era coinvolta in modo determinante nella critica sociale radicale, nell’ambito della quale tutti gli elementi che contribuivano al coeso tessuto sociale dell’America di metà secolo erano considerati oppressivi e da alterare radicalmente.

Qui l’enfasi sui processi di identità sociale è compatibile con il radicalismo ebraico al servizio di determinati interessi di gruppo ebraici. L’antisemitismo e gli interessi economici ebraici erano indubbiamente importanti fattori motivanti per l’attivismo ebraico di sinistra nella Russia zarista. I leader ebrei nelle società occidentali, molti dei quali erano capitalisti benestanti, riconoscevano con orgoglio la sovrarappresentanza ebraica nel movimento rivoluzionario russo; fornivano inoltre sostegno finanziario e politico per questi movimenti, cercando per esempio di condizionare la politica estera statunitense (Szajkowski 1967).  Rappresentativa di questo atteggiamento è la dichiarazione del finanziere Jacob Schiff: “l’accusa che tra coloro che cercano di sovvertire l’autorità del governo in Russia ci sia un numero considerevole di ebrei sarà forse fondata. Infatti, ci sarebbe da stupirsi se alcuni di coloro afflitti così atrocemente dalla persecuzione e dalle leggi straordinarie non si fossero alla fine rivoltati contro i loro impietosi oppressori” (in Szajkowski 1967, 10).

Infatti, a rischio di essere eccessivamente riduttivi, si potrebbe notare che l’antisemitismo in combinazione con l’esplosione demografica ebraica nell’Europa dell’Est erano di cruciale importanza nel generare lo straordinario numero di radicali ebrei disincantati e, perciò, la successiva influenza del radicalismo ebraico in Europa e il suo espandersi fino agli Stati Uniti. Durante il XIX secolo, il tasso di crescita naturale delle popolazioni ebraiche nell’Europa dell’Est era il più alto di tutte le altre popolazioni in Europa, con una crescita naturale di 120 000 all’anno intorno al 1880 e una crescita complessiva all’interno dell’impero russo da uno a sei milioni nel corso del XIX secolo (Alderman 1992, 112; Frankel 1981, 103; Lindemann 1991, 28-29, 133-135). Malgrado l’emigrazione di circa 2 milioni di ebrei negli Stati Uniti e altrove, molti ebrei dell’Europa dell’Est risultavano impoveriti almeno in parte a causa delle politiche zariste antiebraiche che ostacolavano l’ascesa sociale degli ebrei.

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Di conseguenza, un numero non indifferente di ebrei era attratto da soluzioni politiche radicali che potessero trasformare le basi economiche e politiche della società e che fossero consistenti con la continuità del giudaismo. All’interno delle comunità ebraiche russe, l’accettazione di ideologie politiche radicali coesisteva spesso con forme messianiche del sionismo nonché con un forte impegno verso il nazionalismo ebraico e il separatismo religioso e culturale, e molti individui nutrivano svariate combinazioni di queste idee, combinazioni spesso in rapido cambiamento (si veda Frankel 1981).

Il fanatismo religioso e le aspettative messianiche sono stati una tipica reazione ebraica alle persecuzioni antisemitiche nel corso della storia (p. es. Scholem 1971; PTSDA, cap. 3). Infatti, è legittimo immaginare che le forme messianiche del radicalismo politico siano forme laiche di questa reazione ebraica alla persecuzione, differenti dalle forme tradizionali solo per il fatto che promettono un futuro utopistico anche ai gentili. Il quadro generale rievoca la situazione nel tardo Impero Ottomano, dove dalla metà del XVIII secolo fino all’intervento delle potenze europee nel XX secolo prevaleva “un quadro inequivocabile di povertà opprimente, ignoranza e insicurezza” (Lewis 1984, 164) nel contesto di alti livelli di antisemitismo che impedivano l’ascesa sociale degli ebrei. Questi fenomeni erano accompagnati dalla prevalenza di misticismo e da uno stile genitoriale orientato all’alta fertilità e al basso investimento tra gli ebrei. Alla fine, la comunità diventava troppo povera per provvedere all’istruzione della maggior parte dei figli, con la conseguenza che la maggioranza era analfabeta e sceglieva lavori che richiedevano una limitata intelligenza e formazione.

Tuttavia, quando si offrirono loro opportunità di ascesa sociale, la strategia riproduttiva si trasformò rapidamente in una strategia orientata alla bassa fertilità e all’alto investimento. Nella Germania del XIX secolo, per esempio, gli ebrei furono il primo gruppo a imbarcarsi nella transizione demografica e fare meno figli per avvalersi delle opportunità di mobilità sociale ascendente (p. es. Goldstein 1981; Knode 1974).  Allo stesso tempo, gli ebrei poveri dell’Europa dell’Est, senza alcuna speranza di ascesa sociale, si sposavano prima dei loro pari nell’Europa occidentale, i quali rinviavano il matrimonio per essere meglio preparati finanziariamente (Efron 1994, 77). E la rinascita degli ebrei ottomani nel XIX secolo, scaturente dalla protezione e dal patrocinio degli ebrei dell’Europa occidentale, portò con sé il fiorire di una cultura molto letterata, incluse scuole laiche basate su modelli occidentali (si veda Shaw 1991, 143 segg., 175-176). Analogamente, quando gli ebrei oppressi dell’Europa dell’Est emigrarono negli Stati Uniti, svilupparono una cultura orientata all’alto investimento e alla bassa fertilità al fine di approfittare delle opportunità di mobilità ascendente. La tesi è che l’orientamento generale della risposta ebraica di fronte alla mancanza di opportunità di mobilità ascendente e all’antisemitismo sia quello di adottare, facoltativamente, uno stile di riproduzione a basso investimento e ad alta fertilità unito – sul piano ideologico – a diverse forme di messianismo, inclusa, nell’epoca moderna, l’ideologia politica radicale.

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Alla fine, questa esplosione demografica in un contesto di povertà e restrizioni imposte a livello politico agli ebrei fu responsabile degli effetti generalmente destabilizzanti del radicalismo ebraico sulla Russia fino alla rivoluzione. Queste condizioni ebbero anche ripercussioni in Germania, dove gli atteggiamenti negativi verso gli immigrati Ostjuden contribuivano all’antisemitismo dell’epoca (Aschheim 1982). Negli Stati Uniti, il nocciolo di questo capitolo è che le idee politiche radicali di un gran numero di immigrati ebrei e dei loro discendenti erano caratterizzate da un alto grado di inerzia, nel senso che le idee politiche radicali perduravano anche nell’assenza di condizioni economiche e politiche oppressive. Nello studio di Sorin (1985, 46) sugli attivisti radicali ebrei immigrati in America, più della metà era stata coinvolta nella politica radicale in Europa prima di emigrare, e per coloro che immigrarono dopo il 1900, la percentuale saliva al 69 percento. Glazer (1961, 21) fa notare che dalle biografie di quasi tutti i leader radicali risulta che vennero a contatto con le idee politiche radicali per la prima volta in Europa. La persistenza di queste idee influenzò la generale sensibilità politica della comunità ebraica ed ebbe un effetto destabilizzante sulla società americana, che va dalla paranoia dell’era di McCarthy al trionfo della rivoluzione controculturale degli anni ’60.

L’immigrazione degli ebrei dell’Europa dell’Est in Inghilterra dopo il 1880 ebbe un effetto analogamente trasformativo sugli atteggiamenti politici della comunità ebraica britannica nella direzione del socialismo, del sindacalismo e del sionismo, spesso uniti all’ortodossia religiosa e alla devozione verso uno stile di vita fortemente separatista (Alderman 1983, 47 segg.). “Ben più significativa dei pochi socialisti ebrei in cerca di pubblicità che, sia in Russia che in Inghilterra, organizzavano picnic di tramezzini al prosciutto durante il digiuno di Yom Kippur, il Giorno della Redenzione, era la massa di ebrei della classe operaia che non sentiva alcun conflitto interno quando andava in sinagoga tre volte al giorno per le funzioni religiose e poi usava la stessa sede per discutere principi socialisti e organizzare scioperi industriali” (Alderman 1983, 54).87 Come negli Stati Uniti, gli ebrei immigrati dall’Europa dell’Est subissarono demograficamente la comunità ebraica preesistente, e la vecchia comunità reagì con trepidazione a questo influsso a causa del possibile  aumento dell’antisemitismo. E come negli Stati Uniti, ci furono tentativi da parte della comunità ebraica radicata di falsare la prevalenza delle idee politiche radicali tra gli immigrati (Alderman 1983, 60;  SAID, cap. 8).

Ciononostante, gli interessi economici non costituiscono tutta la storia. Mentre l’origine del diffuso radicalismo politico tra gli ebrei può essere caratterizzato come una tipica reazione ebraica alle avversità politiche ed economiche dell’Europa dell’Est del tardo Ottocento, l’ideologia politica radicale si dissociò dalle solite variabili demografiche poco dopo l’arrivo negli Stati Uniti, ed è questo fenomeno che richiede un altro tipo di spiegazione. Per lo più, gli ebrei americani avevano motivi meno sostanziali rispetto ad altri gruppi etnici di desiderare

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il rovesciamento del capitalismo dal momento che tendevano a essere relativamente privilegiati in termini economici.  Da alcuni sondaggi degli anni ’60 e ’70 emerge che gli ebrei della classe media erano più radicali di quelli della classe operaia – una tendenza contraria rispetto agli studenti radicali non ebrei (Rothman & Lichter 1982, 117, 219;88 Levey 1996, 37589). Sebbene gli ebrei tendessero a votare in misura preponderante per i democratici (Liebman 1973, 136-137), rispetto agli appartenenti ad altre religioni erano meno propensi a credere che votare per un candidato democratico potesse favorire i loro interessi economici.

La divergenza tra interessi economici e ideologia politica risale almeno agli anni ’20 (Liebman 1979, 290 segg.). Infatti, durante l’intero periodo dal 1921 al 1961, era più probabile che i membri ebrei del comitato centrale del CPUSA provenissero dalla classe media professionale e fossero più istruiti dei loro colleghi gentili (Klehr 1978, 42 segg.). Era anche molto più probabile che vi si fossero iscritti prima delle difficoltà economiche della Grande depressione. Inoltre, come indicato sopra, gli studenti radicali della nuova sinistra provenivano in modo sproporzionato da famiglie benestanti e altamente istruite (si veda anche Liebman 1973, 210).

Perfino i capitalisti ebrei affermati tendevano ad abbracciare opinioni politiche a sinistra rispetto ai loro omologhi gentili. Per esempio, i capitalisti ebreo-tedeschi del XIX secolo “tendevano ad adottare posizioni nettamente ‘a sinistra’ rispetto ai loro omologhi gentili e pertanto a isolarsi da essi” (Mosse 1989, 225). Sebbene come gruppo tendessero a porsi in una posizione a destra rispetto alla popolazione ebraica nel complesso, alcuni erano sostenitori del Partito socialdemocratico e del suo programma socialista. Tra le ragioni plausibili suggerite da Mosse per questo stato delle cose vi è il fatto che l’antisemitismo tendeva a essere associato alla destra tedesca. In linea con la teoria dell’identità sociale, i capitalisti ebrei non si identificavano con i gruppi che li percepivano negativamente e si identificavano invece con i gruppi in opposizione a un outgroup considerato ostile. In questo caso sembrano essere di primaria importanza i processi di identità sociale e la loro influenza sulla percezione degli interessi etnici (di gruppo) piuttosto che l’autointeresse economico.

Il legame tra ebrei e atteggiamenti politici progressisti è pertanto indipendente dalle solite associazioni demografiche. In un passo che dimostra che l’estraniamento culturale ed etnico ebraico prevale sugli interessi economici nella spiegazione del comportamento politico ebraico, Silberman (1985, 347-348) commenta [riflette] sull’attrazione degli ebrei verso “il Partito democratico… con la sua tradizionale ospitalità verso gruppi etnici non WASP…. Un celebre economista che era fortemente in disaccordo con le politiche economiche di Mondale [Walter Mondale, candidato alle presidenziali] votò per lui malgrado tutto. ‘Ho seguito le convention in televisione,’ egli spiegò, ‘e i repubblicani non sembravano il tipo di gente che piace a me.’ La stessa reazione portò molti ebrei a votare per Carter nel 1980 nonostante la loro antipatia per lui; ‘Preferirei vivere in un paese governato dalle facce che ho visto alla convention democratica

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piuttosto che da quelle che ho visto alla convention repubblicana,’ mi confidò un noto scrittore.”

Si suppone che, in generale, la motivazione politica ebraica sia condizionata da questioni non economiche legate a percepiti interessi di gruppo ebraici, a loro volta influenzati dai processi di identità sociale.  Similmente, nel campo molto politicizzato degli atteggiamenti culturali, Silberman (1985, 350) fa notare che “gli ebrei americani hanno a cuore la tolleranza culturale per via della loro idea – saldamente radicata nella storia – che gli ebrei sono al sicuro solo in una società che accetti un’ampia varietà di atteggiamenti e comportamenti, nonché una diversità di gruppi religiosi ed etnici. È questa credenza, per esempio, e non l’accettazione dell’omosessualità, a indurre la stragrande maggioranza degli ebrei americani a sostenere i ‘diritti gay’ e ad adottare una posizione progressista sulla maggior parte delle questioni cosiddette ‘sociali.’” Un percepito interesse di gruppo ebraico per il pluralismo culturale prevale sugli atteggiamenti personali negativi verso il comportamento in questione.

Il commento di Silberman secondo cui gli atteggiamenti ebraici sono “saldamente radicati nella storia” è particolarmente significativo: una costante tendenza per gli ebrei è quella di essere perseguitati come  gruppo minoritario all’interno di una società culturalmente o etnicamente omogenea. La motivazione molto logica degli ebrei americani a favore del pluralismo politico, religioso e culturale sarà sottolineata nel capitolo 7, che tratta del coinvolgimento ebraico nella formazione della politica di immigrazione statunitense. Il punto qui è che il percepito interesse di gruppo ebraico nel creare una società pluralistica è di gran lunga più importante del semplice autointeresse economico nel determinare il comportamento politico ebraico. Allo stesso modo, Earl Raab (1996, 44) spiega il comportamento politico ebraico in termini di questioni di sicurezza, legate in parte al ricordare il Partito repubblicano come associato al fondamentalismo cristiano e con una storia “risolutamente nativista e anti-immigrati.” Questa tendenza ad appoggiare il Partito democratico costituisce perciò un aspetto del conflitto etnico tra ebrei e altri settori della popolazione caucasica di origine europea negli Stati Uniti, e non una questione economica. In realtà, le questioni economiche sembrano del tutto irrilevanti, dal momento che il sostegno per il Partito democratico da parte degli ebrei non cambia in base allo status sociale (Raab 1996, 45).

Ciononostante, è stato riscontrato che il recente comportamento elettorale ebraico distingue sempre più nettamente il tradizionale progressivismo economico da questioni legate al pluralismo culturale, all’immigrazione e alla separazione tra Stato e Chiesa. Recenti sondaggi e dati sulle abitudini elettorali ebraiche indicano che gli ebrei continuano a vedere nell’ala destra del Partito repubblicano “una minaccia al cosmopolitismo americano” in quanto percepita come fautrice di una cultura omogenea cristiana e contraria all’immigrazione (Beinart 1997, 25). Tuttavia, gli elettori ebrei erano più favorevoli alle politiche fiscali conservatrici e meno favorevoli ai tentativi statali di ridistribuzione della ricchezza rispetto sia agli afro-americani sia agli altri americani bianchi. Il recente comportamento politico ebraico è pertanto auto-interessato sia in termini economici che nella sua opposizione

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agli interessi degli americani bianchi tesi a creare una società etnicamente e culturalmente omogenea.

Oltre al perseguimento di specifici interessi di gruppo, tuttavia, i processi di identità sociale sembrano apportare un contributo indipendente ai fini della comprensione del comportamento politico ebraico. I processi di identità sociale sembrano necessari per spiegare perché il movimento operaio ebraico fosse molto più radicale del resto del movimento operaio americano. In un passo che rivela il profondo senso di identità ebraica e di separatismo dei radicali ebrei nonché l’assoluta antipatia nei confronti dell’intero ordine sociale gentile, Levin (1977, 213) fa notare che “le loro idee socialiste… aprirono un divario tra loro e altri lavorati americani disinteressati a cambiamenti radicali nell’ordine sociale. Sebbene alcuni sindacati ebraici si iscrissero all’AFL [Federazione americana del lavoro: N.d.T.], non fu mai congeniale per loro dato che l’AFL non desiderava una trasformazione radicale della società, né aveva una visione internazionalista.”  Abbiamo inoltre notato che, non appena raggiunti sostanzialmente i propri obiettivi sociali con il successo del movimento sindacale, la nuova sinistra abbandonò completamente gli obiettivi e gli interessi della piccola borghesia.

Ancora una volta ci sono forti indicazioni che le critiche sociali e i sentimenti di estraniamento culturale tra gli ebrei abbiano profonde radici psicologiche che vanno al di là di particolari interessi economici o politici. Come indicato nel capitolo 1, un’importante componente psicologica sembra essere legata a un’antipatia molto profonda nei confronti dell’ordine sociale dominato dai gentili, il quale viene considerato antisemitico – il desiderio di “maligna vendetta” che, a detta di Disraeli, rendeva molti ebrei “pieni di odio e così ostili nei confronti dell’umanità.” Si ricordi la descrizione di Lipset (1988, 393) delle molte famiglie ebraiche “che, intorno al tavolo della prima colazione, giorno dopo giorno, a Scarsdale, Newton, Great Neck e Beverly Hills, discutevano di quanto orribile, corrotta, immorale, poco democratica e razzista fosse la società americana.” Queste famiglie chiaramente si considerano separate dalla più ampia cultura statunitense; inoltre vedono le forze conservatrici come tese a preservare questa cultura maligna. Come nel caso del giudaismo tradizionale nei confronti della società gentile, la cultura tradizionale degli Stati Uniti – e in particolare la base politica del conservatorismo culturale che è stata storicamente associata all’antisemitismo – è percepita come manifestazione di un outgroup valutato in termini negativi.

Questa antipatia verso la società dominata dai gentili era spesso accompagnata da un forte desiderio di vendicare i mali del vecchio ordine sociale. Per molti ebrei della nuova sinistra “la rivoluzione promette di vendicare le sofferenze e di riparare i torti inflitti agli ebrei per così tanto tempo con il permesso o l’incoraggiamento, o perfino per ordine delle autorità nella società prerivoluzionarie” (Cohen 1980, 208). Dalle interviste ad alcuni radicali ebrei della nuova sinistra emerge che molti covavano fantasie distruttive in cui la rivoluzione avrebbe portato a “l’umiliazione, l’esproprio, l’incarcerazione o l’esecuzione degli oppressori” (Cohen 1980, 208) insieme alla fede nella loro onnipotenza e nella loro

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capacità di creare un ordine sociale non oppressivo – risultati che ricordano il ruolo motivante di vendetta per l’antisemitismo tra le forze di sicurezza di dominazione ebraica nella Polonia comunista di cui si è trattato  sopra. Questi riscontri sono inoltre pienamente compatibili con la mia esperienza tra gli attivisti ebrei della nuova sinistra alla University of Wisconsin negli anni ’60 (si veda la nota 13).

Secondo la prospettiva dell’identità sociale, le attribuzioni negative generalizzate nei confronti dell’outgroup sarebbero accompagnate da attribuzioni positive nei confronti dell’ingroup ebraico. Sia i comunisti ebrei in Polonia sia i radicali ebrei della nuova sinistra nutrivano un forte sentimento di superiorità culturale, conforme alle tradizionali convinzioni ebraiche della superiorità del proprio ingroup (Cohen 1980, 212; Schatz 1991, 119). Le auto-concettualizzazioni degli ebrei in merito ai propri sforzi per creare una cultura antagonista negli Stati Uniti tendevano a porre l’accento sull’ebreo come perenne vittima dell’antisemitismo gentile, o sull’ebreo come eroe morale, ma “in entrambi i casi la rappresentazione è l’opposto di quella dell’antisemita. Gli ebrei non hanno difetti. Le loro motivazioni sono pure, il loro idealismo è sincero” (Rothman & Lichter 1982, 112). Gli studi su radicali ebrei condotti da scienziati sociali ebrei tendevano ad attribuire arbitrariamente il radicalismo ebraico a una “libera scelta di una minoranza dotata” (Rothman & Lichter 1982, 118) laddove le spiegazioni economiche risultavano inadeguate – un ulteriore esempio in cui lo status di gruppo ebraico sembra condizionare le ricerche di scienza sociale in modo tale da servire gli interessi di gruppo ebraici.

In aggiunta, un’ideologia utopica universalista quale il marxismo rappresenta un veicolo ideale per i tentativi degli ebrei di sviluppare un’identità positiva di sé come marxisti pur conservando la loro identità di sé come ebrei e la loro valutazione negativa delle strutture di potere gentili. Innanzitutto, la natura utopica dell’ideologia radicale contrapposta agli esistenti sistemi sociali dominati dai gentili (inevitabilmente lontani dalla perfezione) facilita lo sviluppo di un’identità positiva dell’ingroup. L’ideologia radicale facilita pertanto un’identità di gruppo positiva e un senso di rettitudine morale per via della sua promozione di principi etici universalisti. Gli psicologi hanno riscontrato che un senso di rettitudine morale è un importante elemento dell’autostima (p. es. Harter 1983), e si ipotizza che l’autostima sia un fattore motivante nei processi di identità sociale (SAID, cap.1).

Come valeva anche per la psicoanalisi, i movimenti politici di sinistra assumevano toni messianici e redentori che contribuivano all’orgoglio e alla lealtà dell’ingroup. I membri del Bund ebraico russo e la loro progenie negli Stati Uniti avevano un intenso orgoglio personale e una forte convinzione di far “parte di un’avanguardia morale e politica mirata al grande cambiamento storico. Avevano una missione che ispirava loro e chi credeva in loro” (Liebman 1979, 133).

Questo senso di orgoglio ingroup e fervore messianico è indubbiamente un elemento cruciale del giudaismo in tutte le epoche storiche. Come fa notare Schatz (1991, 105) nella sua descrizione dei rivoluzionari ebrei clandestini nella Polonia interbellica, “Il movimento faceva… parte di una lotta mondiale,

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internazionale per nient’altro che la fondamentale trasformazione delle basi stesse della società umana. L’effetto congiunto di questa situazione era un senso particolare di solitudine rivoluzionaria e di missione, un’intensa coesione, un senso di fratellanza, e una disponibilità a sacrificarsi sull’altare della lotta.” Ciò che distingueva i comunisti ebrei dagli altri comunisti era non solo il loro desiderio di un mondo postrivoluzionario senza antisemitismo, ma anche la loro “singolare intensità [emotiva] radicata in aspirazioni messianiche” (Schatz 1991, 140). Come disse uno degli interpellati, “Io credevo in Stalin e nel partito come mio padre credeva nel Messia” (in Schatz 1991, 140).

Rispecchiando la struttura sociale ebraica tradizionale, questi gruppi ebraici radicali erano gerarchici e fortemente autoritari, e svilupparono il proprio linguaggio privato (Schatz 1991, 109-112). Così come nel giudaismo tradizionale, la continua formazione e autodidattica erano viste come elementi importanti del movimento: “Studiare era un punto di onore e un obbligo” (p. 117). Le discussioni replicavano i tradizionali metodi di studio della Torah: la memorizzazione di lunghi passi di testo unita all’analisi e all’interpretazione svolte in un ambiente di intensa concorrenza intellettuale alquanto simile al tradizionale pilpul. A detta di un novizio di queste discussioni, “Ci comportavamo da yeshiva bukhers [studenti] e loro [le guide intellettuali più esperte] da rabbini” (p. 139).

Come previsto dalla teoria dell’identità sociale, c’era anche un alto livello di valutazione ingroup-outgroup, caratterizzata da uno spiccato senso di rettitudine morale all’interno dell’ingroup unito a un’implacabile ostilità e a un rifiuto nei confronti dell’outgroup. Nel secondo dopoguerra, per esempio, i comunisti ebreo-polacchi vedevano il nuovo piano economico “in termini propriamente mistici. [Era] un programma infallibile, concepito scientificamente, che avrebbe totalmente ristrutturato i rapporti della società e preparato il Paese al socialismo” (Schatz 1991, 249). Le difficoltà economiche che colpirono la popolazione non fecero altro che rinviare le loro speranze al futuro, e al tempo stesso la popolazione sviluppò “un atteggiamento intransigente verso quanti erano restii a sopportare gli stenti del presente e un’implacabile ostilità verso coloro che venivano percepiti come nemici. L’ardente volontà di creare un’armonia e una felicità generale era pertanto accompagnata dalla sfiducia e dalla diffidenza verso i suoi obiettivi e da un odio nei confronti dei suoi oppositori – reali, potenziali o immaginati che fossero” (p. 250).

Evidentemente, essere rivoluzionari comunisti implicava una forte lealtà verso un gruppo coeso e autoritario che stimava i successi intellettuali e mostrava un’intensa antipatia verso i nemici e gli outgroup, esibendo allo stesso tempo sentimenti molto positivi verso un ingroup ritenuto moralmente e intellettualmente superiore. Questi gruppi operavano come delle minoranze assediate che vedevano la società circostante come ostile e minacciosa. Essere membri di un tale gruppo richiedeva un enorme sacrificio personale e perfino dell’altruismo.

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Tutti questi attributi sono riscontrabili come caratteristiche distintive dei gruppi ebraici più tradizionali.

Ulteriori prove dell’importanza dei processi di identità sociale si riscontrano nell’ipotesi di Charles Liebman (1973, 153 segg.), il quale sostiene che l’ideologia universalista di sinistra permette agli ebrei di sovvertire le tradizionali categorizzazioni sociali in cui essi sono percepiti in termini negativi. L’adozione di tali ideologie da parte degli ebrei rappresenta un tentativo di superare sentimenti ebraici di alienazione “dalle radici e dalle tradizioni della società [gentile]” (p. 153). “L’ebreo continua la sua ricerca di un’etica o di un ethos non solo universale o capace di universalità, ma che serva da avanguardia contro le tradizioni più antiche della società, una ricerca la cui intensità è aumentata e rafforzata dal trattamento dell’ebreo da parte del gentile” (Liebman 1973, 157).  Tali tentativi di sovvertire le categorizzazioni sociali negative imposte da un outgroup costituiscono un aspetto fondamentale della teoria dell’identità sociale (Hogg & Abrams 1988; si veda SAID, cap. 1).

L’ideologia universalista funziona pertanto come una forma laica del giudaismo. Le forme settarie del giudaismo vengono scartate come “una strategia di sopravvivenza” (Liebman 1973, 157) a causa della loro tendenza a generare l’antisemitismo, della mancanza di attrattiva intellettuale nel mondo postilluministico e dell’inabilità di attrarre i gentili e pertanto di trasformare il mondo sociale gentile in modo tale da promuovere gli interessi di gruppo ebraici. In effetti, mentre l’ideologia universalista è formalmente congruente con gli ideali dell’illuminismo, il mantenimento del tradizionale separatismo ebraico e i modelli associativi tra i fautori dell’ideologia indicano un elemento di inganno o di autoinganno:

Gli ebrei preferiscono unirsi ad altri ebrei per promuovere iniziative apparentemente non ebraiche (che contribuiscono a far sì che gli ebrei siano accettati), per poi far finta che l’intera questione non abbia nulla a che vedere con l’essere ebrei. Ma questo tipo di attività è più prevalente tra gli ebrei maggiormente estraniati dalle proprie tradizioni e pertanto più ansiosi di trovare un valore che sostenga l’accettazione degli ebrei senza distruggere apertamente i vincoli di gruppo ebraici (Liebman 1973, 159)

L’ideologia universalista pertanto permette agli ebrei di evitare l’alienazione o l’estraniamento dalla società gentile lasciando però che si mantenga una forte identità ebraica. Le istituzioni che promuovono i legami tra i gentili (quali il nazionalismo e le tradizionali associazioni religiose gentili) vengono contestate e sovvertite, mentre viene mantenuta l’integrità strutturale del separatismo ebraico. Un filo costante della teorizzazione radicale da Marx in poi è stato il timore che il nazionalismo avrebbe potuto servire da collante sociale dando luogo a un compromesso tra le classi sociali e a un ordine sociale molto unificato, basato

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su rapporti gerarchici ma armoniosi tra le esistenti classi sociali. Questa è l’unica forma di organizzazione sociale gentile ad alta coesione in netta contraddizione con il giudaismo in quanto strategia evolutiva di gruppo (si vedano i capp. 5, 7, 8). Sia la vecchia che la nuova sinistra, come si è notato, cercavano attivamente di sovvertire la coesione della struttura sociale gentile, incluso, in modo particolare, il modus vivendi  raggiunto tra impresa e lavoro negli anni ’60. E si è già notato che il governo comunista polacco dominato dagli ebrei contrastava attivamente il nazionalismo polacco, nonché il potere politico e culturale della chiesa cattolica, la più importante forza di coesione sociale nella società polacca tradizionale.

Infine, come sottolineato da Rothman and Lichter (1982, 119), il marxismo è particolarmente allettante come base di un’ideologia mirata a sovvertire le categorizzazioni sociali dell’outgroup gentile, perché all’interno di una tale ideologia la categorizzazione ebreo-gentile diventa meno rilevante, mentre la coesione di gruppo e il separatismo ebraici permangono comunque: “Attraverso l’adozione di varianti dell’ideologia marxista, gli ebrei negano la realtà delle differenze culturali o religiose tra ebrei e cristiani. Queste differenze diventano ‘epifenomeniche’ rispetto alla più fondamentale opposizione tra lavoratori e capitalisti. Ne consegue che ebrei e non ebrei, in fondo, sarebbero effettivamente fratelli. Anche quando non adottavano una posizione marxista, molti ebrei prediligevano posizioni ambientali radicali che avevano uno scopo simile” (p. 119).90

Un tale strategia ha perfettamente senso dal punto di vista della teoria dell’identità sociale: nelle ricerche sul contatto intergruppo, un dato ricorrente è che rendere meno salienti le categorie sociali che definiscono i gruppi ridurrebbe la differenziazione intergruppo e faciliterebbe le interazioni sociali positive tra i membri di gruppi diversi (Brewer & Miller 1984; Doise & Sinclair 1973; Miller, Brewer & Edwards 1985). Al limite, l’accettazione di un’ideologia universalista da parte dei gentili li porterebbe a non percepire affatto gli ebrei come appartenenti a un’altra categoria sociale, mentre gli ebrei potrebbero comunque mantenere una forte identità personale.

Nell’insieme, queste caratteristiche del radicalismo ebraico costituiscono un’analisi molto convincente del ruolo dei processi di identità sociali in questo fenomeno. Quest’ultimo meccanismo è di particolare interesse come analisi sia della tendenza alla sovrarappresentanza politica ebraica nelle cause radicali sia della tendenza ebraica ad adottare ideologie ambientali radicali, una caratteristica comune degli scienziati sociali ebrei segnalata nel capitolo 2.  L’analisi sottintende che gli ebrei coinvolti in questi movimenti intellettuali ricorrano a un subdolo processo di inganno dei gentili (e, possibilmente, all’autoinganno), e che i movimenti funzionino essenzialmente come forma di criptogiudaismo.

Nel linguaggio della teoria dell’identità sociale, si crea un’ideologia nella quale l’importanza della categorizzazione sociale di ebreo-gentile viene sminuita e

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non sussistono connotazioni negative circa l’appartenenza al gruppo ebraico. L’importanza dell’appartenenza al gruppo etnico viene minimizzata come categoria sociale e, data la sua scarsa importanza, l’autointeresse etnico tra gentili viene giudicato come fondamentalmente fuorviato poiché non riconosce la preminenza del conflitto di classe tra gentili. Gli ebrei possono restare ebrei perché essere ebreo non ha più importanza. Nel contempo, le tradizionali istituzioni di coesione sociale all’interno della società gentile vengono sovvertite e la stessa società gentile è vista come permeata da conflitti di interesse tra le classi sociali piuttosto che caratterizzata da affinità di interessi e sentimenti di solidarietà sociale tra le diversi classi sociali. Rothman e Lichter (p. 119 segg.) avvalorano la loro tesi facendo notare che l’adozione di ideologie universaliste è una tecnica comune tra gruppi minoritari in tutto il mondo. Nonostante l’apparenza di universalismo, questi movimenti non sono assolutamente assimilazionisti, e infatti Rothman e Lichter vedono l’assimilazione, definita come totale assorbimento e perdita di identità di gruppo minoritario, come un’alternativa all’adozione di movimenti politici universalisti. È possibile che le ideologie universaliste siano cortine di fumo che in realtà facilitano l’ininterrotta esistenza di strategie di gruppo, promuovendo al tempo stesso la negazione della loro importanza sia da parte degli outgroup che degli ingroup. Il giudaismo come strategia di gruppo coeso e a base etnica riesce a sopravvivere, ma in forma criptica o semicriptica.

A corroborazione di questa prospettiva, Levin (1977, 105) afferma che “L’analisi di Marx [del giudaismo come casta] offriva ai pensatori socialisti una facile scappatoia – per ignorare o minimizzare il problema ebraico.” In Polonia, il partito comunista dominato dagli ebrei deplorò la partecipazione di operai e contadini ai pogrom negli anni ’30 perché questi individui non agivano in base ai propri interessi di classe (Schatz 1991, 99), un’interpretazione secondo cui i conflitti etnici sarebbero causati dal capitalismo e sarebbero scomparsi dopo la rivoluzione comunista. Una delle ragioni del limitato antisemitismo esistente all’interno del movimento socialdemocratico nella Germania del tardo XIX secolo è che tutti i fenomeni sociali potevano essere spiegati dalla teoria marxista; i socialdemocratici “non avevano bisogno dell’antisemitismo, altra teoria onnicomprensiva, per spiegare gli avvenimenti della loro vita” (Dawidowicz 1975, 42). I socialdemocratici (e Marx) non analizzavano mai il giudaismo come nazione o come gruppo etnico ma piuttosto come comunità religiosa ed economica (Pulzer 1964, 269).

Pertanto, in teoria, l’antisemitismo e altri conflitti etnici sarebbero scomparsi con l’avvento della società socialista. È possibile che in alcuni casi una tale interpretazione sia effettivamente servita a ridurre l’antisemitismo. Levy (1975, 190) suggerisce che, tra l’elettorato operaio gentile dei socialdemocratici tedeschi, l’antisemitismo era minimizzato dalle attività dei leader del partito e dagli strateghi socialisti, i quali inquadravano i problemi politici ed economici di questo gruppo in termini di conflitto di classe piuttosto che di conflitto ebreo-gentile e si opponevano attivamente a qualsiasi collaborazione con i partiti antisemitici.

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Trotsky e altri ebrei del Partito socialdemocratico operaio russo si ritenevano rappresentanti del proletariato ebraico nell’ambito del più ampio movimento socialista (si veda nota 4), ma erano contrari al programma separatista e nazionalista del Bund ebraico russo. Arthur Liebman (1979, 122-123) sostiene che questi socialisti assimilazionisti concettualizzavano coscientemente una società postrivoluzionaria in cui il giudaismo esisterebbe, ma con una ridotta rilevanza sociale: “Per loro, la soluzione definitiva del problema ebraico sarebbe una società socialista internazionalista che non prestasse attenzione alle distinzioni tra ebrei e non ebrei. Per affrettare la creazione di una tale società, si rendeva necessario, secondo questi socialisti assimilazionisti, che gli ebrei considerassero irrilevanti le distinzioni tra loro e i non ebrei.”

Analogamente, dopo la rivoluzione, “Avendo abbandonato le proprie origini e identità, eppure senza trovare, o condividere, o essere pienamente ammessi a partecipare alla vita russa (fatta eccezione per il mondo del partito), i bolscevichi ebrei trovarono la loro casa ideologica nell’universalismo rivoluzionario. Sognavano una società senza stato e classi, sostenuta dalla fede e dottrina marxiste, che trascendesse le particolarità e i fardelli dell’esistenza ebraica” (Levin 1988, 49). Questi individui, insieme a molti ex-bundisti fortemente nazionalisti, finirono per amministrare programmi legati alla vita ebraica nazionale nell’Unione Sovietica. A quanto pare, sebbene respingessero il separatismo radicale ebraico sia dei bundisti che dei sionisti, si aspettavano la continuità della vita nazionale ebraica laica nell’Unione Sovietica (p. es. Levin 1988, 52).

Questa credenza nell’invisibilità del giudaismo in una società socialista si riscontra anche tra i radicali ebrei americani. I socialisti ebrei americani degli anni 1890, per esempio, immaginavano una società in cui la razza non avrebbe avuto alcun ruolo (Rogoff 1930, 115), uno scenario, a quanto pare, in cui gli ebrei e i non ebrei sarebbero rimasti nelle rispettive sfere separate in un movimento operaio basato sul ceto sociale. A ogni modo, non si raggiunse neanche questo grado di assimilazione; questi organizzatori lavoravano in un milieu completamente ebraico e mantenevano forti legami con la comunità ebraica. “Le loro azioni continuavano a essere in contraddizione con la loro ideologia. Più si impegnavano nel compito di organizzare i lavoratori ebrei, più stridenti diventavano nella loro insistenza sull’universalismo socialista” (Liebman 1979, 256-257).

Il divario tra retorica e realtà suggerisce fortemente l’importanza dell’inganno e dell’autoinganno in questo fenomeno. Infatti, questi organizzatori socialisti non abbandonarono mai la loro retorica universalista, ma si opposero attivamente all’integrazione dei loro sindacati nel più ampio movimento operaio americano persino quando, a seguito del calo dell’uso dello yiddish tra i loro membri, non avevano più scuse per non averlo fatto. Nei sindacati, facevano politica etnica per mantenere al potere il loro gruppo etnico (Liebman 1979, 270 segg.), azioni chiaramente in contraddizione con la retorica socialista. Alla fine, l’attaccamento di molti di questi individui al socialismo si indebolì

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e fu rimpiazzato da un forte senso di etnicità e di appartenenza al popolo ebraico (Liebman 1979, 270).

Ne conseguì che la patina di universalismo serviva a coprire il continuo separatismo degli intellettuali e organizzatori politici radicali ebrei:

[Gli intellettuali gentili] non sono neanche accettati del tutto nella compagnia umanista laica dei loro amici ebrei di un tempo. Gli ebrei continuano a insistere in modi indiretti e spesso inspiegabili sulla loro unicità. L’universalismo ebraico nelle relazioni tra ebrei e non ebrei ha qualcosa di falso… Assistiamo tuttora all’anomalia di ebrei laici e atei che scrivono i propri libri di preghiera. Assistiamo a riformatori politici ebrei che troncano i rapporti con i loro partiti locali favoreggianti uno stile di politica etnico e promuovono obiettivi politici apparentemente universali – mentre organizzano i propri club politici che sono talmente ebraici in termini di stile e modi da far sentire a disagio i non ebrei. (Liebman 1973, 158)

L’universalismo può pertanto essere visto come meccanismo per la continuità ebraica attraverso il criptismo o il semi-criptismo. Il radicale ebreo risulta invisibile al gentile come ebreo, evitando pertanto l’antisemitismo, mentre conserva, nascosta, la sua identità ebraica. Lyons (1982, 73) osserva che “la maggior parte dei comunisti ebrei porta la propria ebraicità con molta disinvoltura, ma la sente profondamente. Per la maggior parte, non è un’ebraicità religiosa né istituzionale; ciò malgrado, ha le sue radici in una subcultura di identità, stile, linguaggio, e rete sociale…. In realtà, questa ebraicità di seconda generazione era antietnica, eppure costituiva la punta massima dell’etnicità. L’imperatore si credeva coperto da vesti trans-etniche e americane, ma i gentili vedevano le sfumature e i dettagli della sua nuda etnicità.”

Queste riflessioni indicano un elemento di criptismo – una disgiunzione autoingannatrice tra persona pubblica e privata – “un duplice atteggiarsi, mostrando un volto al mondo esterno e un altro alla tribù” (Horowitz 1997, 42). Ma questa attitudine comporta dei costi. Come fa notare Albert Memmi (1966, 236), “L’ebreo di sinistra paga questa protezione con la sua modestia e anonimità, la sua apparente indifferenza per tutto ciò che riguarda il suo popolo… Come il povero accolto in una famiglia borghese, si pretende da lui che abbia almeno il buon gusto di rendersi invisibile.” A causa della natura della propria ideologia, gli ebrei di sinistra si vedevano costretti a de-enfatizzare questioni specificamente ebraiche quali l’Olocausto e Israele, nonostante le loro forti identificazioni come ebrei (Wisse 1987). È proprio questa caratteristica dei movimenti ebraici di sinistra che risulta più odiosa agli ebrei etnicamenti impegnati (si veda, p. es., Wisse 1987).

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L’identificazione etnica era spesso inconscia, il che suggerisce autoinganno. Nel suo campione di comunisti ebrei americani, Lyons fa notare che,

i dati riscontrati sono pervasi da prove dell’importanza dell’etnicità in generale e dell’ebraicità in particolare. Molti comunisti, per esempio, dichiarano che non avrebbero mai sposato una persona che non fosse di sinistra. Quando si interpellarono gli ebrei in merito a se avrebbero mai sposato una persona non ebrea, molti titubarono, sorpresi dalla domanda, e si trovarono in difficoltà a rispondere. Pensandoci, molti conclusero che avevano sempre dato per scontato il matrimonio con una persona ebrea. L’alternativa non era mai stata presa in considerazione, in particolare tra gli uomini ebrei.

Inoltre, ci furono consapevoli tentativi di inganno volti a rendere invisibile il coinvolgimento ebraico nei movimenti politici radicali, dando una sembianza americana a ciò che in realtà era un movimento prevalentemente ebraico (Liebman 1979, 527 segg.). Sia il Partito socialista sia il CPUSA facevano di tutto per mettere in mostra i leader gentili, e il CPUSA incoraggiava attivamente i suoi membri ebrei ad assumere nomi che potessero sembrare gentili. (Si assistette allo stesso fenomeno in Polonia [si veda sopra] e nell’Unione Sovietica [si veda p. 97].) Nonostante gli ebrei costituissero più della metà degli iscritti sia del Partito socialista sia del CPUSA in alcuni periodi, né l’uno né l’altro aveva mai presentato un ebreo come candidato presidenziale e nessun ebreo ricoprì l’incarico più alto nel CPUSA dopo il 1929. Si reclutavano gentili da luoghi remoti per ricoprire posizioni di alto rilievo nelle organizzazioni socialiste dominate dagli ebrei a New York. Non di rado la dominazione ebraica di queste organizzazioni portava i gentili a dimettersi quando si rendevano conto che il loro era un ruolo di facciata in un’organizzazione essenzialmente ebraica.

Liebman (1979, 561) fa notare che i radicali della nuova sinistra spesso facevano di tutto per ignorare completamente le questioni ebraiche. La nuova sinistra de-enfatizzava l’etnicità e la religione nella sua ideologia, mentre enfatizzava le categorie sociali e questioni politiche quali la guerra del Vietnam e la discriminazione contro i neri – questioni che creavano divisioni tra i bianchi gentili ma erano irrilevanti per l’identità ebraica; per di più, queste questioni non minacciavano gli interessi borghesi ebraici, specialmente il sionismo. L’identità ebraica, benché evidente per i partecipanti, era nascosta dal pubblico. E come si è notato sopra, quando la nuova sinistra cominciò ad adottare posizioni incompatibili con gli interessi ebraici, gli ebrei tendevano a recidere i propri legami con il movimento.

In una straordinaria illustrazione della percepita invisibilità delle dinamiche di gruppo relative al coinvolgimento ebraico nei movimenti politici radicali, Liebman (1979, 167) descrive gli attivisti studenti come completamente ignari del fatto che le loro azioni avrebbero potuto scatenare l’antisemitismo, data la sovrarappresentanza degli ebrei tra gli attivisti. (Liebman dimostra che altri ebrei infatti erano preoccupati che

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le loro azioni provocassero l’antisemitismo.) Dal loro punto di vista, era  un esercizio ben riuscito di criptismo: immaginavano che la loro ebraicità fosse completamente invisibile al mondo esterno, mentre essa continuava a mantenere per loro una significativa importanza soggettiva. Su un piano teorico, questo è un caso emblematico di autoinganno, considerato – in SAID (cap. 8) – come un’essenziale caratteristica dell’ideologia religiosa ebraica e delle reazioni all’antisemitismo.

A ogni modo, sembra che l’inganno sia generalmente fallito, se non per quanto riguarda la nuova sinistra, almeno per la vecchia sinistra. Tra gli intellettuali ebrei e quelli non ebrei nelle organizzazioni della vecchia sinistra radicale, i rapporti erano generalmente tutt’altro che buoni (C. Liebman 1973, 158-159). Alcuni intellettuali gentili erano attratti dal movimento proprio perché dominato dagli ebrei, ma più tipicamente il milieu essenzialmente ebraico si presentava come una barriera (Liebman 1979, 530 segg.). L’impegno ebraico di questi radicali, il loro desiderio di rimanere in un milieu ebraico e i loro atteggiamenti negativi verso la cultura cristiana gentile impedivano loro un efficace reclutamento tra la classe operaia gentile. Come scrisse il padre comunista di David Horowitz in un viaggio attraverso il Colorado negli anni ’30, “Ho la sensazione… di trovarmi in un paese straniero. E ho l’impressione che, salvo arriviamo a conoscere talmente bene la gente di questo paese da non sentirci così, non approderemo a nulla. Temo che la maggior parte di noi non sia veramente ‘patriottica,’ ovvero, profondamente attaccata al paese e alla gente.” Similmente, l’ex-comunista Sidney Hook (1987, 188) osservò che “era come se non avessero radici nella, o conoscenza della società americana che volevano trasformare.” Una situazione analoga si verificò in Polonia, dove perfino gli sforzi dei comunisti ebrei più de-etnicizzati erano osteggiati dai tradizionali atteggiamenti ebraici di superiorità ed estraniamento nei confronti della cultura polacca tradizionale  (Schatz 1991, 119).

Una volta iscrittisi al partito, molti non ebrei erano ripugnati dall’ambiente molto intellettuale e lo lasciarono. Come previsto in base alla teoria dell’identità sociale e all’ipotesi che il radicalismo fosse in fondo una forma laica di giudaismo, ci sono indicazioni di un’atmosfera anti-gentile all’interno di queste organizzazioni: “Era anche presente tra gli intellettuali e i progressisti ebrei una combinazione di ostilità e superiorità verso i gentili” (Liebman 1979, 534). C’era anche un divario etnico tra lavoratori ebrei e neri del Partito comunista, dovuto, perlomeno in parte, a “un atteggiamento missionario e paternalistico” degli organizzatori ebrei (Lyons 1982, 80).

Gli incontri tra neri ed ebrei sembravano sempre caratterizzati dagli ebrei che tendevano la mano ai neri, “aiutandoli”, “insegnando loro”, “guidandoli”. Molti intellettuali neri posero fine alla breve relazione con il Partito comunista, amareggiati non solo dai comunisti ma anche dagli ebrei che, a loro avviso, li avevano trattati in modo condiscendente. “Come si può pretendere che il nero medio della scuola pubblica

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comprenda le esigenze del sistema capitalista in relazione sia all’ebreo sia che al gentile in America… visto che entrambi i gruppi si comportano in modo curiosamente simile ad ariani hitleriani… quando si tratta di gente di colore?” si domandò Langston Hughes, amareggiato dopo un contrasto con dei comunisti ebrei. (Kaufman 1997, 110)

Questo senso di superiorità condiscendente dei radicali ebrei coinvolti nel movimento dei diritti civili è stato identificato come una fonte dell’attuale inasprimento dell’antisemitismo tra gli afroamericani.

 

CONCLUSIONE

È utile cercare di capire l’ultima sorte del giudaismo nelle situazioni in cui la società finì per essere organizzata secondo un’ideologia universalista politicamente radicale. Nell’Unione Sovietica, singoli ebrei “svolgevano un ruolo importante e talvolta determinate nella direzione dei tre principali partiti socialisti,” compresi i bolscevichi (Pinkus 1988, 42; si vedano anche Rothman & Lichter 1982;  Shapiro 1961). Gli ebrei “dominavano” il primo Politburo (Rapoport 1990, 30). (Lenin stesso aveva un nonno materno ebreo [Volkogonov 1995] e avrebbe dichiarato che “un russo intelligente è quasi sempre un ebreo o qualcuno con sangue ebreo nelle vene” [in Pipes 1990, 352].) Gli ebrei costituivano una percentuale maggiore in altri partiti rivoluzionari russi rispetto a quella nel partito bolscevico (Lindemann 1997, 425 segg.). Infatti, ci sono indicazioni di uno scisma ebreo-gentile tra i bolscevichi e i menscevichi, maggiormente internazionalisti e nelle cui file militava una percentuale di ebrei molto più alta. (Si ricordi anche l’internazionalismo dei bolscevichi ebrei; si veda sopra.) Ciò nonostante, gli ebrei figuravano preminentemente tra i leader bolscevichi e nel movimento bolscevico – “citare il numero assoluto degli ebrei, o la loro percentuale del totale, significa non riconoscere certi fattori decisivi seppure intangibili: l’assertività e le capacità verbali spesso sbalorditive dei bolscevichi ebrei, la loro energia e la loro forza di convinzione” (p. 429). I bolscevichi ebrei erano inoltre più istruiti dei bolscevichi non ebrei e più inclini a essere poliglotti. (Come si è osservato nel capitolo 1, i radicali americani ebrei erano molto intelligenti, diligenti, impegnati e socialmente ambiziosi – caratteristiche che contribuivano indubbiamente al successo delle loro organizzazioni.) Dei i sette leader più importanti, quattro erano ebrei etnici (senza contare Lenin, il quale – come nota Lindemann – era un quarto ebreo e perciò sufficientemente ebreo da essere ritenuto sospetto nella Germania nazista; Lenin era considerato da molti un ebreo), come pure circa un terzo dei primi cinquanta leader.

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Inoltre, Lindemann fa notare che diversi dei più importanti gentili nel movimento bolscevico potrebbero essere classificati come “giudaizzati non ebrei” – “un termine che, liberato dalle sue connotazioni sgradevoli, potrebbe essere usato per enfatizzare un punto spesso trascurato: anche in Russia c’erano dei non ebrei, bolscevichi o meno, che rispettavano gli ebrei, li lodavano abbondantemente, li imitavano, avevano a cuore il loro benessere, e instauravano con loro amicizie o relazioni romantiche” (p. 433). Lenin, per esempio, “lodava apertamente e ripetutamente il ruolo degli ebrei nel movimento rivoluzionario; era uno dei più inflessibili e lineari del partito nelle sue denunce dei pogrom e dell’antisemitismo in generale. Dopo la rivoluzione, ricusò la sua precedente opposizione al nazionalismo ebraico, accettando che sotto il regime sovietico la nazionalità ebraica fosse legittima. Sul letto di morte, Lenin parlò caldamente del menscevico ebreo Julius Martov, per il quale nutriva sempre un particolare affetto personale nonostante le loro forti divergenze ideologiche.”

Alludendo all’importante opera di Paul Johnson (1988), Lindemann segnala il ruolo “fondamentale” di Trotsky nella progettazione e nella conduzione dell’insorgenza bolscevica e il suo ruolo di “brillante dirigente militare” nella creazione dell’Esercito Rosso come forza militare (p. 448). Inoltre, molti tratti della sua personalità sono stereotipicamente ebraici:

Se si accetta che l’antisemitismo sia stato motivato fortemente dall’ansia e dalla paura, distinte dal disprezzo, allora la misura in cui Trotsky diventò fonte di preoccupazione tra gli antisemiti è significativa. Anche qui, le parole di Johnson sono suggestive: questi scrive del “potere demoniaco” – lo stesso termine, il che è rivelatore, usato ripetutamente da altri in relazione all’oratoria di Zinoviev o alla spietatezza di Uritsky.91 La sconfinata sicurezza in sé di Trotsky, la sua famigerata prepotenza, e il suo senso di superiorità erano altri tratti spesso associati agli ebrei. Su Trotsky e altri bolscevichi c’erano sì delle fantasie, ma c’erano pure delle realtà su cui crescevano le fantasie. (p. 448)

Vaksberg (1994) offre una presentazione particolarmente interessante. Egli fa notare, per esempio, che in un fotomontaggio dei leader bolscevichi realizzato nel 1920, 22 su 61 erano ebrei, “e l’immagine non includeva Kaganovich, Pyatniksky, Goloschchekin, e tanti altri che facevano parte della cerchia dirigente e la cui presenza su quella pagina dell’album avrebbe incrementato ulteriormente la percentuale degli ebrei” (p. 20). Oltre all’enorme sovrarappresentanza degli ebrei a questi livelli, tra i leader non ebrei (p. 49) c’era “una pletora di mogli ebree”, il che deve aver intensificato l’atmosfera ebraica dei più alti gradi del governo, dato che tutti, Stalin in particolare, sembravano

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piuttosto attenti all’etnicità. (Lo stesso Stalin fece di tutto per scoraggiare il matrimonio di sua figlia con un ebreo e disapprovava altri matrimoni ebreo-gentili [Vaksberg 1994, 139].) Da parte loro, gli antisemiti accusavano gli ebrei di aver “impiantato quelli della propria categoria come mogli e mariti di personalità  ufficiali e influenti” (in Kostyrchenko 1995, 272; corsivo nel testo). Questo punto corrisponde bene con la descrizione dei gentili bolscevichi come “non ebrei giudaizzati” offerta da Lindemann.

Tra i gentili russi era diffusa la percezione che “mentre tutti gli altri erano usciti in perdita dalla Rivoluzione, gli ebrei, e solo loro, se ne erano giovati” (Pipes 1993, 101), come indicato, per esempio, dalle misure ufficiali da parte del governo sovietico contro l’antisemitismo. Come nel caso della Polonia del secondo dopoguerra, gli ebrei erano considerati sostenitori affidabili del regime per via dell’enorme cambiamento del loro status apportato dalla rivoluzione (Vaksberg 1994, 60). Di conseguenza, l’immediato periodo postrivoluzionario era caratterizzato da un intenso antisemitismo, inclusi i numerosi pogrom condotti dall’Esercito bianco. Tuttavia, Stalin “decise di distruggere il ‘mito’ del ruolo decisivo degli ebrei nella progettazione, organizzazione e realizzazione della rivoluzione” e di sottolineare il ruolo dei russi (Vaksberg 1994, 82). Così come gli apologisti ebrei contemporanei, Stalin aveva interesse a minimizzare il ruolo degli ebrei nella rivoluzione, ma per motivi diversi.

Gli ebrei erano fortemente sovrarappresentati tra l’élite politica e culturale nell’Unione Sovietica durante gli anni ’20 (Ginsberg 1993, 53; Horowitz 1993, 83; Pipes 1993, 112) e, difatti, fino agli anni ’50 inoltrati, epoca delle epurazioni degli ebrei dall’élite economica e culturale (Kostyrchenko 1995).92 Io interpreto la tesi di Vaksberg (1994) su Stalin come un’insinuazione che Stalin fosse un antisemita sin dagli esordi, ma che, a causa della forte presenza di ebrei ai vertici del governo e in molti altri campi della società sovietica, come pure per la necessità di lusingare i governi occidentali, i suoi sforzi per eliminare gli ebrei dagli alti ranghi del governo procedevano solo lentamente, e si vide costretto a ricorrere pesantemente all’inganno. Perciò Stalin univa aperte dichiarazioni di filosemitismo ai provvedimenti contro gli ebrei, e spesso includeva qualche non ebreo per mascherare l’intento antiebraico. Per esempio, poco prima di una serie di processi in cui 11 dei 16 imputati erano ebrei, si svolse il processo ampiamente pubblicizzato di due non ebrei accusati di antisemitismo (p. 77). Nei processi degli ebrei, non si accennò all’etnicità ebraica e, con una sola eccezione, si rivolsero agli imputati usando unicamente i loro pseudonimi di partito (che non suonavano ebraici) anziché i loro nomi ebraici. Stalin continuava a elargire onori e premi agli artisti ebrei negli anni ’30, perfino nel mentre che rimuoveva i più alti leader politici ebrei, sostituendoli con dei gentili (si veda anche Rubenstein 1996, 272).

La campagna per rimuovere gli ebrei dagli incarichi amministrativi nell’establishment culturale risale  addirittura al 1942, sempre accompagnata da premi e onori conferiti a

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prestigiosi scienziati e artisti ebrei al fine di schivare accuse di antisemitismo. Il pieno antisemitismo promosso dallo Stato emerse nel secondo dopoguerra, con tanto di limitazioni numeriche delle ammissioni universitarie degli ebrei ben più severe di quelle esistenti ai tempi dello zar. Tuttavia, non si trattava solo dell’antisemitismo personale di Stalin; piuttosto, l’antisemitismo era motivato da preoccupazioni molto tradizionali inerenti agli ebrei, legate alla dominazione economica e culturale e alla lealtà. Kostyrchenko (1995) fa notare che i russi che cercavano di soppiantare gli ebrei nell’élite sovietica costituivano una delle maggiori fonti di pressione su Stalin. Si assistette a epurazioni di élite sproporzionatamente ebraiche nel giornalismo, nelle arti, nelle facoltà accademiche di storia, pedagogia, filosofia, scienze economiche, medicina e psichiatria, e negli istituti di ricerca scientifica in ogni campo delle scienze naturali. Ci furono anche delle epurazioni diffuse di ebrei ai più alti livelli di gestione e di ingegneria in ogni settore dell’economia. Gli intellettuali ebrei erano rappresentati come “cosmopoliti senza radici”, non solidali con la cultura nazionale russa, ed erano considerati sleali a causa del loro aperto entusiasmo per Israele e dei loro stretti rapporti con gli ebrei americani.

Gli ebrei erano anche molto sovrarappresentati come leader negli altri governi comunisti nell’Europa orientale nonché nei movimenti rivoluzionari comunisti in Germania e in Austria tra il 1918 e il 1923. Nel breve corso dell’amministrazione comunista in Ungheria nel 1919, il 95 percento delle figure più importanti nel governo di Bela Kun era costituito da ebrei (Pipes 1993, 112). Questo governo aveva vigorosamente eliminato i controrivoluzionari prevalentemente gentili, e la lotta che ne seguì portò all’esecuzione della maggior parte della dirigenza ebraica del governo comunista – una lotta con chiare connotazioni antisemitiche. Inoltre, gli agenti ebrei al servizio dell’Unione Sovietica figuravano in modo prominente nei partiti comunisti occidentali: “Anche tra le varie fazioni, spesso in violenta rivalità, dei nascenti partiti comunisti dell’Occidente, la questione degli ‘ebrei stranieri, agli ordini di Mosca’ diventava una questione scottante. Continuava a essere per lo più un tabù tra le file socialiste riferirsi agli agenti di Mosca come ebrei, ma l’implicazione era spesso che tali ebrei stranieri stessero distruggendo il socialismo occidentale” (Lindemann 1997, 435-436).

Gli ebrei pertanto riuscirono a conquistare posizioni di prominenza in queste società nella prime fasi, ma alla lunga, l’antisemitismo nell’Unione Sovietica e in altre società comuniste dell’Europa dell’Est diventò un fenomeno ben noto e un’importante causa politica tra gli ebrei americani (Sachar 1992; Woocher 1986). Come si è visto, Stalin ridusse gradualmente il potere degli ebrei nell’Unione Sovietica, e l’antisemitismo fu un fattore importante nel declino degli ebrei che ricoprivano posizioni di dirigenza nei governi comunisti dell’Europa dell’Est.

I casi dell’Ungheria e della Polonia sono particolarmente interessanti. Dato il ruolo dei comunisti ebrei nella Polonia postbellica, non sorprende che si sia sviluppato un movimento antisemitico che infine cacciò dal potere ‘la Generazione’ (si veda

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Schatz 1991, 264 segg.). Dopo il discorso di destalinizzazione di Nikita Khrushchev del 1956, il partito si divise in una fazione ebraica e una antiebraica, con quest’ultima che denunciava l’eccessivo numero  di ebrei ai vertici.  A detta di un leader della fazione antiebraica, la preponderanza degli ebrei “fa sì che la gente odii gli ebrei e diffidi del partito. Gli ebrei alienano la gente dal partito e dall’Unione Sovietica: sono stati offesi i sentimenti nazionali, ed è dovere del partito adeguarsi alle richieste affinché i polacchi, e non gli ebrei, occupino le posizioni più importanti in Polonia” (in Schatz 1991, 268).  Lo stesso Khrushchev appoggiò una nuova linea politica con il suo commento “Avete già troppi Abramovich” (in Schatz 1991, 272). Anche questa prima fase delle epurazioni ebraiche era accompagnata da incidenti antisemitici tra il pubblico generale, nonché da appelli affinché i comunisti ebrei che avevano cambiato nome per rendersi meno visibili nel partito si rivelassero. In seguito a questi cambiamenti oltre la metà degli ebrei polacchi scelse di emigrare in Israele tra il 1956 e il 1959.

Si assistette a un drammatico incremento dell’antisemitismo verso la fine degli anni ’60. Gli ebrei subirono un lento declassamento di status e i comunisti ebrei furono incolpati delle disgrazie della Polonia. I protocolli dei savi di Sion circolavano ampiamente tra gli attivisti del partito, studenti, e membri dell’esercito. Le forze di sicurezza, precedentemente dominate dagli ebrei e volte a sopprimere il nazionalismo polacco, erano ora dominate dai polacchi che vedevano gli ebrei “come un gruppo da sottoporre a stretta e costante vigilanza” (p. 290). Gli ebrei vennero rimossi dalle cariche importanti nel governo, nelle forze armate, e nei media. Si tenevano dossier dettagliati sugli ebrei, inclusi i cripto-ebrei che avevano cambiato nome e adottato identità esterne non ebraiche. Così come avevano fatto gli ebrei in precedenza, il gruppo antiebraico creò delle reti per promuovere la propria gente nel governo e nei media. Ora gli ebrei divennero dissidenti e disertori mentre prima avevano dominato le forze statali dell’ortodossia.

Nel 1968 arrivò il “terremoto” con una campagna antisemitica a seguito delle espressioni di giubilo tra gli ebrei per la vittoria di Israele nella Guerra dei sei giorni. Israele prevalse nonostante il sostegno sovietico degli arabi, e il presidente Gomulka condannò la “quinta colonna” ebraica del paese. Il paese fu spazzato da un’ondata di epurazioni degli ebrei e la vita ebraica laica (p. es., le riviste yiddish e le scuole e i campi estivi ebraici) fu essenzialmente smembrata. Questo odio verso gli ebrei era chiaramente una conseguenza del ruolo ricoperto dagli ebrei nella Polonia postbellica. Come descritto da un intellettuale, i problemi della Polonia derivavano essenzialmente dal conflitto etnico tra i polacchi e gli ebrei in cui gli ebrei erano appoggiati dai russi. I problemi erano dovuti a “l’arrivo nel nostro paese… di certi politici vestiti in uniformi da ufficiale, i quali poi pretendevano che solo loro – i Zambrowski, i Radkiewicz, i Berman – avessero il diritto al comando, al monopolio sul decidere cosa fosse vantaggioso per la nazione polacca.” La soluzione sarebbe arrivata ad avvenuta rettifica dell’“anormale composizione etnica” della società (in Schatz 1991, 306, 307).

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Gli ebrei rimasti, “sia come collettività sia come individui… erano bersagliati, diffamati, ostracizzati, umiliati, minacciati e intimiditi con impressionante intensità e… malignità (p. 308). La maggior parte abbandonò la Polonia per Israele e fu costretta a rinunciare alla cittadinanza polacca. Lasciò dietro di sé solo poche migliaia di ebrei, per lo più anziani.

Il caso dell’Ungheria è completamente analogo a quello della Polonia sia nelle origini del trionfo degli ebrei comunisti sia nella loro sconfitta subita alla fine per mano di un movimento antisemita. Nonostante sia stato dimostrato che Stalin era antisemita, egli insediò dei comunisti ebrei come leader della sua impresa volta a dominare l’Ungheria dopo la seconda guerra mondiale. Il governo era “completamente dominato” dagli ebrei (Rothman & Lichter 1982, 89) – una percezione diffusa tra il popolo ungherese (si veda Irving 1981, 47 segg.). “Gli spiritosi di Budapest spiegavano la presenza di un singolo gentile tra i leader del partito sostenendo che ci voleva un ‘goy’ per accendere le luci il sabato” (Rothman & Lichter 1982, 89). Il Partito comunista ungherese, appoggiato dall’Esercito rosso, torturava, imprigionava e giustiziava i leader politici dell’opposizione e altri dissidenti e sfruttava l’economia ungherese a vantaggio dell’Unione Sovietica. Crearono pertanto una situazione analoga a quella della Polonia: gli ebrei furono insediati dai loro padroni russi come ideale strato intermedio tra un’élite regnante straniera sfruttatrice e una popolazione autoctona sottomessa. Gli ebrei erano visti come gli artefici della rivoluzione comunista che ne avevano beneficiato di più. Gli ebrei costituivano quasi tutta l’élite del partito, ricoprivano le più alte posizioni nelle forze dell’ordine e dominavano i ruoli dirigenziali in tutta l’economia. Non solo i funzionari comunisti e i dirigenti economici ebrei erano economicamente dominanti, sembrava anche che abbiano goduto di un accesso pressoché illimitato alle donne gentili che lavoravano per loro – in parte a causa della povertà in cui la stragrande maggioranza della popolazione era ridotta, e in parte per specifici programmi governativi mirati a sovvertire i costumi sessuali tradizionali, pagando, per esempio, perché le donne avessero figli illegittimi (si veda Irving 1981, 111). La dominazione della burocrazia ungherese comunista ebraica, pertanto, sembra aver avuto delle connotazioni di dominazione riproduttiva e sessuale dei gentili, in cui gli ebrei potevano godere di uno sproporzionato accesso sessuale alle donne gentili.

Come indicazione dell’abisso tra governante e governato in Ungheria, uno studente commentò: “Prendi l’Ungheria: Chi era il nemico? Per Rákosi [leader ebreo del Partito comunista ungherese] e la sua banda il nemico eravamo noi, il popolo ungherese. Credevano che gli ungheresi fossero fascisti per natura. Questo era l’atteggiamento dei comunisti ebrei, il gruppo di Mosca. Non nutrivano altro che disprezzo per il popolo”  (in Irving 1981, 146). Il commento illustra un tema della questione di lealtà discussa in SAID (cap. 2): La slealtà ebraica nei confronti della gente tra cui vivevano era spesso esacerbata dall’antisemitismo, a sua volta legato ad altre fonti comuni di antisemitismo.

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L’etnicità, inoltre, continuava a essere un fattore importante nel periodo postrivoluzionario malgrado la sua irrilevanza teorica. Quando i funzionari ebrei volevano penalizzare un agricoltore che non aveva raggiunto la sua quota, mandavano zingari a spogliare l’agricoltore della sua proprietà poiché gli altri abitanti non avrebbero partecipato alla distruzione di un consimile (Irving 1981, 132). Qui i funzionari del partito approfittavano dello stesso principio adottato da Stalin e altri governanti stranieri, ovvero l’avvalersi degli ebrei come strato sfruttatore tra se stessi e la popolazione autoctona sottomessa: le etnie straniere sono relativamente disposte a sfruttare gli altri gruppi. Non c’è da meravigliarsi pertanto che la rivolta ungherese del 1956 comprendesse elementi del pogrom antisemitico tradizionale, come indicato dagli atteggiamenti antiebraici tra i rifugiati dell’epoca. A questo riguardo, la rivolta non era dissimile a molti pogrom antisemitici verificatisi nelle società tradizionali quando il potere dell’élite governante straniera diminuì (si veda SAID, cap. 2; PTSDA, cap. 5).

Come per tutti gli esperimenti di vita, è possibile che l’ideologia universalista e la struttura politica di sinistra possano non raggiungere gli esiti voluti dai loro sostenitori ebrei.93 In base ai dati qui presentati, l’insuccesso conclusivo del radicalismo politico nel tutelare gli interessi ebraici risulta un importante fattore dell’abbandono, da parte degli ebrei, dei movimenti radicali o dei tentativi di combinare il radicalismo con un’identità ebraica aperta e un impegno verso gli interessi ebraici. A lungo termine, sembrerebbe che le ideologie di universalismo in presenza di una coesione di gruppo e di identità continuate non siano un meccanismo efficace per combattere l’antisemitismo.

Col senno di poi, la promozione ebraica di strutture sociali fortemente collettiviste quali il comunismo e il socialismo si è rivelata una strategia inefficace per il giudaismo in quanto strategia evolutiva di gruppo. Il giudaismo e il socialismo statalista e burocratico non sono ovviamente incompatibili, e si è visto che gli ebrei riuscirono a conquistare una posizione politica e culturale predominante nelle società socialiste come pure nelle società più individualiste. Tuttavia, la struttura fortemente autoritaria e collettivista di queste società consente anche un’istituzionalizzazione molto efficace dell’antisemitismo, laddove la predominanza ebraica all’interno della società – nonostante un alto grado di criptismo – arrivi a essere percepita negativamente.

Per di più, la tendenza di queste società a sviluppare una monocultura politica implica che il giudaismo possa sopravvivere solo ricorrendo al semi-criptismo. Come osserva Horowitz (1993, 86), “La vita ebraica è ridotta quando l’opposizione creativa tra sacro e laico, o tra Chiesa e Stato, è vista come costretta a sottomettersi a un insieme superiore di valori politici. Gli ebrei soffrono, il loro numero cala, e l’immigrazione diventa una soluzione di sopravvivenza quando lo Stato esige l’integrazione in una corrente maggioritaria nazionale, un universale religioso definito da una religione di Stato o quasi.” Alla lunga, l’individualismo radicale tra gentili e la frammentazione della cultura gentile offrono un ambiente più idoneo al giudaismo come

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strategia evolutiva di gruppo, e infatti ciò rappresenta un’importante direzione dell’attuale attività intellettuale e politica ebraica (si vedano capp. 5-7).

In questo contesto, è interessante che molti intellettuali ebrei neoconservatori negli Stati Uniti di oggi abbiano respinto le ideologie stataliste e corporativiste come diretta conseguenza del riconoscimento del fatto che queste ideologie sono sfociate nell’antisemitismo corporativista di sponsorizzazione statale. Infatti, si possono ricondurre gli inizi del movimento neoconservatore ai processi di Mosca degli anni ’30 in cui molti dei vecchi bolscevichi, Trotsky incluso, vennero condannati per tradimento. Si formò di conseguenza un movimento di sinistra antistalinista, gli Intellettuali di New York, parte del quale si sarebbe gradualmente trasformata gradualmente nel neoconservatorismo (si veda cap. 6). Il movimento neoconservatore si è mostrato strenuamente anticomunista e si è opposto alle politiche delle quote etniche e dell’azione positiva negli Stati Uniti – politiche che precluderebbero chiaramente la concorrenza libera tra ebrei e gentili. Parte dell’attrattiva esercitata dal neoconservatorismo sugli ebrei si riscontra nella sua compatibilità con il sostegno a Israele in un periodo in cui i paesi del Terzo Mondo, appoggiati dalla maggioranza degli americani di sinistra, erano fortemente antisionisti (Rothman & Lichter 1982, 105). Molti intellettuali neoconservatori erano stati in precedenza ardenti sostenitori della sinistra, e la scissione tra questi ex alleati scatenò un’intensa faida intestina.

Allo stesso modo, da parte degli intellettuali converso c’era una tendenza a una prospettiva libertaria e individualista in seguito all’antisemitismo corporativista di sponsorizzazione statale e statalista durante l’epoca dell’Inquisizione. Castro (1971, 327 segg.) sottolinea la corrente libertaria, anarchica, individualista, e anti-corporativista del pensiero converso, e lo attribuisce al fatto che i converso erano oppressi da uno stato corporativista e liberticida. Questi intellettuali, oppressi dalle leggi sulla purezza del sangue e dalla stessa Inquisizione, sostenevano che “Dio non distingueva tra un cristiano e un altro” (Castro 1971, 333).

Quando un esperimento di ideologia e struttura politica fallisce, ne viene lanciato un altro. Dall’Illuminismo in poi, il giudaismo non costituisce un movimento unificato e monolitico. Il giudaismo consiste in una serie di esperimenti di vita, e dall’Illuminismo, ci sono stati vari esperimenti di vita ebraici. Chiaramente non sono mancati dissidi tra gli ebrei su come meglio raggiungere i loro obiettivi durante questo periodo, e sicuramente gli interessi dei radicali ebrei erano talvolta in conflitto con gli interessi degli ebrei benestanti (spesso i loro datori di lavoro [Levin 1977, 210]). La natura volontaria dell’associazione ebraica dall’Illuminismo in poi ha portato a un relativo sgretolamento del giudaismo, con individui ebrei attratti da diversi “esperimenti di vita ebraici.” In questo senso, il radicalismo ebraico deve essere considerato come una tra varie soluzioni al problema dello sviluppo di un giudaismo attuabile nel periodo postilluministico, insieme a sionismo, neo-ortodossia, giudaismo conservatore, giudaismo riformato, neoconservatorismo e giudaismo come religione civica. Nel seguente capitolo

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vedremo come la psicoanalisi ha svolto un ruolo analogo tra un gran numero di intellettuali ebrei.

Karl Marx: o patriarca da esquerda judia ?

Karl Marx: o patriarca da esquerda judia ?

O livro de Kevin MacDonald intitulado The Culture of Critique (CofC) deveria ser revisado para focalizar Karl Marx, o fundador do primeiro movimento intelectual e político dos judeus de âmbito mundial? Sendo o criador judeu do socialismo “científico”, ele deu início à crítica radical da sociedade europeia que se estende ao século XXI. Embora o CofC aborde especificamente os movimentos intelectuais e políticos judaicos do século XX, ele certamente poderia ter ampliada sua compreensão da esquerda judaica, se Marx pudesse ser incluído no seu quadro teórico como o fundador dos movimentos intelectuais e políticos que tanto orientaram a esquerda judia no século XX.

A primeira questão a ser levantada é se Marx se reconhecia como dirigente judeu de um movimento intelectual e político de judeus. O CofC de Kevin MacDonald indica os passos a seguir para a solução do problema. Examinemos detidamente as indicações de Kevin MacDonald.

A metodologia de Kevin MacDonald é bastante objetiva. O primeiro passo consiste em “identificar movimentos influentes sob direção judaica, quaisquer sejam, não importando se todos ou a maioria dos judeus participassem deles”. O segundo passo consiste em “determinar se os participantes judeus se assumiam como judeus e se, por tal participação, buscassem atender a interesses judeus”. [i] Depois, então, discutiremos a influência e o impacto desses movimentos na Europa e nos Estados Unidos.

Em vista desses critérios de Kevin MacDonald, acreditamos em que o socialismo científico de Marx atenda aos dois quesitos.

Em primeiro lugar, Marx teve participação direta na criação das principais organizações de esquerda no século XIX. A maioria das primeiras organizações socialistas sofreram influência direta de Marx, quais sejam: a Liga Comunista, cofundada por Marx e Engels em 1847; o Partido Social-Democrático da Alemanha, fundado em 1863; o Partido Socialista Trabalhista da América, fundado em 1876; o Partido dos Trabalhadores Franceses, cofundado pelo genro de Marx, Paul Lafargue, em 1880; e a Federação Social-Democrática Britânica, fundada em 1881. A maioria dessas organizações moldaria a vida política da Europa e dos Estados Unidos no século XX.

Aquele que foi o sabatigói [N.T.: no original: Shabbos Goy] de Marx por longo tempo, Engels, reconheceu a preponderância dos judeus nos movimentos esquerdistas do século XIX:

Ademais, temos para com os judeus uma dívida de gratidão. Sem falar de Heine e Böme, Marx era de pura origem judia; Lassalle era judeu. Muitos entre os melhores da nossa gente são judeus. Meu amigo Victor Adler, que agora está cumprindo pena numa prisão em Viena por sua devoção à causa do proletariado; Eduard Bernstein, o editor da publicação londrina  Sozialdemokrat, Paul Singer, um dos melhores homens no Reichstag —essas pessoas deixam-me orgulhoso por sua amizade, e todos eles são judeus! Eu mesmo fui considerado judeu pelo [semanário conservador] Gartenlaube. Na verdade, se eu tivesse de escolher, preferiria ser um judeu a ser um “Herr von” ! [ii]

Em 1911, o sociólogo Robert Michels chamou atenção para a “abundância de judeus na direção dos partidos socialistas e revolucionários”:

Sobretudo na Alemanha, a influência dos judeus tem sido evidente no movimento dos trabalhadores. Os dois primeiros grandes capitães, Ferdinand Lassalle e Karl Marx, eram judeus, bem assim como o contemporâneo deles Moses Hess. O primeiro eminente político da velha escola a abraçar o socialismo, Johann Jacoby, era judeu. Também Karl Höchberg, um idealista, seu pai era rico comerciante de Francoforte, fundador da primeira revista socialista publicada em língua alemã. Paul Singer, que quase sempre presidia os congressos socialistas alemães, era judeu. Entre os 81 deputados socialistas mandados ao Reichstag na penúltima eleição geral, havia nove judeus. Este número é extremamente alto, comparado com a percentagem de judeus na população da Alemanha, com o total de trabalhadores judeus e com o número de judeus no Partido Socialista. [iii]

Em segundo lugar, longe de ser um etnomasoquista antissemita, Karl Marx identificava-se fortemente como judeu e estava muito envolvido com a comunidade judaica:

Com os judeus e a judaicidade, Marx sempre manteve laços positivos. Entre seus amigos mais próximos estavam os judeus Heinrich Heine and Ludwig Kugelmann; por certo tempo privou com Moses Hess e ajudou o ex-comunista de Colônia Abraham Jacoby a emigrar para os Estados Unidos (onde ele se tornou um médico influente). [iv]

Fato indicando forte identificação judaica é que, quando Jacoby militava pela revolução na Europa, sua agenda era a “emancipação” judaica, — a naturalização e eleitoralização dos judeus. Como no caso de Marx, seus associados mais próximos também tinham forte senso de identidade grupal judaica. Eles compartilhavam objetivos, crenças e compromissos em pró da emancipação dos judeus.

A persistente crítica de Marx contra as sociedades europeias resultava dos sentimentos de sua marginalização. Ele era etnicamente judeu, fora criado numa família liberal judia conforme os valores do Iluminismo. Seu pai abraçou o universalismo iluminista por causa da marginalidade dos judeus na sociedade europeia. Em consequência de sua marginalidade social, Marx tornou-se hostil à cultura e aos valores europeus. Reagindo a isso, ele construiu uma identidade social judia positiva, retratando o comportamento judeu balizado pelo ganho financeiro como motivo de orgulho étnico, não como conduta a ser demonizada. Conforme Marx, a emancipação dos judeus não implicaria a dissolução de sua identidade étnica, antes seria resultado da futura condição proletário-comunista ou, mais precisamente, secular, das sociedades europeias, com plena aceitação dos judeus. Ele chegou a acreditar que o judaísmo secular cumpriria papel positivo nas sociedades cristãs europeias. O triunfo mundial do comunismo corresponderia à vitória mundial do judaísmo secular, deixando livres os judeus para a defesa de seus interesses coletivos em sociedades formalmente europeias ainda, mas judaizadas. Nesse particular, Marx não era diferente dos profetas hebreus — que pregavam o domínio israelita do mundo sob a realeza messiânica, a não ser pelo fato de que Marx disfarçava seu particularismo étnico judeu sob a roupagem universalista do Iluminismo liberal.

Em A questão judaica, ele não apenas clamou pela emancipação judaica, como também desafiou o “antissemitismo”. Ele faria a mesma coisa novamente em A sagrada família, publicado em 1844. Esses ensaios foram escritos para refutar Bruno Bauer, para quem a raça judia era “horrorosa” e não teria contribuído com nada para a “construção da modernidade”. [v] Marx acreditava que o preconceito antissemita europeu poderia ser eliminado pela transformação da Europa nas utopias proletário-comunistas, por cuja tolerância poderia o judaísmo continuar a existir. Aparentemente Marx não se iludia ao combater pela emancipação dos judeus, pois ele tinha plena consciência de ser judeu e queria proteger os judeus da perseguição branca por meio do universalismo, em detrimento das maiorias europeias na própria Europa.

Os mais importantes discípulos de Marx ou eram judeus ou eram descendentes de judeus, a exemplo de Adler, Bauer, Bernstein, Luxemburg, Lenin, Trotsky e os membros da Escola de Francforte. Apesar disso, os marxistas judeus aparentemente não ligavam importância à identidade judia de seus membros, pretendendo apresentar a luta pela emancipação judaica como parte da luta contra a sociedade burguesa. Como observou Kevin MacDonald no CofC, os ativistas étnicos judeus escamoteavam sua etnicidade judaica, recrutando não judeus para servir de manequins, que vestiam de linda roupagem para disfarçar o que na realidade era um movimento judeu. Dissimulando sua judaicidade, os dirigentes marxistas puderam promover os interesses judaicos quase sem nenhuma oposição, o que lhes permitiu recrutar mais inocentes úteis entre os góis. Embora o socialismo moderno deva suas origens a um judeu e tenha sido dominado pelos judeus, o movimento atraiu muitos góis, alguns deles se destacaram, como Bebel e Liebknecht. Aliás, quando foi da morte de Marx em 1883, seu maior porta-voz era Engels, um sabatigói.

Marx dizia-se amigo do proletariado, mas suas relações com a comunidade judaica eram estreitas. Como todos os ativistas étnicos judeus, Marx tinha a obsessão de combater o antissemitismo onde quer que se lhe deparasse, mas para não alarmar os góis, esse combate apresentava-se de mistura com a luta contra a sociedade burguesa. O artifício prestava-se a propósito vital, já que assim Marx acobertava sua atitude adversa à sociedade europeia e ainda atraía os não judeus para a nova fé secular judaica — não judeus que também iriam ajudá-lo na luta contra o antissemitismo, como se apenas militassem pela revolução proletária mundial. Enquanto ínfima minoria nas sociedades europeias, os judeus sempre se serviram de não judeus para a consecução de seus objetivos, assim fizeram os marxistas que se valeram do proletariado, assim fazem os neoconservadores que se valem dos conservadores do estabilismo para favorecer Israel.

A análise e a apologética marxistas sempre tiveram por base o “cepticismo e esoterismo científicos”.[vi] Como indica Kevin MacDonald no seu CofC, os ativistas étnicos judeus do século XX comumente lançavam mão dessas táticas mistificatórias. O capitalismo deve atender a requisitos de alto padrão para ser considerado um sistema econômico viável, apesar de sua longa história de sucesso na geração de crescimento econômico, enquanto o comunismo é sempre considerado profícuo, apesar de seus embaraçosos precedentes de estado policial autoritário, pauperização massiva, totalitarismo extremo e catástrofes ambientais. Temos aí dois pesos e duas medidas quanto ao ônus da prova que servem para apresentar o marxismo como um sistema de crenças viável. De igual modo, os apoiantes judeus de Marx argumentam, maliciosamente, que “O socialismo não fracassou, o que fracassou foi o estalinismo, isto é, a ditadura burocrática do partido”. [vii]

A análise econômica de Marx era tão hegelianizante que seus críticos e adeptos não lhe puderam compreender a exata significação. Livros dele como A ideologia alemã e O capital geram ainda controvertidas interpretações. Ele vazava seu discurso em linguagem científica para cobrir suas profecias como o verniz da credibilidade. Por exemplo, o socialismo de Marx era chamado de socialismo “científico”, para que se distinguisse de suas variantes “utópicas”. O fato de apresentar sua versão do socialismo como “científica” indica que o esoterismo da linguagem de Marx era proposital, no que foi imitado pelos epígonos. Na realidade, o socialismo marxiano consistia numa espécie de culto secular da religião judia, cujos princípios dogmáticos não permitiam revisão, mesmo quando confrontados com irrefutáveis evidências em contrário. Até os nossos dias, nenhuma das leis marxistas do desenvolvimento capitalista tornou possível experiências empíricas de falsificação, nem qualquer de suas profecias foi confirmada.

É interessante notar que Franz Boas não foi o primeiro intelectual judeu a submeter a aplicação social do darwinismo a virulenta crítica intelectual; essa honraria cabe a Marx e a seu sabatigói pessoal, Engels. A princípio, eles eram adeptos entusiastas da obra de Darwin A origem das espécies. Acreditavam que a seleção natural corroborava a análise dialético-materialista do desenvolvimento histórico. Entretanto, Marx e Engels chegaram à conclusão de que a teoria de Darwin era “metafisicamente inaceitável”:

Dado que Darwin via a luta na natureza, em grande parte, como luta entre indivíduos, sua teoria pareceu-lhes solapar a própria possibilidade da solidariedade de classe e a eliminação final do conflito humano. […] Na opinião de Marx, a deficiência mais grave da teoria de Darwin residia na ênfase posta sobre o caráter indeterminado e aleatório das mutações, implicando que no mundo para além do reino animal o progresso fosse “puramente acidental e não necessário”, ao contrário do que desejava Marx e exigia a sua teoria (Marx apud Feuer, 1975, p. 121). O Darwinismo ameaçou a fé de Marx e Engels num processo histórico mais propício. [viii]

Em virtude de a biologia darwiniana haver limitado o poder explanatório de sua dialética histórica, Marx and Engels recorreram a causalidades ambientais e subjetivísticas:

Em razão de que outras teorias da evolução, como as de Trémaux e Lamarck, tivessem enfatizado como causas das mutações adaptativas nas espécies ou nas raças a ação direta do meio ambiente ou a resposta automática às necessidades do organismo, tais teorias pareceram mais atraentes para Marx e Engels (como também para Stálin e Lysenko), por darem sanção “científica” para a mundivisão deles. [ix]

A exemplo dos ativistas étnicos judeus que Kevin MacDonald citou no CofC — Boas, Lewontin, Gould etc. — Marx e Engels combateram a aplicação social do darwinismo, porque comprometia sua capacidade de impor a perspectiva ambientalista às sociedades europeias, a partir da qual projetavam a construção de nova raça humana pela manipulação do ambiente conforme as ideias marxistas. Na consecução desse objetivo, os comunistas mataram milhões de dissidentes, sem nenhum escrúpulo, abrindo caminho para o novo homem que fosse criado pelo sistema educacional comunista.

Marx era conhecido por suas tendências ditatoriais, característica que ele compartia com os ativistas étnicos judeus do CofC. No seu pugnaz empenho para conquistar o poder, os judeus foram acusados de autoritarismo pelos seus oponentes. Em 1850, Eduard Müller-Tellering publicou Vorgeschmack in die kuenftige deutsche Diktatur von Marx und Engels, ou A foretaste of the future German dictatorship of Marx and Engels [A pré-estreia da futura ditadura alemã de Marx e Engels], atacando Marx por sua mania de dominação. Os dois tiveram um bate-boca, que Müller-Tellering atribuiu à sede de vingança do “futuro ditador alemão” Karl Marx, motivada pelo fato de ele, Müller-Tellering, haver publicado artigo contra os judeus no próprio jornal de Marx, o Neue Rheinische Zeitung [Nova Gazeta Renana]. Segundo Müller-Tellering, o implacável e vingativo comportamento de Marx resultava da natureza dos judeus, da perversidade deles.

A personalidade autoritária de Marx alienou dele o anarquista Mikhail Bakunin (1814–1876), que escreveu o seguinte:

Todo esse mundo judeu constitui uma só seita exploradora, um tipo de povo-vampiro, um parasito coletivo, voraz, auto-organizado não apenas por sobre as fronteiras dos Estados, mas também por sobre as diferenças de opinião política — esse mundo está, pelo menos em grande parte, à disposição de Marx e dos Rothschilds. Eu sei que os Rothschilds, reacionários como são e continuarão sendo, admiram profundamente os predicados do comunista Marx; e por sua vez o comunista Marx sente-se atraído, por interesse instintivo e respeitosa admiração, pelo gênio financeiro dos Rothschilds. A solidariedade judaica, aquela poderosa solidariedade que se manteve ao longo dos séculos, ligou Marx aos Rothschilds. [x]

Percebe-se aí que Bakunin tinha consciência do grande número de seguidores judeus de Marx — ele sabia que o mundo judaico repartia-se entre Marx e Rothschild. Bakunin rejeitou a ditadura do proletariado de Marx, porque implicava a centralização do poder do Estado, o que levaria ao seu controle por pequena elite. Marx e Bakunin andavam sempre às turras. Bakunin lutava por uma “confederação descentralizada de comunas autônomas”, sendo atacado por Marx, para quem o melhor seria a ditadura do proletariado. Depois do embate entre os comunistas de Marx e os anarquistas de Bakunin, no Congresso de Haia de 1872, Bakunin acabou sendo expulso da Primeira Internacional, por determinação pessoal de Marx.

Assim como os ativistas judeus citados no CofC, Marx combatia na guerra étnica contra as sociedades europeias. O seu socialismo científico ameaçava solapar a moral e as fundações intelectuais da Europa, de sorte que se transformasse numa sociedade secular para suportar indefinidamente a continuação da existência do judaísmo. Por exemplo, em O capital, a sua obra magna, Marx tentou desvelar o funcionamento dos mecanismos internos do modo de produção capitalista na Europa Ocidental, explicando por que ele entraria em colapso sob o peso de suas próprias contradições, preparando o caminho para a revolução proletária. A ditadura do proletariado era visionada como ferramenta de forte dominação, centralizada e autoritária. Quando ela foi imposta aos russos pela elite hostil que assumiu o poder a partir de 1917, teria como consequência a morte de muitos milhões e a opressão política de todos, sendo plausível supor que Marx teria ficado muito feliz se houvesse sido capaz de impor semelhante regime sobre todos os europeus. Embora a defesa que fazem os judeus do universalismo nas sociedades brancas signifique a autodestruição cultural e racial dos próprios brancos, ela enseja as condições ideais para a prosperidade judaica, ao maximizar o controle judaico sobre a população europeia inclusiva e ao minimizar o temor judaico da perseguição antissemítica.

Foi Marx quem assentou as bases ideológicas da principal corrente do ativismo étnico judeu no século XX. No quadro teórico do CofC, a importância de Marx é depreendida de sua condição de fundador judeu de um movimento intelectual e político judeu em meado do século XIX, cuja influência estende-se até o presente. Por exemplo, o mais influente movimento intelectual judeu contemporâneo, a Escola de Francforte, era seita marxista ortodoxa a princípio, mas revisou o marxismo, desviando-o da luta de classes para uma teoria enfatizando o etnocentrismo branco como o problema fundamental e inaugurando o que agora é frequentemente denominado de marxismo cultural.

A conclusão é que o engajamento judeu na esquerda remonta a meado do século XIX e continua exercendo influência no mundo contemporâneo, mostrando-se diante dos europeus como força opositora.


BIBLIOGRAFIA

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REFERÊNCIAS

[i] MACDONALD, Kevin. Culture of critique. p. 11-2.

[ii] ENGELS, Frederick. “On anti-semitism”. Arbeiter-Zeitung, n. 19, 9 MAIO 1890. Disponível em: https://www.marxists.org/archive/marx/works/1890/04/19.htm

[iii] MICHELS, Robert. Political Parties. p. 246.

[iv] SEIGEL, Jerrold. Marx’s Fate. p.114.

[v] MARX, Karl; ENGELS, Frederick. “The Holy Family.” Marxists.org, 2019. Disponível em: www.marxists.org/archive/marx/works/1845/holy-family/ch04.htm.

[vi] MACDONALD, Kevin. Culture of Critique. p. 122.

[vii] MANDEL, Ernest. The Roots of the Present Crisis in the Soviet Economy (1991). Disponível em: <https://www.marxists.org/archive/mandel/1991/xx/sovecon.html>.

[viii] KAYE, Howard. Social Meaning of Modern Biology. p. 25.

[ix] KAYE, loc. cit. .

[x] DRAPER, Hal. Karl Marx’s Theory of Revolution, v. 4, p. 596.

 

Fonte: The Occidental Observer. Autor: Ferdinand Bardamu. Título original: Karl Marx: founding father of the jewish left ? Data de publicação: 4 de janeiro de 2020. Versão brasilesa: Chauke Stephan Filho.